Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Incipit del libro Quattroracconti di
Roberto Cicero Collana I salici (narrativa) pp. 64 - L. 18.000 - Euro 9,30 ISBN 88-8356-057-4
- L'occasione
- I
- Cosa potevo fare? Ero veramente disperato, l'indomani mattina m'avrebbero sfrattato senza tanti complimenti, buttato fuori a calci, se necessario, il Direttore me l'aveva detto: "Pepe, lei ha ormai pagato il suo debito alla società, e oggi è un uomo nuovo, è venuto il momento di dimostrare a tutti, là fuori, chi è veramente".
- Avevo provato a protestare: "Nuovo a sessant'anni? Ma cosa vuole che dimostri alla mia età e nelle mie condizioni? Se non mi sbronzo ogni sera non sono più io, fuori non ho né amici né parenti, la mia famiglia l'ho già sterminata vent'anni fa e nessuno mi farà lavorare: cosa vado a fare là fuori? La mia famiglia è qui, non potete abbandonarmi anche voi".
- Parole inutili, non rimaneva che godermi l'ultima sbronza in santa pace e l'ultima notte "in famiglia"!
- La mattina dopo, come al solito, la prima immagine aprendo gli occhi - dopo una notte di sonno agitato nel mio caro lettino sgangherato che dovevo lasciare, fedele compagno di mille incubi - fu il poster della ragazza nuda che avevo incollato al soffitto, per assicurarmi sempre un dolce risveglio! Del resto, la mia condizione di detenuto di lungo corso non mi permetteva una vita sessuale normale, fatta di carne ed ossa, e allora dovevo per forza darmi al sesso di carta, "all'iconografia", come dice Pasquale, il secondino che mi passa sottobanco le riviste pornografiche. Ne possiedo una vasta raccolta che custodisco in una grossa scatola di cartone dentro l'armadietto. Sono le mie uniche letture, i miei soli momenti d'impegno "culturale", per il resto la mia giornata è fatta di ozio e piccole risse fra detenuti, in attesa della prossima ora d'aria e di "socializzazione" che trascorro con i miei colleghi, tutta gente "scelta", scelta dalla vita a soffrire l'inferno da viva! Nelle celle vicine alla mia ci sono gli amici più cari: c'è Vladimir, giovanissimo albanese calvo, esperto in rapine ai furgoni portavalori con l'aggravante di aver sparato e ucciso una guardia; c'è Salvo "King", pescatore cinquantenne e stupratore incallito, a suo dire "incompreso divulgatore d'amore!"; c'è anche Romuletto, un amico d'infanzia che ho ritrovato qui dopo trent'anni e che non vedevo da quando frequentavamo insieme le "Crispi", le Scuole Medie del paesino di Cava Marina, sulla costa marchigiana, nostra terra d'origine. Io sono nato dalla povera mamma Ninetta e da padre "occasionale", e cresciuto con una vecchia zia isterica, senza affetto e senza una lira. Una vita difficile, molto simile a quella di Romuletto, senza un padre e con la madre che si guadagnava da vivere nel modo più antico, "accudito" anche lui da altri, dalla nonna semiparalitica, e presto costretto a darsi da fare con piccoli furti ancor prima d'aver terminato la scuola dell'obbligo: è sempre in carcere, la galera è la sua vita e il suo mestiere, ormai fa la spola fra la cella e la sua residenza "civile", una baracca in legno col tetto di latta lungo il Tevere. E c'è soprattutto Sasà, nella cella di fronte alla mia, l'unico vero amico, quello con cui trascorro più tempo, che ho conosciuto qui e con cui ho legato subito per "affinità elettive", dato che, come me, è un appassionato consumatore di alcool in quantità industriale, prodotto gentilmente fornitoci da suo cognato Gigi tramite il prezzolato Felice, il secondino più corruttibile, grande estimatore del vitigno; ma Sasà è un buono, purtroppo non rimarrebbe qui a lungo, ha solo gravemente storpiato un maestro elementare che aveva osato dare uno schiaffone a Valentino, ultimo dei suoi nove figlioletti. E infine, proprio all'alba del mio ultimo giorno da carcerato, è arrivato, ospite del nostro premiato "ricovero per dannati", un ex barbone che ultimamente aveva fatto il salto di qualità, collezionando organi genitali femminili in giro per i parchi della regione: sarebbe certamente stato interessante parlare con lui!
- Dopo aver affidato le mie preziose riviste a Vladimir, che non avrebbero "dimesso" tanto presto, alle sette della sera ero già fuori, al colmo della nostalgia per gli amici appena salutati. Era una stupida serata d'inverno, gelida, buia e ventosa, e cominciava a cadere una pioggerellina lieve e fitta fitta che m'incupì ancor più. Naturalmente, non venne nessuno a prendermi all'uscita dal carcere, del resto non avevo nessuno! Il mio unico parente di sangue è lo zio Lele, se ancora è in vita, fratello minore di mio padre e omosessuale travestito che vidi per l'ultima volta poco prima che entrassi in carcere, cioè di far fuori mia moglie e i miei suoceri nel sonno: anche se oggi lo zio Lele si fosse presentato, non l'avrei riconosciuto per vari motivi!
- M'incamminai col mio fagotto di stracci lungo il viale che dal carcere porta in città, non sapendo esattamente dove andare. Di tanto in tanto mi voltavo indietro a guardare le finestrelle del penitenziario, tutte accese. Pareva che mi salutassero, in segno di addio ad un figlio ormai perduto. Per fortuna, all'uscita, il vecchio Sasà m'aveva dato un po' dei suoi soldi per affrontare i primi tempi, i più difficili, e così decisi di non soffrire subito e di recarmi alla prima osteria per una memorabile sbornia, proprio per attutire lo choc da cambiamento. Durante il tragitto incontrai una buona rappresentanza della locale vita notturna: prostitute, protettori, clienti e barboni, tutti lì, in periferia, emarginati e già condannati.
- Vagando a zonzo per una città che non riconoscevo più, m'intrufolai in una delle stradine buie del porto, dove avevo notato una piccola insegna luminosa. Una volta tanto ero stato fortunato, un cartello appeso alla porta recitava "Osteria da Pippo - aperto". Entrai senza bussare, c'erano poche persone ai tavoli ma nessuno mi notò. Sedetti in uno libero e ordinai subito un bicchiere pieno di rosso all'oste corpulento, probabilmente il "Pippo" del cartello. Questi mi chiese "quale rosso" ma io risposi alzando le spalle e scuotendo la testa, come per dire che non intendevo fare lo schizzinoso e che avevo intenzione di "valutare" tutto il campionario della Casa! Dopo un paio d'ore di tali valutazioni, cominciarono i brindisi solitari alla mia nuova vita, augurandomi "ad maiora" a voce sempre più alta e cantilenante. Dopo un po', dall'ultimo tavolino in fondo al locale sentii urlare:
- "Ehilà, amico, io sono Gino, e vorrei tanto essere contento come te. Che diavolo festeggi? La Prima Comunione o lo sbarco degli Alleati? Senti, vengo lì, così parliamo meglio" disse la voce, forte e strascicata.
- Gino s'avvicinò al mio tavolo barcollando e lasciandosi poi cadere sulla sedia a peso morto. Ricordo la sua giovane età, non più di trentacinque anni, due lenti spesse che però non nascondevano gli occhi lucidi, ed un linguaggio ricco ed articolato, inusuale in un disperato mendicante, per di più sbronzo.
- In due o tre bevute d'affiatamento eravamo già amici, ma senza scambiare alcuna parola tranne "prosit!" o "alla nostra!", e fu un'amicizia che durò solo poche ore d'una notte, in una lucidità gravemente compromessa dall'alcool. La pioggia batteva ormai forte sull'unica finestrella chiusa del locale, i tavolini erano umidi e rossastri, e l'aria era quasi palpabile in una rivoltante mistura di fiati, olio fritto e fumo stagnante.
- II
- Il mio nuovo amico non era un professionista, reggeva poco l'alcool. Infatti, dopo appena mezz'ora dal nostro incontro, capii che era arrivato al "capolinea":
- "Signor lei, - cominciò all'improvviso, tralasciando la parte finale di ogni parola e dondolando la testa a destra e sinistra su cui erano appiccicati dei capelli che, un tempo, dovevano essere stati rossi - io non so come lei si chiami di nome ma a me mi chiamano "il Pazzo", chissà per quale motivo, bòh!, però lei mi sembra saggio e io la chiamerò "il Saggio"" e tracannò in un sol attimo mezzo bicchierone di Chianti. Poi continuò:
- "E allora, signor Saggio, mi dica, come ci si sente ad esser saggi, a sapere sempre tutto, ad essere salutati e riveriti dagli altri, ad essere in grado di prevedere gli effetti di un'azione e soprattutto a saper controllare le proprie in ogni circostanza?".
- "Beh, signore, io non..." cercai di replicare dopo qualche secondo, stordito dalla stranezza di quella domanda e dallo sforzo di concentrazione cui ero stato sottoposto senza preavviso.
- "Signor Pazzo, mi chiami signor Pazzo, e io signor Saggio, così..." mi interruppe, facendomi perdere la sudata concentrazione, che riacquistai bevendoci sopra.
- Ripresi lento: "Sì, signor Pazzo, dicevo che non lo so, ma forse sono saggio perché do una parola di conforto a tutti, cioè a tutti quelli che ne hanno bisogno. E ci si sente meglio" - dissi improvvisando, provando disperatamente a calarmi nella parte impostami, visto che non avevo la forza di reagire per chiedere spiegazioni.
- "E come fa, signor Saggio, a capire quando costoro ne hanno realmente bisogno?" incalzò il matto, ubriaco all'inverosimile.
- "Signor Pazzo, probabilmente in quanto sono veramente saggio. Lei non può capire gli altri perché ella è certamente pazzo, questo sarà stato accertato dai dottori, che hanno studiato e dunque sono normali" dissi dopo un minuto e tre bicchieri, ormai intontito e quasi convinto d'esser saggio sul serio.
- "Certo che lei è proprio saggio, signor Saggio - m'adulò il pazzo - io infatti, che sono un vero pazzo, non riesco mai a capire gli altri. Per me gli altri sono quasi tutti matti, cioè dei falsi pazzi!" proseguì, lui sì profondamente convinto della propria pazzia.
- "Quasi tutti, signor Pazzo?" chiesi, col mento sul tavolino.
- "Quasi tutti meno due, signor Saggio" rispose il collega ad occhi chiusi.
- Poi, aprendone uno, continuò: "Proprio così, signor Saggio, meno due: uno sono ovviamente io, e l'altro è la mia pazza immagine allo specchio".
- Il discorso cominciava a farsi pesante, bisognava assolutamente berci sopra.
- "Pazza immagine allo specchio?" ripetei stralunato, tanto per fargli credere che lo seguivo.
- "Sissignore, pazza immagine allo specchio" riconfermò il Pazzo, sbarrando gli occhi come un pazzo.
- E infervorandosi, forse per svegliarmi da un torpore ormai evidente anche ad un pazzo: "Lei però mi sorprende, signor Saggio: che saggio è se non capisce che, essendo io pazzo, è ovviamente pazza anche la mia immagine allo specchio? Non mi faccia fare sciocchi ragionamenti da saggio, signor Saggio, e non faccia lei il pazzo. Non sarebbe un vero pazzo!".
- Mi ridestai in parte, aprii gli occhi, rialzai la testa e per questo brindammo. Notando infine che il mio torpore stava passando a lui, ricambiai il favore d'avermi svegliato impegnandolo con una considerazione che lo riguardava e che forse lo avrebbe stimolato:
- "Allora, stia bene a sentire, signor Pazzo. Lei ha ragione, è pazzo, ma purtroppo non completamente. Vede, non vorrei contraddirla, ma io, che forse sono saggio, ho capito che la sua immagine allo specchio sono io: la sua pazzia, apparente nella realtà, in verità riflette la sua reale saggezza. Quella saggezza che poi lei vede in me, ma che è la sua".
- Ottenni lo scopo prefissatomi e la sua attenzione, ma persi l'amico. Infatti, serio in volto, ribatté con mia grande sorpresa:
- "Signor Saggio, io sono per tutti "il Pazzo", non sarà certo lei a dirmi chi sono, tantomeno che non sono pazzo. Se non lo fossi, dovrei continuare a fare i miei esperimenti di Fisica e non potrei più cercare Teresa, che se n'è andata tre anni fa... ora, scusi tanto, non posso correre questo rischio, la mia Teresa forse è in pericolo, ha bisogno di me, che io la cerchi..." e tirò fuori, lentamente, da uno sacchetti di plastica che aveva con sé, un grosso coltello a serramanico che fece scattare sotto il tavolino.
- Intuii la mia grande occasione, sferrai un calcio alla mano che teneva il coltello, mi impossessai della grossa arma e gliela piantai al cuore, passandolo da parte a parte.
- Si tornava a casa.
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