- Occhi
deboli
-
- Paola
aprì la porta. Nella penombra che soffondeva
il pianerottolo, la sua figura sottile si
stagliò nitidamente scura contro il chiarore
dell'interno.
- -
Entra! - esordì gioiosa.
- Entrai.
Mi abbracciò schioccandomi due baci sulle
gote, poi s'allontanò e sorrise strizzando i
suoi occhi deboli. Da albina. Natura che la metteva
fortemente a disagio e che tentava di nascondere
tingendo i capelli di biondo e truccando ciglia e
sopracciglia di nero. Non lo aveva mai confessato
neppure a me, io lo avevo saputo da un'amica
comune. La tradiva, però, un'assenza di
colori: l'incarnato troppo bianco e le iridi di
un'incerta sfumatura rosata. Risposi al sorriso con
un sorriso e strizzai i miei occhi deboli. Ma la
mia situazione era diversa
- dalla
sua, più grave. Patologica. I miei occhi non
potevano mentire. Tuttavia anch'io m'illudevo di
poter bluffare. Tingendo i capelli di biondo e
giocando alla svampita.
- -
Come stai bene, sei dimagrita. -
continuò.
- Ripensai
a una sera di un anno o due prima, in una palestra
dove ci incontravamo, per fare teatro, con alcuni
studenti del corso di laurea in spettacolo che
tentavano un esperimento insieme a giovani minorati
della vista. Lei naturalmente non figurava fra
questi ultimi e nemmeno tra i primi. Era iscritta a
Filosofia, ma riteneva "l'esperienza altamente
formativa e interessante anche filosoficamente". Io
non avevo la minima idea di che intendesse dire, ma
non chiesi spiegazioni per non fare brutta figura.
Ora mi domando se qualcuno avesse capito di che
accidenti parlasse. Forse non lo sapeva neanche
lei. La sua unica preoccupazione , probabilmente,
era di tracciare una linea di demarcazione netta
per non essere confusa con noi, i minorati della
vista.. Ebbene, quella sera di uno o due anni
prima, uno dei ragazzi del corso di laurea in
spettacolo s'era complimentato con me dicendo che
ero una bella ragazzona in salute. Paola, in piedi
fra lui e me, torcendo naso e bocca, aveva
commentato: - Anche troppo!
- Forse
era vero. Alta, soda, con un seno florido, le gambe
tornite, ero proprio diversa da tutte le altre con
quell'aspetto così tisicamente alla moda.
Allora non me l'ero presa, e adesso mi
schermii.
- -
Ma sì, ma sì ti dico! - tirò
avanti lei - Sei in perfetta forma. - poi soggiunse
con un imbarazzo affettato - Oh accidenti, mi
dispiace sul serio per
quest'inconveniente.
- L'"inconveniente
- " era un ragazzo di cui si era innamorata e che
ora viveva con lei, mandando in fumo gli accordi
presi prima dell'estate di dividere il suo
appartamento con me. Infatti dopo la metà di
agosto una lettera mi aveva annunciato la
novità. Però mi tranquilizzava: mi
avrebbe aiutata a trovare una soluzione. E ora
eccomi lì, a piedi e speranzosa.
- -
Comunque stai allegra, - stava dicendo - io non
pianto in asso un'amica. Guarda, ho preparato una
lista di affittacamere. - Mi sventolò
davanti un foglio. - E ora che ne diresti di un
tè? Accettai.
- -
Accomodati pure dove vuoi...
- Raccolsi
l'invito e andai in camera. Quell'appartamentino
all'ultimo piano del decrepito stabile lo conoscevo
bene: due stanze scalcinate e un bagno che meritava
senz'altro il titolo di cesso. Mi sedetti sul letto
posto sul parete di fronte alla finestra. Un altro
lettino era messo ad angolo contro il muro
adiacente.
- "Il
mio letto!", non potei fare a meno di rammaricarmi
fra me e me. - Le lezioni d'inglese me le darai lo
stesso, vero? - chiesi da una stanza
all'altra.
- -
Sicuro! - trillò Paola dalla
cucina.
- Roteai
lo sguardo incerto tutt'intorno fermandolo sulla
chitarra in piedi per terra, la parte posteriore
addossata all'armadio..
- Mi
parve abbandonata. Come me. Io l'avrei trattata
meglio, pensai. Io, però, non possedevo una
chitarra, non sapevo nemmeno suonarla, riuscivo
sì e no a fare tre accordi in croce. Lei
invece suonava bene, o almeno così mi
pareva. Credo che avesse imparato in Inghilterra,
forse addirittura all'isola di White, dove aveva
anche praticato il libero amore. Io la invidiavo
apertamente, nel senso buono: non per il libero
amore: per l'isola di White! E per quegli anni di
differenza fra noi che la rendevano grande e
irraggiungibile ai miei occhi. Inoltre era abile in
varie attività nelle quali io stessa avrei
voluto cimentarmi: ballava, recitava, cantava.
Soprattutto parlava e scriveva correttamente
l'inglese.
- Mi
raggiunse, due tazze di te su un vassoio di legno
decorato e un contenitore di latta con dentro
qualche frollino superstite. Si sedette di fianco a
me.
- -
Ottimo! - apprezzai dopo un paio di
sorsate.
- -
L'ho portato da Londra. Senti, - cambiò
discorso - che hai deciso? Fai ancora
teatro?
- -
Non so, forse lascio. - risposi infilando la mano
nella scatola di latta - Anche i frollini sono
inglesi?
- No,
danesi. Ridacchiò: - Però non li ho
portati da un viaggio all'estero, ma da uno al
supermercato.
- -
Ecco, - risi di rimando - quel viaggio lì lo
faccio spesso anch'io.
- -
In ogni modo, per il teatro, hai ragione.
S'è tutto arenato. All'inizio c'era un
entusiasmo! ma poi...-, s'interruppe.
- -
All'"inizio" - sottolineai con il tono della voce -
"quando tu non c'eri", non immagini nemmeno quante
idee, quanti progetti!
- -
Finisce sempre così. - sospirò. -
Quando si comincia qualcosa, fuochi d'artificio, e
poi giù, flop!
- -
Non è il tuo caso - dissi.
- -
Non è il mio caso? Scherzi? Guarda che
schifo con l'università, non riesco ad
andare avanti. Spero davvero che tu saprai fare di
meglio, matricolina.
- E
il tuo ragazzo che fa?
- -
Suona.
- -
E' un musicista?
- -
Di strada. In questo momento, come ogni giorno,
è al sottopassaggio con la sua chitarra e
col suo piattino.
- -
Affascinante! - esclamai sincera. Lo avrei voluto
anch'io un ragazzo così, seppure mia madre
lo avrebbe bollato come "zingaro", che nel suo
vocabolario non significava Rom, bensì
perdigiorno e accattone.
- -
Affascinante, sicuro, - fece lei - ma soldi
pochi.
- -
Però chissà che belle serate e che
gioia in questa casa..
- -
Vallo a dire ai vicini - rise forte strizzando
ancor di più i suoi occhi deboli. Io
abbassai i miei su un'improvvisa tristezza. E
così l'"inconveniente", quello che mi aveva
fregato il posto letto, stava acquistando un
profilo, uno spessore. Doveva avere anche un
qualche nome, tuttavia non lo chiesi.
- -
A che pensi? - domandò.
- -
Mi fa strano essere all'università, mi sento
diversa. Grande.
- -
E così all'inizio - disse poggiando sul
pavimento la tazza ancora piena per metà.
Posai la mia accanto alla sua.
- -
Non ne vuoi più?.
- -
E' tanto, neanche tu l'hai finito.
- -
Oh, ma io lo bevo tutti i giorni! - Poi, subito
dimentica del tè, come rapita soggiunse: -
Guarda che luce! - E sfarfallò lo sguardo
nel bagliore che aranciava la stanza.
- Mi
alzai, presi la chitarra per il manico e gliela
porsi.
- -
Perché non suoni qualcosa?
- -
Certo. - assentì, ma le sue mani restarono
inerti sulle corde, estatiche come i suoi occhi
deboli.
- -
Suona! - le intimai implorante.
- -
Non qui, non qui. - Scattò in piedi, la voce
e le mani percorse da un'improvvisa eccitazione. -
Vieni!
- Uscì
dalla camera in fretta, io la seguii in
cucina.
- -
Vieni! - ripeté prendendo a salire la scala
che conduceva a un terrazzino in mezzo al
tetto.
- Un
fuoco d'oro rosso incendiava l'aria. Ci sedemmo per
terra. Spinsi lo sguardo fra i tetti, tra i muri
rossi dei palazzi. Non volevo pensare che un giorno
nel futuro, non sapevo quale, tutto quel colore nei
suoi particolari, nei toni, nelle sfumature,
sarebbe rimasto solo un meraviglioso ricordo. Ma
intanto ci pensavo.
- "Quando
accadrà?" chiesi tra me e me, ascoltando i
tonfi del mio cuore, mentre Paola già
suonava e cantava strizzando i suoi occhi
deboli:
- -
Risposta non c'è, o forse
chissà...
-
Naschtmarkt
-
- L'ascensore
s'aprì.
- In
un mirabile gioco di luci e specchi, la hall ci
accolse nel cuore di un prisma scintillante come un
diamante della KärtnerStrasse. Voci
sconosciute e tra loro straniere vorticarono
nell'aria, seguendo il ritmo luminoso dei
cristalli.
- Poi
lasciammo che la periferia viennese ci
abbracciasse, pungendoci il viso.
- Vacanzieri
da poche ore, eravamo alquanto incerti su come
muoverci attraverso la città. Sulla
MariahilferStrasse, la stazione della metropolitana
e degli autobus sembrava deserta. Poco distante
ammiccava la WestBahnhof. Forse al suo interno
avremmo trovato qualcuno.
- Una
ragazza ferma sul marciapiede ci guardò.
Ignorandola entrammo nella stazione
ferroviaria.
- C'erano
poche persone e quelle poche andavano di
fretta.
- Tornammo
indietro.
- Come
da manuale, il mio compagno domandò alla
ragazza ferma sul marciapiede: "Excuse-me could you
help me?".
- "Parla
italiano" fu la risposta. Sorpresi le esponemmo la
situazione: volevamo andare al Naschtmarkt, ma non
sapevamo come raggiungerlo ed ormai mancava
soltanto un'ora alla chiusura.
- "Siete
fortunati, aspetto un amico. Doveva essere
già qui. io sono ancora qua perché
lui ritarda. Lui può spiegare bene". Si
esprimeva con chiarezza, seppure con un imprecisato
accento straniero.
- "Siete
in vacanza?". Sì, lo eravamo, ma solo per
qualche giorno. E Vienna era un contagio, uno
struggimento che attanagliava di sospiro in
sospiro. Ci tenevamo stretti l'uno all'altra,
respirando il vento che scorrazzava secco e pulito.
Faceva molto meno freddo di quanto avessimo
immaginato prima di partire. Lo dicemmo alla
ragazza ferma sul marciapiede e lei disse: "Io mi
frego di freddo. Porto minigonna anche con freddo.
Non mi fa paura. Nulla mi fa paura, nemmeno la
polizia. Visto quanta? A Zurigo non era
così, ho abitato quattro anni e mai visti
tanti poliziotti come qui in un giorno solo. Un
angolo, un poliziotto. Sempre addosso. Sempre.
Fumate?". Lui ringraziò rifiutando. Io
accettai ringraziando.
- Mi
venne pensato che soltanto un paio d'ore prima, il
mio compagno ed io avevamo commentato con
meraviglia il fatto di non aver incontrato nemmeno
un poliziotto. Eppure avevamo girato per tutta la
mattinata e buona parte del pomeriggio. La ragazza
con la minigonna disse ancora: "Nemmeno in Italia
poliziotti danno fastidio. Mi piace Italia
perché italiani sono come noi".
- Il
fumo mi bruciò nella gola.
- Qualcosa
d'imprevedibile aveva preso ad agitarsi dentro di
me, sillabando smozzicati balbettii. Con
l'innocenza di chi inconsapevolmente conosce
già una risposta che non vuole sentire,
domandai:
- "Sei
di Zurigo?"
- "Chi
io? Sei matta? Sono albanese, io".
- L'imprevedibile
dentro di me fece un tonfo, si fermò, poi
ricominciò ad agitarsi balbettando qualcosa
di molto improbabile. Dissi che si stava facendo
troppo tardi e che dovevamo proprio andare, se
volevamo giungere al Naschtmarkt prima della
chiusura. La ragazza con la minigonna m'interruppe:
era colpa sua se avevamo perduto tutto quel tempo e
lei avrebbe rimediato proponendo al suo amico di
darci un passaggio.
- Schiacciai
con forza la cicca sotto il tacco.
- Andammo
avanti a chiacchierare, l'amico non arrivava ed io
perdevo di continuo il filo del discorso.
Imprevista la coda di una frase mi sferzò
come un colpo di ramazza: "...presento. Faccio
spettacolo".
- Non
feci domande sul genere di spettacolo. Avevo
già la risposta. Dissi: "Sei gentile,
però se rimaniamo ancora il Naschtmarkt
chiuderà ed io voglio andarci. Subito."
Salutando frettolosamente, spinsi il mio compagno
nella FelberStrasse. Attraversammo di corsa e
finalmente detti voce ai miei timori: non potevamo
fidarci di quell'albanese, chissà chi era!
Probabilmente una prostituta. Non sapevo se lui
avesse avuto i miei stessi pensieri, ma ora non
avrebbe potuto più ignorarli.
- La
scala che scendeva verso la sotterranea era ormai a
pochi passi, quando la voce della probabile
prostituta arrestò la nostra fuga. C'era una
macchina ferma accanto a lei, con dentro un uomo:
il probabile protettore.
- L'improbabile
che avevo dentro prese a contorcersi disperato.
Vigliaccamente mi sottomisi
all'ineluttabile.
- Sedemmo
sui sedili posteriori.
- Il
probabile protettore parlava in albanese, la
probabile prostituta traduceva. Egli trovava che la
nostra lingua fosse straordinariamente bella e con
i suoi amici si pavoneggiava fingendo di
conoscerla. Loro lo ammiravano ed erano un po'
invidiosi. In realtà le cose non stavano
così e davanti ad un italiano non avrebbe
osato pronunciare nemmeno una parola.
- Conversavamo
come un gruppo affiatato e scherzavamo ridendo, ma
intanto frenetici mozziconi di telegiornale da
edizione della sera zoomavano dalla
memoria.
- Notai
che anche Vienna aveva strade strette e buie. Non
sarebbe stato difficile immobilizzarci e rapinarci.
E avevamo portato tutto con noi, documenti, soldi,
tutto, però ora dovevo rimanere calma. Se ci
avessero derubati il consolato avrebbe sistemato
ogni cosa. Ma era necessario mantenere la calma.
Istintivamente toccai la mia fede nuziale: no, non
sarebbe stato possibile sistemare ogni cosa. La
probabile prostituta stava dicendo che il suo amico
e lei provenivano da regioni distanti tra loro e
con differenti usanze. Anche loro due erano
diversi, pensavano diversamente e in modo diverso
parlavano.
- "Lui
come Sicilia, io come Toscana. Si può capire
questo?"
- Sì,
questo si poteva capire, e poteva anche capitare di
andare a morire in un vicolo di Vienna.
- L'automobile
si fermò.
- La
probabile prostituta disse: "Ecco questo è
Naschtmarkt". In alto sopra di noi, intermittenti
iridescenze annunciavano il Natale ormai prossimo.
Con un sospiro di sollievo schizzai in strada e la
vergogna mi schiacciò. Era giunto il momento
dei saluti e i saluti furono calorosi e calorosi
gli auguri e i ringraziamenti per quel
provvidenziale passaggio.
- Mi
dissi che in fondo non avevo mai creduto di essere
seriamente in pericolo, ma l'improbabile
pregiudizio che aveva scalpitato imprevedibilmente
dentro di me, ora pareva guardarmi e non appariva
più tanto improbabile.
|