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                QUELL'
               AMORE DI MONTAGNA
 Il vecchio mastro di posta, inconfondibile per il paio
               d'enormi favoriti, aveva terminato la vendita dei
               biglietti ed i bagagli erano già stati tutti
               sistemati sul tetto della diligenza. Il cocchiere
               allora salì in serpa e, dopo uno squillo di
               tromba, fra un tintinnare di sonagliere, schioccar di
               frusta e gioco di briglie, il "Corriere di
               Lindò", uno splendido cocchio a quattro,
               partì alla volta del Passo dello
               Spluga.
Un
               passeggero però rimase a terra, stette per un
               po' ad osservare la carrozza postale che si
               allontanava con il suo carico di passeggeri, lettere,
               giornali, denaro e merci, poi, lentamente, passando
               sotto uno dei tanti portoni dove venivano riscossi
               dazi e pedaggi, si avviò lungo la via
               principale diretto al centro di Chiavenna.Si
               sforzava di osservare le antiche facciate dove erano
               splendidi affreschi che la dicevano lunga
               sull'eccellenza degli abitanti del luogo, sui loro
               timori, sulle loro occupazioni, dipinti che, in altra
               occasione, lo avrebbero interessato ed ispirato, ma in
               quel momento la sua mente era come vuota, nemmeno
               s'accorgeva della gente che accanto a lui camminava
               leggera, con il volto pieno d'ottimismo.L'inverno
               era nell'aria ed il bosco, ora incendiato dalla
               ruggine autunnale, presto sarebbe stato coperto da
               neve e cristalli di ghiaccio. Lo sconosciuto sapeva
               che avrebbe fatto meglio a salire su quella carrozza,
               poiché se il viaggio di andata all'inizio
               dell'estate era avvenuto sotto un temporale incessante
               e, in una sorta di incubo apocalittico aveva valicato
               il passo giungendo da Splugen a Chiavenna, quello di
               ritorno con la neve sarebbe stato ancora più
               difficile e tormentoso.Eppure
               qualcosa lo aveva trattenuto. Appena si era
               incamminato aveva avuto la sensazione di sottrarsi
               alle sue responsabilità ma più forte del
               senso di colpa era stato quello
               dell'ineluttabilità, come se il destino avesse
               deciso per lui sollevandolo da ogni dubbio e
               perplessità.Ricordava
               quando un mese prima aveva deciso di andare fino a
               Como per visitare le splendide basiliche romaniche,
               opera di quelle abili maestranze, i Magistri Comacini,
               che si erano spinte in tutta Europa, finanche nella
               sua terra. Partito da Chiavenna, diretto verso Colico,
               dopo un miglio il cavallo era come impazzito e lui era
               dovuto tornare indietro a piedi in quel paese che
               sembrava trattenerlo con fili invisibili eppure tanto
               tenaci.Andava
               dunque per le vie del borgo, fra case imponenti,
               piazze dalla caratteristica pavimentazione
               acciottolata, bei portali e fontane di pietra. Sentiva
               che camminare gli faceva bene e aspirava avidamente i
               profumi della frutta matura e del buon cibo che si
               diffondevano tutt'intorno mescolandosi con quello
               della legna bruciata. Gli piaceva apprezzare il mondo
               che lo circondava attraverso sapori ed odori; tutti i
               suoi sensi, quando viaggiava, erano all'erta: vista,
               udito, ma soprattutto gusto ed olfatto agivano nel
               profondo dell'animo suo, provocando potenti emozioni e
               muovendo esaltanti sensazioni.I
               profumi risvegliavano in lui sopiti ricordi di luoghi
               ed occasioni. Del suo ultimo viaggio in Italia,
               compiuto nel 1852, ricordava lo spettacolo delle file
               dei cocchi e dei cavalli in mezzo alla folla elegante
               che formicolava nei viali al centro di Milano, quello
               raccolto ed insieme festoso del Lago di Como, il
               profumo dell'uva matura che si arrampicava in turgidi
               grappoli sul muro di una vecchia locanda, nei pressi
               della confluenza del Mera col Lago di Novate.
               L'ostessa aveva portato un "bianco" trasparente ed un
               piatto di pesce odoroso di burro e di salvia. Dopo
               pranzo si era incamminato lungo la riva del lago verso
               un tempietto, indubbiamente molto antico, che si
               stagliava su uno sfondo di canneti.Gallinelle
               d'acqua si tuffavano a pescare e riemergevano con
               l'alborella d'argento dentro il becco. Accanto a loro
               pochi cigni alteri si lisciavano le candidissime penne
               incuranti di un piccolo e brutto anatroccolo che
               sbatteva le ali sforzandosi, con tanta fatica, di
               prendere il volo. C'era odore di muschio, d'alga
               decomposta, di lago ed il piccolo si era voltato verso
               di lui per un istante, come per chiedere aiuto.
               Ricordava quello sguardo dolcissimo, quasi umano, come
               fosse stato ieri...eppure da quel giorno erano passati
               quasi cinque anni.Il
               vociare della folla riscosse il viaggiatore dai suoi
               pensieri. Nel luogo dove nel frattempo era giunto, una
               bella piazza al cui centro sorgeva una fontana
               ottagonale in pietra ed ai cui lati spiccavano alcuni
               portali nello stesso materiale, stava un uomo
               dall'aspetto fuligginoso intento a riparare una
               pignatta. Lo straniero appoggiò il suo scarno
               bagaglio per terra e stette ad osservare l'artigiano.
               Pareva un chirurgo intento a praticare una sutura, con
               un impasto simile ad una pappa e quand'ebbe terminato,
               dall'espressione soddisfatta della donna che si
               riprese l'oggetto, una pentola in quella "pietra
               ollare" di cui parlava già Plinio, si capiva
               che il lavoro era stato eseguito a regola d'arte. Lo
               sconosciuto viaggiatore riconobbe in lei la bionda e
               robusta ostessa di Campodolcino, dove era stato una
               decina di giorni prima, che gli aveva servito, nella
               piccola e bassa "stüa", un piatto generoso di
               "bresàvola" seguito da carni profumate cotte in
               un caldo grembo di pietra e accompagnate da una
               bottiglia di vino robusto che gli aveva messo in corpo
               una grand'energia e risvegliato la vena letteraria.
               Dopo pranzo se n'era andato pigramente a zonzo lungo
               il torrente Liro. Qui, tra precipiti massi, cullato
               dal ronzio della corrente, s'era addormentato e fra
               scaglie di luce, come in un miraggio, la pietra aveva
               preso la forma di un'incantevole sirenetta. Il suo
               canto ammaliante era risuonato a lungo come spampanato
               dal vento e la sua nudità era stata coperta dai
               flutti del torrente in amore. Al risveglio, tremavano
               ancora le isobare dei sensi e germinavano a grappoli i
               suoi pensieri, un fremito di meraviglia, di stupore
               gli era salito dai precordi. In quella contrada
               rurale, in quel luogo selvaggio, aveva avuto la
               sensazione d'assistere allo sgretolamento della natura
               e alla sua rinnovata creazione. Anche l'apparizione di
               quella mitica creatura non poteva essere stata casuale
               ed egli vi volle scorgere un segno a lui indirizzato,
               un messaggio speciale. La sua anima si era nutrita di
               quelle immagini per lui inusuali e spaventosamente
               belle; il suo sguardo, dalle rocce levigate del fiume,
               era risalito, in un paesaggio di pascoli e baite
               dorate dalla smagliante luce settembrina, fino ai duri
               crinali, alle rocciose cime innevate che sembrano
               vigilare amorosamente sul vasto lago di Montespluga.
               Aveva immaginato le lunghe carovane di muli cariche di
               merci dirette anche verso la sua terra, la lontana
               Danimarca, dove avrebbe portato e custodito per sempre
               la visione dei grandi passi alpini, delle abetaie, dei
               boschi, dei fondovalle, dove l'uomo stappava alla
               montagna la terra e costruiva faticosamente muretti e
               terrazze per coltivare la vite.Ancora
               una volta lo straniero tornò alla realtà
               e riprese il suo andare giungendo, in breve tempo, nel
               centro del borgo, caratterizzato da un imponente
               palazzo affrescato con imponenti stemmi ed una bella
               fontana in pietra. Rientrò nella locanda che
               aveva lasciato da poco più di un'ora e, dopo
               aver firmato il registro degli ospiti, salì in
               camera, la stessa grande stanza a due letti che aveva
               occupato la notte precedente, dove subito
               spalancò le finestre dalle quali poteva vedere
               la chiesa con il suo turrito campanile.Il
               proprietario dell'albergo, al piano terreno, si chiese
               cosa mai avesse indotto a tornare sui suoi passi quel
               forestiero, peraltro gentile e riservato, che appena
               arrivato gli aveva chiesto, di venerdì, giorno
               di magro, una tazza di latte, ma che per il resto non
               dava alcun fastidio, se ne stava, infatti, tutto solo
               a disegnare e scrivere su un suo libricino. Merito
               forse di una donna, della sua cucina, o di quell'amore
               di montagna?... La curiosità di sapere quali
               commerci, quali bisogni, quali segreti il misterioso
               viaggiatore portasse con sé, spinse il vecchio
               Corradi a dare un'occhiata al registro dove
               spiccavano, appena vergati, i caratteri ancora freschi
               d'inchiostro, ma il nome che lesse, H. C. Andersen,
               (1)
               non gli disse nulla. "Chiavenna
               sarà la chiave delle Alpi ma è come
               porto di mare", borbottò fra sé l'oste
               sorridendo della sua battuta. "Del resto, se i clienti
               pagano, io bado solo a far bene il mestier mio" e
               corse via per servire alcuni avventori che lo
               reclamavano a gran voce.
 
 
Nota(1) Hans Christian Andersen (Odense 1805 -
               Copenaghen 1875)
Scriveva
               lo scrittore: " Le fiabe mi stavano in mente come
               un seme, ci voleva soltanto un soffio di vento, un
               raggio di sole, una goccia d'erba amara..."
               A
               me è piaciuto immaginare che l'ispirazione sia
               venuta ad Andersen proprio quando transitò
               dalla incantevole Valle Spluga, durante un suo viaggio
               in Lombardia. |