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Prefazione
"Né angeli, né demoni", nuova
opera di Rosa Maria Corti Terragni, chiude la trilogia
iniziata con "Mistero all'Abbazia" e "La
Colombera" come a suggello d'una lunga
rivisitazione storica che l'autrice conduce al suo
epilogo sempre confermando la capacità
narrativa di rendere "vivo" ciò che racconta e
l'estrema attenzione al giusto dosaggio delle
raffigurazioni dei protagonisti, dei riferimenti
storici e culturali nonché dell'abilità
nel ricreare atmosfere antiche che sono
meravigliosamente "vere".
- Gli avvenimenti
vengono riportati nel diario della conversa Gertrude
Vols, vicende conosciute e avventure di cui fu anche
protagonista, che racconta della sua devozione per la
nobile monaca Ildegarda dalla quale aveva ricevuto
numerosi insegnamenti, potendo sempre contare sulla
sua protezione amorevole e su un rapporto che si
basava sulla totale fiducia.
- Nel silenzio del
monastero St. Johann, in un freddo inverno che
ghiacciava l'acqua, la conversa Gertrude si avvia al
suo calefatorium, e i suoi pensieri vagano tra i
ricordi che rivivono il suo lungo peregrinare al
seguito di Ildegarda, ora divenuta badessa; quindi
l'arrivo, nel febbraio del 1262, al monastero
benedettino di San Faustino e Giovita, in Tremezzina,
sulle rive del lago di Como; e poi, nell'hospitalis
della Carolza, sui monti di Casasco, dove cercavano di
mettersi al sicuro dai tragici eventi che si
prospettavano anche se poi Ildegarda si era dovuta
nascondere e Gertrude era rimasta in attesa di
ricongiungersi con lei, incontro che avverrà
nel Tirolo e, subito dopo, il trasferimento al
monastero di St. Johann e una nuova partenza per una
missione affidatale da Ildegarda per conto dell'amato
fratello Ulrico, accompagnata da Ludwig che l'avrebbe
aiutata ad affrontare la nuova pericolosa
impresa.
- Ora, il Signore di
Tarasp, l'avido e vendicativo Reichemberg, aveva
deciso di maritare la figlia Matilde anche per
accrescere gli appoggi politici e incrementare la sua
forza grazie all'unione delle due famiglie che si
riunivano, i Reichemberg e i Planta.
- Da questa decisione
scaturirà un susseguirsi di eventi inaspettati:
il rapimento della figlia Matilde, il ritorno del
conte Ulrico, fratello della badessa Ildegarda, che
aiuterà Matilde a fuggire e, dopo averla
salvata, si innamorerà di lei; seguiranno poi
lunghe traversie e vicissitudini d'ogni sorta, e, alla
fine, la giovane Matilde sarà liberata dal
padre e il suo destino, ormai già segnato, la
condurrà in convento.
- Rosa Maria Corti
Terragni, in una continua miscela di riferimenti
storici, di brevi spaccati di vita quotidiana, di
contese e conflitti tra feudatari, di alleanze e
tradimenti, di precarietà quotidiana, che
vedono come sfondo le atmosfere d'un carosello
medioevale, rese nel pieno della loro efficacia,
riesce ad alimentare in continuazione, immettendovi
sempre nuova linfa, questo nuovo libro che chiude la
trilogia sopra accennata, mai dimenticando di
ammantare le vicende con una narrazione densa di
eventi che coinvolgono fino all'ultima
pagina.
- Di sicuro, si deve
prendere atto d'una precisione e perizia nelle
descrizioni storiche, nella rappresentazione dei
personaggi, nelle raffigurazioni dei luoghi del lago
lariano e d'una innegabile capacità, da parte
di Rosa Maria Corti Terragni, di fissare sulle pagine
di "Né angeli né demoni", una
fedele fotografia del tempo in cui si snodano gli
eventi, accompagnata da una scrittura precisa che
diventa un appassionato abbraccio alle storie della
sua terra.
Massimo
Barile
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Né
angeli né demoni
Intrighi,
tradimenti e amori
dalla Rhaetia al Lario
nell'affascinante Medioevo
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-
Ai
Gaddi,
mia "radice" e "Magistri"
fiorentini
- O voi ch'avete
'ntelletti sani
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
Dante, Inferno, XI, 61-63
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- IL
SEGNALE: AUTUNNO 1273
Nel cuore
del monastero di St. Johann regnava il
silenzio.
- La notte, in quel
primo giorno di novembre, era stata particolarmente
rigida tanto che nel dormitorio comune l'acqua per le
abluzioni mattutine era quasi ghiacciata nella brocca.
Le monache se n'erano accorte quando, dopo un sonno
inquieto, fra le due e le tre s'erano levate come
sempre per recitare l'ufficio divino. Dopo
prima1
il freddo era ancora intenso e la conversa Gertrude,
abbandonato il mandatum2
dove s'era recata per la preghiera personale,
rabbrividì nella sua tonaca leggera mentre si
avviava verso il calefactorium, il solo locale del
monastero, a parte la cucina, ad essere riscaldato,
dove avrebbe atteso ad uno dei suoi numerosi compiti,
quello relativo alla preparazione degli inchiostri e
dei colori per le miniature. Adesso il suo pensiero
vagava libero oscillando fra i ricordi di un passato
non ancora lontano ed il tema della nuova miniatura
che avrebbe abbellito la pagina di un inno dei
vespri.
- Quel piccolo
dipinto avrebbe dovuto parlare a tutti, anche ai
più umili, attraverso figure e simboli che
richiamassero la presenza di Dio, la sua signoria sul
mondo. L'universo visibile, infatti, è un segno
di ciò che non si vede ma che sta all'origine
di tutto. La conversa decise che per quella volta non
avrebbe raffigurato draghi, grifi e altre creature
mostruose, ovvero i simboli di quelle forze diaboliche
che senza sosta cercano di far cadere l'uomo nella
tentazione e nel peccato, bensì foglie, fiori,
rami e frutti, insomma tutte quelle forme vegetali che
la riportavano ad un Eden non solo immaginario ma
anche reale, all'immagine di un lago dove le chiese
sono numerose come le piante di melograno, alloro e
ulivo, dove la primavera sembra non avere mai fine e
la luce pare scomporsi in mille riflessi
argentati.
- In un attimo
rivisse il suo lungo peregrinare al seguito di
Ildegarda, la nobile monaca ora divenuta badessa,
rivide il loro arrivo nel febbraio del 1262 al
monastero benedettino di San Faustino e Giovita
nell'incantevole Tremezzina, sulla riviera del lago di
Como. Da lì, con la sua signora, si era
incamminata verso l'hospitalis della Carolza sui monti
di Casasco, una meta che avrebbe dovuto metterle al
sicuro dai tragici eventi che si andavano
prospettando.
- Così
però non era stato. Gli eventi erano
precipitati e Ildegarda si era dovuta nascondere
ancora per evitare il peggio. Gertrude invano l'aveva
attesa, poi, sola e senza denaro, aveva abbandonato il
rifugio sui monti per cercarla. Come in un
caleidoscopio nella sua mente si avvicendavano il suo
purtroppo breve matrimonio con un umile pescatore
della Tremezzina, l'arrivo in Como, il pellegrinaggio
a Santiago, l'esperienza del beghinaggio nel sud della
Francia, il ritorno nella sua adorata patria, il
Tirolo, dove s'era finalmente potuta ricongiungere con
Ildegarda, il successivo trasferimento nel monastero
di St. Johann, l'ennesima partenza per un'importante
missione che le era stata affidata dalla sua signora
per conto dell'amato fratello, il nobile Ulrico dei
conti di Tures e di Tirolo.
- In quel nuovo
periglioso cammino, durante il quale s'era confrontata
con uomini e donne, umili e potenti, pellegrini ed
eremiti, artigiani e mercanti, cavalieri templari ed
abati, era stata accompagnata da Ludwig, il giovane ed
ambizioso scudiero di Ulrico.
- Smanioso di
libertà, desideroso di affrancarsi
dall'autorità del suo signore, quest'ultimo
aveva trovato il coraggio d'inseguire un sogno, quello
di una terra promessa e aveva abbandonato tutto
intenzionato a raggiungere Venezia, la nobile e
superba città dove si diceva non dimorassero
"né Patari, né Catari, nullo usuriere,
né micidiale, né ladrone, né
rubatore".
- "Stadtluft macht
frei", "L'aria della città rende liberi",
recitava un noto detto e, in effetti, erano in molti a
tentare la fuga in città.
- "Avrà
raggiunto la sua meta Ludwig?"
- Questo si stava
chiedendo Gertrude quando il ripetuto e martellante
suono di una campanella la riscosse dai
ricordi.
- Superato
l'armarium, il piccolo locale adibito a biblioteca e
attraversata l'ala orientale del chiostro che fungeva
da corridoio, la conversa si diresse con la massima
sollecitudine verso la torre riservata all'abitazione
della badessa. Non era ora d'Ufficio divino e quel
segnale reiterato lasciava intendere che qualcosa di
grave doveva essere capitato.
1.
Prima. Preghiera delle sette. Altre ore canoniche:
Mattutino (al sorgere del sole); Terza (circa le
nove); Sesta (a mezzogiorno); Nona (circa le
quindici); Vespri (al tramonto); Compieta (al
crepuscolo, al compimento della
giornata).
- 2.
Mandatum. Lato nord del chiostro.
- LA
PROMESSA DI MATRIMONIO
Il
Reichenberg, signore di Tarasp, abbandonato il suo
castello, un'imponente costruzione che come una bianca
sentinella si ergeva su uno sperone roccioso alto un
centinaio di metri a dominare magnificamente la Bassa
Engadina, con l'unica figlia e l'effeminato nipote
Joanne si accinse a salire verso Zuoz, nell'alta
valle, per sottoscrivere un importante accordo con
Pompejus Planta.
- I Planta, distinti
nei rami di Zuoz, Zernez, Samedan e Coira, erano
un'importante famiglia originaria di Zuoz con
possedimenti anche in Val Bregaglia e a Pompejus il
vescovo di Coira aveva già da tempo conferito
il diritto di cancelleria, ovvero le funzioni di
notaio, in tutta la valle.
- A giudicare dalle
sopracciglia leggermente inarcate, un pensiero
sembrava infastidire il vigoroso feudatario. Avrebbe
voluto, infatti, evitarsi il fastidio di trovare un
marito per la figlia che cavalcava accanto a lui ma,
avendo quest'ultima già festeggiato il suo
diciassettesimo compleanno, era ora che si maritasse
visto che le ragazze già a quindici anni erano
considerate pronte per sposarsi.
- La giovane, che si
chiamava Matilde, guardava ostinatamente davanti a
sé. Aveva la carnagione brunita dal sole e i
capelli, raccolti in una morbida treccia, mandavano
riflessi che facevano pensare al colore delle castagne
appena diricciate. Con sicurezza, ma quel giorno senza
diletto, governava il suo baio che talora dava segni
d'irrequietezza. Sebbene fosse femmina era abituata a
cavalcare, anche a lungo, e sapeva cacciare con il
falcone. Adorava stare all'aria aperta, sentirsi in
sintonia con Biba, il suo rapace preferito che,
lanciato su un albero alla partenza per una battuta di
caccia, la seguiva nel fitto del bosco senza bisogno
di essere richiamato per poi piombare da un albero, ad
un suo minimo richiamo, sulla femmina di un gallo di
monte o su un coniglio selvatico che invano avrebbe
cercato un rifugio o una via di fuga. Al tramonto, non
ancora paga dello spettacolo che la natura sempre
regala a chi è attento e sensibile osservatore,
cercava sempre una scusa per ritardare il suo rientro
al castello.
- Dopo la morte della
madre, infatti, in quel mondo quasi tutto al maschile,
si sentiva sempre più osservata. Gli amici di
suo padre la guardavano con occhi diversi, sfacciati,
come se volessero gettarsi su di lei, come il suo
falco sulla preda. Per questo aveva cominciato a
coprirsi il più possibile, mortificando il suo
corpo di giovane donna sotto abiti di foggia
maschile.
- Per l'occasione
invece indossava un morbido abito di lana color
nocciola, impreziosito da una bordura in velluto
marrone scuro allo scollo e da lacci della stessa
stoffa alle maniche. A ripararla dal freddo pensava un
pesante mantello fermato con una vistosa spilla
d'argento.
- Avrebbe preferito
vestire la solita pratica ed informe tunica e
soprattutto non andare a quell'appuntamento, ma si
rendeva conto che i suoi desideri non contavano nulla
contro la volontà paterna. Se non si fosse
maritata per lei non ci sarebbe stata che la
monacazione. Su questo il padre era stato molto chiaro
ed il Reichenberg, collerico, di modi imperiosi e di
eccezionale vigore fisico, non era uomo che ci si
potesse azzardare a contraddire.
- I tre, attraversata
un'estesa foresta di larici ed abeti senza scambiare
parola, completamente indifferenti anche al paesaggio
che ora s'apriva in un'ampia vallata con prati che si
alternavano a campi coltivati, sembrarono riscuotersi
all'ingresso di un villaggio dove un gruppo di bambini
cenciosi si stava accanendo contro una donna
condannata alla berlina. Inutilmente quest'ultima,
trattenuta da un collare di ferro assicurato ad una
robusta catena, cercava di sottrarsi al lancio di ossa
e ortaggi marci.
- Il signore di
Tarasp fu il primo a passare oltre mentre i ragazzini
esultavano per un colpo andato perfettamente a
segno.
- Arrivati a Zernez
il nipote chiese di potersi riposare ma non ottenne
nessuna risposta. Il Reichenberg, per la
verità, neppure aveva udito la debole richiesta
dell'imbelle nipote.
- La sua mente era
concentrata unicamente sul contratto matrimoniale che
si stava recando a stipulare. Poco gli importava dei
sentimenti, dei desideri della figlia, molto invece
della dote che il futuro marito avrebbe pagato in
cambio del trasferimento di
potestà.
- La
caparbietà della fanciulla invero gli forniva
qualche motivo di preoccupazione; non poteva e non
doveva permettere a quest'ultima di rovinare i suoi
piani, in gioco, infatti, c'erano le sue terre e il
suo castello, sui quali aveva messo da tempo gli occhi
il vescovo di Coira.
- Inutilmente per
avere appoggi s'era rivolto al nobile Ulrico dei conti
di Tures e di Tirolo che pure nei pressi di Tarasp
aveva campi, boschi, prati e forni da difendere contro
le mire del prelato.
- Il conte aveva
trovato mille pretesti per rimandare un intervento
forte e deciso preferendo un'azione diplomatica grazie
all'intervento della di lui sorella, la badessa
Ildegarda.
- Il Reichenberg
temeva pertanto che, presto o tardi, il vescovo
l'avrebbe spuntata. Quest'ultimo, infatti, possedeva
in buona parte dell'Alta e della Bassa Engadina
diritti signorili, tanto è vero che già
dal 1140 aveva la prerogativa di amministrare l'alta e
la bassa giustizia, anche se non sempre disponeva di
possessi fondiari.
- Poiché
però non aveva la possibilità di
esercitare direttamente i suoi diritti in una valle
alpestre così lontana dalla sede episcopale,
aveva conferito a Pompejus Planta, già da
parecchi anni, oltre al diritto di cancelleria anche
la carica di ministeriale, ovvero di giudice e
intendente, che permetteva a quest'ultimo di
amministrare le terre del vescovo ed esercitare la
bassa giustizia, di trattare cioè le cause
civili di minor importanza.
- Il Planta, dal
canto suo, sperava che il vescovo si impegnasse a non
nominare balivi al di fuori della sua famiglia, in una
parola aspirava a conquistare il balivato
ereditario.
- Imparentarsi con il
Planta avrebbe presentato dunque evidenti vantaggi.
Quand'anche il vescovo fosse riuscito nel suo intento,
l'amministrazione dei suoi beni e delle sue terre
sarebbe rimasta in famiglia.
- La stanchezza
intanto cominciava a farsi sentire. Giunti a S-Chanf
il Reichenberg autorizzò una sosta presso
l'ospizio di San Nicolao dove i tre, sotto l'occhio
vigile e curioso di un frate predicatore, si
scrollarono la polvere di dosso e fecero abbeverare i
cavalli. Il signore di Tarasp anche appiedato
torreggiava in modo impressionante.
- Ripreso il cammino,
non molto tempo dopo avvistarono la torre di
Zuoz.
- L'alto edificio in
pietra era collegato, con un arco sovrastante la via,
all'abitazione del Planta, una casa di imponenti
dimensioni che comunicava una sensazione di
solidità a causa dei muri spessi e della
dimensione ridotta delle finestre.
- Lasciati i cavalli
ad un inserviente che li avviò verso le stalle,
i tre, superato un poderoso portone arcuato, entrarono
in un ampio ingresso coperto, una sorta di anticamera
dove andò loro incontro un servitore che li
accompagnò al primo piano della casa. Su un
largo corridoio si affacciava la stüa, una grande
stanza completamente foderata in legno, odorosa di
resina e riscaldata grazie ad una stufa in muratura.
Qui il notaio, che svolgeva per lo più il suo
lavoro in quella stanza dell'abitazione, seduto ad un
tavolo massiccio ed ingombro di pergamene, era intento
a redigere la stesura di un atto presso una finestra
che pur non essendo tanto grande riusciva però
a catturare tutta la luce possibile grazie alla
profonda strombatura.
- Al loro ingresso si
alzò subito in piedi, anche se con visibile
fatica e, abbracciato il Reichenberg, cerimoniosamente
diede loro il benvenuto. Poi, indicando un uomo
né giovane, né vecchio, di corporatura
molto robusta e occhi mobilissimi come quelli di un
falco, che prima sedeva accanto a lui ed ora attendeva
in piedi, disse: "Vi presento il mio prezioso
collaboratore Adelberto che mi aiuta nel compito di
mantenere sicura, contra malefactores e ruberie, la
strada fino all'Alpe del lago di sopra, dove iniziano
le terre del signore di Bregaglia che, come ben
sapete, risiede a Vicosoprano".
- "Vedete cara
Matildina", aggiunse poi il notaio rivolgendosi
direttamente alla ragazza che se ne stava con gli
occhi bassi, compiaciuto per la sua sottomissione,
quantomeno apparente, nonché affascinato dalla
sua prorompente giovinezza, "anche da noi non mancano
saccheggi e furti e c'è pure chi, adducendo i
pretesti più assurdi, ha l'ardire di rifiutarsi
di pagare la decima sul grano o quella in agnelli
dovuta al nostro vescovo".
- Matilde sentendosi
appellata alzò lo sguardo incurante del sorriso
e dell'occhiata colma di lascivia che le stava
rivolgendo l'aiutante del notaio. Se ne accorse invece
il Reichenberg che strinse i pugni già pronto a
montare in collera, sennonché il padrone di
casa continuò: "Non è forse vero
Adelberto che c'è chi ruba persino le
rape?"
- "Sì,
purtroppo quanto dite è la verità, ma
quel tale non potrà più farlo. Ci ha
pensato il Castelmur a fargli perdere il vizio. Lo
hanno impiccato davanti alla torre rotonda di
Vicosprano ed i lupi, scesi nottetempo dai monti,
hanno fatto scempio del suo corpo dopo averlo tirato
fuori dalla terra fresca della sepoltura ed averlo
trascinato per un tratto nella radura di Cudin fin
verso il torrente".
- Un brivido di
raccapriccio, a quelle parole, percorse il corpo di
Matilde mentre gli occhi del debole Joanne si
riempirono di lacrime.
- L'uomo, intimamente
compiaciuto per le reazioni suscitate, avrebbe
certamente continuato se non fosse stato per il
padrone di casa che, zittendolo con un'occhiata in
tralice, interloquì: "Oggi però è
una giornata fortunata, abbiamo, infatti, potuto
registrare la donazione di un'alpe e di alcuni servi a
favore del nostro amato vescovo e al valico
dell'Albula abbiamo..."
- A quel punto il
notaio, accortosi dell'arrivo del proprio figliolo, si
interruppe per invitarlo ad entrare. Sulla soglia
della stüa, infatti, il giovanissimo Dedalrico,
smorto ed allampanato, sembrava esitare come
intimidito.
- Il Planta, che in
cuor suo non vedeva l'ora di dare lettura al
contratto, disse allora con un largo sorriso
rivolgendosi al Reichenbeg: "Ebbene, ho l'onore di
domandare per mio figlio Dedalrico la mano della
vostra deliziosa figliola".
- Quest'ultimo, che a
sua volta aveva atteso impazientemente quel momento,
si accostò a Matilde, di nuovo con la testa
bassa e lo sguardo ostinatamente fisso al pavimento,
le strinse con forza il braccio a ricordarle la
doverosa ubbidienza e rispose: "Sono compiaciuto e
spero che le nozze possano avere luogo al più
presto!"
- In breve,
pronunciate le frasi di rito, avuto il consenso dei
due giovani e avvenuto lo scambio degli anelli, i due
padri si strinsero la mano, dopodiché il notaio
si accinse a registrare l'atto abbreviando le formule
ripetitive per concludere ancora più in fretta
l'ultima fase di un contratto vantaggioso per entrambe
le famiglie. Quando tutto fu sistemato, date, dote,
titoli e firme dei testimoni, il Reichenberg ed il
notaio finalmente si rilassarono e quest'ultimo,
visibilmente soddisfatto, andò a stringere le
mani dei due giovani.
- "Ho una sorpresa in
serbo per voi", disse pensando ad una promessa del
vescovo, "sarà il mio regalo per le vostre
nozze. Adesso però andiamo a brindare".
- Nella locanda di
proprietà dell'importante prelato, piena di
fumo e di trofei di caccia, il vino, generosamente
offerto anche agli avventori presenti, che volentieri
tralasciarono il gioco dei dadi cui erano intenti per
brindare ai due giovani, rese euforici tutti
all'infuori di Matilde che si sentiva come quel povero
orso tenuto al laccio nella piazza vicino alla torre e
costretto a ballare al suono di un
tamburello.
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