- POESIA
EPICO - CIVILE
di
Serena MAGLIETTA POLLARI
-
- Serena
Maglietta Pollari, di famiglia modenese di antica
tradizione, dopo aver compiuto i suoi studi nella
città di residenza, si è trasferita a
Milano, dove a svolto la funzione di preside di
Istituti medi superiori e dove attualmente vive.
Soltanto da alcuni anni, diminuiti gli impegni
personali e famigliari, si dedica ala poesia: ha
pubblicato tre raccolte di versi e due
poemetti.
- Nelle
sue opere, se si esclude, in qualche misura, la sua
prima raccolta, l'autrice aderisce alla poetica che
si potrebbe definire epico-civile, delineata tra
gli altri, in modo particolarmente chiaro e
significativo, da Mario Luzi in uno dei suoi ultimi
interventi, apparso sul numero 185 del mensile
"POESIA", con il titolo: "la poesia parla del tempo
in cui si vive". Dello scritto si riferiscono
alcuni passi: "Vado affermando, forse da sempre
nella mia lunga esistenza, ma più
segnatamente negli ultimi anni, che la poesia
è vita e se oggi la vita ci chiama a prove
difficili e drammatiche, la poesia non può
eluderle. Anzi, non deve... Ecco, oggi si chiede il
poeta...di uscire allo scoperto e testimoniare, con
la parola di cui è capace, la forza di
impegno e di denuncia". E così prosegue, a
proposito della "categoria della guerra": "Ci sono
fasi nella storia umana in cui lo scontro si fa
più duro e feroce. La fase che stiamo
vivendo è una di queste. È lo scontro
tra l'Occidente (di cui l'America è la
più e oramai l'unica grande potenza al
mondo) e... miliardi di esseri umani che sono stati
sacrificati al nostro benessere...
- La
nostra prosperità (infatti) è
ricavata dall'immiserimento di gran parte delle
popolazioni del pianeta". E ancora, a proposito del
rapporto tra poesia e realtà: "Si ha
l'impressione che il rapporto tra le cose
oggettive, la realtà spirituale e la parola
non ci sia più. Anche la parola è in
crisi e questa separazione tra "Cosa" e "Parola"
è gravissima.
- Passando
in rapida rassegna alcuni testi di Serena Maglietta
Pollari, si procederà in base alla
successione cronologica dei libri pubblicati,
citando giudizi di critici e di esperti cui fanno
seguito alcuni brani fra i più "tipici" e
significativi di ognuno.
-
-
- Nella
prima raccolta di poesie: "Quando tutto il passato
era ancora futuro" (Primo premio al Concorso
Internazionale "Omaggio a Pirandello") prevalgono
le composizioni in forma di poesie-racconti, non
prive di echi crepuscolari dove, secondo la
presentazione di Alessandro Mancuso, "il
descrittivismo è puntualmente
contestualizzato e raccolto intorno ai nodi focali
della composizione...scorci di vita del passato e
particolari raffinati e minuziosamente descritti,
popolano le ballate, le canzoni e le odi... Gli
accenti riescono universali ed assoluti, pur senza
tradire i referenti individuali e personalistici di
partenza". Ne consegue che "il doloroso e sublime
procedimento poetico è quello di tipo
archeologico-personale".
- Aggiunge
ancora il critico: "Colpisce, tra l'altro, il
reticolo metrico... al cui interno agiscono velati
fonosimbolismi che arricchiscono la ricerca quasi
pittorica della luminosità descrittiva della
memoria".
- La
poesia: "Non è più la mia casa"
è rigorosamente auto-biografica. "L'atrio di
Villa Politi" con la descrizione, quasi nostalgica,
dell'interno di una villa liberty, evoca, nei versi
conclusivi, l'intima partecipazione dell'autrice
alle esperienze esistenziali della madre, collocate
in un ambiente in stile floreale, immaginato da lei
stessa, adolescente, come scenario della sua vita
futura.
-
-
-
-
- Non
è più la mia casa
-
- Non
è più la mia casa,
- quelle
mura grigiastre
- macchiate
d'abbandono
- le
siepi scheletriche
- il
muschio nel selciato
- un
reticolo d'erbe
- giallognolo
appassite
- a
intristire la corte
- spogliata
del nitore
- della
candida ghiaia.
-
- Non
è più la mia casa:
- il
piccolo giardino
- ora
è un prato selvaggio
- che
ricopre e nasconde
- le
delicate aiuole,
- sfondo
a sbiadite foto
- ed
a lontani amori;
- e
il lillà solitario
- ha
la dolce mestizia
- di
un'antica vetrata
- in
stile liberti.
-
- Non
è più la mia casa
- quelle
pareti spoglie
- d'immagini
remote
- lungamente
immutate
- serbano
tenui impronte
- disegnate
dal tempo
- che,
nel lento cammino,
- ha
lasciato sui muri
- orme
di nostalgia.
-
- Non
è più la mia casa:
- umide
stanze vuote
- come
loculi oscuri
- celano
gli anni spenti
- d'ospiti
sconosciuti
- e
le troppe memorie
- e
i momenti perduti
- degli
ultimi esiliati.
-
- Non
è più la mia casa:
- tra
quelle vecchie pietre
- nuove
vite entreranno
- cancellando
ogni giorno
- anche
le ultime tracce
- d'esistenza
disperse.
-
-
-
- L'atrio
di Villa Politi
-
- Scende
dal lucernario
- del
soffitto adornato
- da
cornici massicce
- un
chiarore soffuso
- che
riflette le tinte
- dei
vetri smerigliati
- in
delicate gamme
- dal
verde muschio all'ocra.
-
- Emergono
dall'ombra
- l'imponente
camino
- incorniciato
in marmo
- e
l'impronta di fumo
- sulla
parete lignea,
- la
passatoia rossa
- sull'ampia
scalinata
- che
porta, nel soppalco,
- alla
stanza da gioco
- coi
tavolini verdi
- e
i paralumi in seta
- dalle
frange a perline.
-
- Nel
grand'atrio deserto
- nell'ora
sonnolenta
- del
primo pomeriggio,
- fra
tappeti e vetrate
- e
tavoli ottocento
- dalle
linee ricurve
- e
divani incassati
- negli
angoli in penombra
- e
lampade sorrette
- da
figure di donne
- entro
pepli fluttuanti,
- s'insinuano
pian piano
- le
immagini confuse
- di
un tempo rivissuto
- tra
racconti e memorie,
- di
un tempo ritrovato
- che
faceva da sfondo
- nella
mia adolescenza
- a
fantasie segrete
- ed
evoca ricordi
- penosamente
vivi
- di
quegli anni lontani.
-
- E
in quella stanza vuota
- mi
sembra d'avvertire
- il
profumo sottile
- di
una cipria francese
- che
talvolta avvolgeva
- -
malinconia struggente -
- i
passi di mia madre.
-
-
-
-
-
Il poemetto: "Le chele dello scorpione",
"straziante melopea nel ricordo di un padre,
lontano nel tempo", come lo definisce Albano Biondi
e, secondo la presentazione di Stefano Valentini,
"poche intense e splendide pagine che hanno il
respiro di una biografia completa, di un ritratto
sufficiente a dare compiuta memoria", si propone di
rappresentare la personalità del
protagonista, inserita nel suo tempo e nel contesto
atavico e familiare, ripercorrendo con particolare
intensità quei passaggi esistenziali che,
"pur nel differire delle personalità e delle
sensibilità individuali, del periodo in cui
si collocano, dei miti che le influenzano, recano
l'impronta del "tipico", fragile ponte di
collegamento tra diverse isole del vissuto di
ognuno" (dalla premessa dell'autrice).
- Nel
passo riportato viene rievocata la fine del
protagonista ambientata nella città
(Bologna) dove aveva dovuto trasferirsi, che
sentiva sostanzialmente estranea, e si fa
riferimento alle fascinose immagini notturne,
contemplate, in un lontano passato, insieme ai
"discepoli assorti" (le sue figlie e i nipoti); in
quello successivo, il padre ritorna nel ricordo
nostalgicamente doloroso della figlia.
-
-
- ...
la fine del Padre
-
-
In una notte chiara,
- lui
si affaccia al balcone
- per
rimirare i raggi
- bagnati
dalla luna
- sui
tetti declinanti
- sulle
vie solitarie
- sulle
finestre spente;
- e
in quel momento, forse,
- sente
quella città
- un
poco più vicina,
- statica
come lui,
- in
assorto abbandono,
- oggetto
di un'estrema
- emozione
vitale
- che
esprime un sussurro:
- "Come
è bella la notte".
- Ed
in quella visione
- c'era
forse il ricordo
- della
corte schiarita
- da
quella stessa luna
- dove,
tanti anni prima,
- tra
discepoli assorti,
- lui
era stato il solo
- vero
protagonista.
-
- Nella
notte seguente
- di
quieto plenilunio
- la
sua vita è finita
-
-
-
- ...
il Padre nel ricordo della
figlia
-
-
Padre per te vorrei
- ancora
un'occasione,
- non
in quel paradiso
- etereo,
evanescente,
- congiunto
a questo nostro
- desolato
pianeta
- delle
tetre stazioni
- della
Via Dolorosa:
- non
quello era il tuo mondo.
- Tu
hai curvato le spalle
- sotto
la croce, grave
- di
tante angosce, per sorte
- senza
scelta, col corpo
- confuso
con la terra
- e
la mente librata
- in
fantasie vitali:
- immagini
reali
- più
del reale,
- e
passato riflesso
- dentro
la tua memoria,
- e
intense compresenze,
- e
amorose pulsioni,
- e
cieli dai colori
- di
smalto, e solitarie
- marine,
ed appartati
- giardini,
ed inquietanti
- salotti,
profumati
- di
fiori quasi esausti;
- e
la nostra Venezia,
- non
cristallo cangiante
- su
azzurrità solari
- ma
arcana intimità
- di
corti abbandonate
- ed
assopite calli
- e
risciacquio d'ondate
- su
immagini fuggenti
- verso
l'ignoto.
- Fascino
di tramonti,
- di
presente che sfuma
- nel
passato,
- ma
vita è solo vita.
- ......................
- E,
nell'umana sofferenza,
- io
vedo sempre, sempre
- il
tuo volto.
-
-
-
-
-
-
Il poemetto biografico "Quella Modena di Delfini",
pubblicato quasi contemporaneamente a "I vincenti",
ma lungamente elaborato in un periodo precedente,
manifesta, secondo Alberto Bertoni "un'opzione
pienamente realizzata a favore della
modalità epica (dunque, alla fine, anche
civile) della poesia. Non a caso, il punto di vista
del libro è, in prevalenza, corale: la
parola di un io, colmo di riserbo e pudore, vi si
intreccia, infatti, all'eco di dialoghi, di
invettive, di sfide e di testimonianze" e "dimostra
che l'autrice è consapevole che nell'epos
deve essere identificato il vero motore letterario
del romanzo", " scelta che ha poi compiuto, in
fine carriera, un altro grande poeta emiliano, il
parmigiano: Attilio Betolucci".
- Enrico
Zanichelli definisce il poemetto come "poesia della
poesia, sulla poesia, nella poesia, con la poesia"
che "pone il soggetto del testo, l'autrice, sul
piano dell'oggetto, lo scrittore modenese, in un
intreccio di corrispondenze, espresse e non, di
riflessioni speculari, di inversioni automatiche,
di rifrazioni inavvertibili, di salti temporali, di
scambi prospettici..., simili a quelli che legano
Delfino ai suoi doppi della pagina
scritta".
- Nei
brani seguenti si evidenzia il rapporto di memorie,
di emozioni, di sentimenti e risentimenti di
Delfini nei confronti della sua
città.
-
-
-
...Delfini e la sua città
-
- Ma
c'è anche il signore che,
adagiato
- nel
quieto osservatorio di un caffè,
- indaga
il rito usuale dei passeggi
- di
borghesi solerti od annoiati
- con
sentore di incontri familiari,
- o
contempla, con qualche compiacenza,
- il
ritorno di antiche tradizioni,
- làscito
del dominio degli Estensi
- o
finge che ogni schermo si dissolva,
- oltre
gli archi del portico, a scoprire
- la
città-prato, la città
pianura,
- l'estenuata
verdura della valle,
- terra
madre dei tempi dei ricordi:
- vita
trascorsa e vita d'ascendenti.
- E
la città, proiezione dell'io,
- si
esalta di colori e di profumi,
- in
immagini tinte di gaiezza
- o
soffuse di occulte intimità
- nel
velario disteso della nebbia.
- Dalla
tastiera di intense emozioni,
- come
temi sinfonici tornanti,
- riemergono
vedute cittadine,
- nostalgiche
stazioni esistenziali,
- radici
del suo io sradicato:
- i
negozi odorosi di colonie
- scintillanti
di luci e di cristalli,
- il
bar aperto sempre a carnevale
- che
profuma le strade di caffè,
- il
primo sole che riaccende gli ori
- sui
fregi e sui portali delle chiese,
- i
porticati fra squarci di cielo,
- falci
azzurrine frammezzo alle arcate,
- il
rientro dei ricchi villeggianti
- sulle
ultime carrozze cittadine,
- i
giardini del duca ad ospitare
- le
uniformi di gala dei cadetti,
- le
disperse stazioni provinciali,
- fumiganti
di bruma e di vapori,
- le
folate di vento all'orizzonte
- deserto
e sterminato della Bassa
- e,
all'incrocio sperduto, la locanda
- e
una luce, alonata di foschia,
- dalla
finestra che scontorna i tratti
- del
padrone in attesa d'avventori.
-
-
-
- ...
il testimone della città
-
- Sotto
estenuate lune nebulose
- intravvedute
entro strisce di cielo
- o
nei lenti crepuscoli azzurrati
- calati
su invisibili orizzonti,
- sempre
avvertì l'incanto del richiamo
- della
città, dai ciottoli lucenti
- come
ancora spruzzati dal fluttuare
- di
un tortuoso groviglio di canali,
- dei
bassi porticati tenebrosi
- echeggianti
il fruscio lieve di passi
- e
di ignote parvenze fuggitive,
- delle
facciate appena rischiarate
- dalle
finestre listate di luce,
- ambiguo
metaforico messaggio
- di
cadenzate esistenze deluse,
- del
centro antico, reso familiare
- dalle
note figure sconosciute,
- ritornanti
nei riti dei passeggi,
- come
mobili effigi di un presepio,
- guidate
da invisibili ingranaggi.
-
-
-
-
-
Argomenti epico-civili sono il cardine della
raccolta: "I Vincenti", ispirata alla guerra in
Afghanistan, omaggio alla vittoria ideale,morale e
, perfino, pragmatica dei pacifisti.
- Profondamente
interessata alla politica, intesa soprattutto come
preannuncio della storia futura e inflessibile
anti-razzista, l'autrice esprime, secondo la
prefazione di Salvatore Guastella "attraverso
componimenti dai forti toni e contenuti pregnanti,
l'oppressione e la sofferenza di interi popoli" e
"si fa interprete di messaggi tesi a scuoterci, a
scrollarci di dosso quel torpore, ovattato di noia,
che si alimenta di programmi televisivi,
dispensatori di oppio: 'panem et circenses', un
gioco propinato ad arte, appunto, per evitare di
far pensare". Si tratta di argomenti complessi "che
ci fanno pensare alle tematiche affrontate da
Pasolini, anche come cineasta". "Basti ricordare
alcuni suoi film "scomodi", ad esempio "Appunti per
una Orestiade africana" non accettati o ignorati
volutamente dai benpensanti".
- Sui
brani seguenti:
- "Gli
esclusi", ispirato all'incontro ad Assisi dei
massimi esponenti delle diverse religioni, in
difesa della pace, intende valorizzare l'apporto di
lotta e di solidarietà dei non credenti,
basato esclusivamente su principi e sentimenti
umanitari.
- "Un
sogno o forse no?" è una metafora del
complesso di colpa, più o meno conscio, di
chi è, in qualche misura, consapevole che il
proprio benessere è pagato dal sacrificio di
innumerevoli esseri umani, affetti dall'inedia, dal
sottosviluppo, dalle epidemie, in modo particolare,
dell'AIDS, definita la peste di questi secoli; da
ciò il richiamo alla peste di Milano, di
manzoniana memoria.
-
-
-
- Gli
esclusi
-
- È
un graffito solenne e lineare
- la
Basilica eretta sull'altura
- e
il brillìo della pioggia che
l'esalta
- ha
l'incanto di tutti gli elementi
- laudati
e benedetti da Francesco.
-
- Costumi
arcaici ed arcaici rituali
- gettano
sulle lastre del sagrato
- schegge
di storia, luoghi sconosciuti
- in
fantasie sognanti ricreati,
- incerti
passi dentro la speranza,
- dubbiose
comunanze a confortare
- le
solitudini di Dio; e sembra
- rinnovarsi
l'umana condizione,
- esultanza
dell'essere e pietà
- del
soffrire, soffuse negli affreschi
- estatici
di Giotto; un pietà
- che
intreccia e unisce le segrete vie
- dei
pellegrini spersi nel pianeta.
-
- Ma
al di là di transenne e
colonnati,
- non
hanno un tempio o un cantico o un
altare
- gli
esclusi dalle stelle vorticanti
- nell'inesausto
anelito all'Empireo,
- gli
esclusi dai giardini ruscellanti
- dono
d'Allah alla del deserto,
- quegli
esclusi che affondano il futuro
- nell'orrore
dell'ultima abiezione,
- che
non hanno un'icona a rispecchiare
- una
sembianza somigliante all'io,
- che
riflettono in acque di palude
- equivoche
parvenze disamate,
- che
avvertono la colpa, nell'ambiguo
- piacere
del possesso, di strappare
- ciò
che ad altri è negato; unici
esclusi
- dal
povero conforto del perdono
- per
la vergogna d'essere se stessi.
-
- Per
altri Michelangelo ha pensato
- I
furori e il trionfo del Giudizio,
- ad
altri gli orgogliosi minareti
- e
i tramonti su cupole dorate,
- ad
altri ogni sublime costruzione
- che
doni un'illusione alla speranza.
-
- Ma
la volta del cielo è per gli
esclusi
-
-
- Un
sogno, o forse no?
-
- Dall'alto,
la vedevo, la navata
- tenebrosa,
né ampia né solenne,
- eppure
mi pareva di trovarmi
- sospesa
dentro il Duomo di Milano.
- Su
una guglia, pensavo, ma una guglia
- non
era, che sui tetti delle chiese
- stanno
le guglie: ero piuttosto dentro
- qualcosa
di pendente dal soffitto,
- una
preziosa gabbia di cristallo
- colma
di fregi eppure trasparente,
- che
tanto somigliava a una lanterna,
- fioca
di luce e triste come quelle
- riflesse
nei canali di Venezia.
- ...sola
e sospesa e forse condannata
- come
Jago, nel film di Orson Welles
- ...e
innocente, pensavo, ma un barlume
- residuo
di coscienza mi diceva
- che
coinvolta ero stata in un complotto
- di
cui nulla sapevo, né lo scopo
- finale,né
i mandanti, né i gregari
- che
erano tanti, questo lo sapevo,
- che
un mare di lanterne non li avrebbe
- racchiusi
tutti e non erano forse
- né
consci né essenziali: ma i mandanti,
- dov'erano
i mandanti? e perché mai
- io
solo stavo dentro a una lanterna?
- E
l'ansia di capire e la paura
- di
un'iniqua sciagura sconosciuta
- mi
soffocava come fossi stretta
- dentro
un cilicio che sempre di più
- i
muscoli e le carni attanagliava;
- ed
ansimante e attonita guardavo
- quello
spazio davanti alla facciata,
- quel
passaggio di fuga a me precluso
- che
foscamente lento s'abbuiava.
- Il
cielo s'era fatto cupo, come
- il
più cupo dipinto espressionista,
- e
spenti erano i portici e le insegne
- e
le finestre e la piazza deserta;
- e
la navata oscura, più del Duomo
-
non era il grand'atrio di una banca,
- signoreggiante
sopra un grattacielo
-
un lussuoso poliedro di vetrate
-
che all'improvviso tutte le ricopre
-
una nerastra plastica avvolgente
-
che fa un buio assoluto attorno a me,
-
ridotta ormai una cosa in un involto
-
che non sa dove andrà né chi la
porta;
-
ma d'un tratto l'incarto, da violente
-
mani ghermito, è stacciato e
squarciato,
-
con un tetro fragore lacerante,
-
e con lo squarcio, il silenzio si
squarcia
-
nel crescendo assordante del tinnire
-
di striduli sonagli che l'arrivo
-
annuncia di uno stuolo di monatti
-
che i volto ripugnanti dietro i vetri
-
appoggiano e ciascuno è accanto e
sopra
-
l'altro come una cupola mostruosa
-
che si disgrega quando ogni monatto
-
ad un carro gemente s'avvicina,
-
che di carri gementi è tutta urlante
-
la piazza e accumulati in terra stanno
-
mucchi di corpi bruni, accatastati
-
i morituri con i morti, e tante
-
membra infantili e volti scheletriti
-
e, come su uno schermo gigantesco,
-
sguardi atterriti vagano nel cielo,
-
come agghiaccianti fari nella notte;
-
ma non vedono me, che ben nascosta
-
in alto sto, dentro la mia lanterna;
-
eppure il desiderio di svelare
-
una colpa segreta mi fa urlare
-
che per le morti loro e per le vite
-
miserabili tanto che esistenze
- non
sono stata mai, io provo come
- un
penoso rimorso, negli anfratti
- della
coscienza, e chiamo accanto a me
- i
mandanti impostori a discolparsi,
- ma
la voce nella gola si strozza
- e
solo emette flebili lamenti,
- e
allora busso con rabbia sui vetri,
- ma
i vetri più non trovo,solo il
vuoto,
- e
il vuoto è un pauroso
precipizio,
- e
su quel vuoto discende e si espande,
- col
mio silenzio,il silenzio di tutto.
- E
finalmente ho il dubbio e la speranza
- che
solo un cupo sogno stia sognando.
-
- Al
risveglio, riconosco le tracce
- di
un rapido piovasco che ha lasciato
- più
trasparente il cielo e più
vicina
- una
falce di luna e più specchiante
- la
strada che riverbera le luci
- di
una macchina in corsa solitaria,
- troppo
veloce perché la conduce
- un
giovane in ritorno dall'amore;
- e
m'accoglie il balcone, che non è
- una
lanterna,coi suoi vasi fioriti,
- stillanti
fresche gocce sulle mie
- ansie.
Ma come un tessuto imbevuto
- a
fatica si stacca dalle membra,
- così
addosso rimane avviluppato
- il
ricordo del sogno; e quel ricordo,
- che
la pietà confonde col disagio,
- persistente
si installa nella mente,
- anche
se mi ripeto che quel sogno
- non
è che un cespo d'erba distaccato
- da
un'ondata improvvisa che galleggia
- sopra
i pensieri come su uno stagno,
- non
è più che una fuga di
visioni,
- un
mistero intravisto in controluce,
- un
silenzioso dialogo angosciante,
- una
colpa rimossa e negli anfratti
- del
cervello nascosta, un quasi niente,
- che
certamente è assurdo comparare,
- a
una qualsiasi cosa, perché un
sogno
- non
è, mi dico, niente più di un
sogno
- un
sogno, un sogno, un sogno:
-
- o
forse no ? -
-
-
-
-
-
-
-
La raccolta "Le piramidi del Circo" affronta, come
sottolinea la prefazione di Oliviero Diliberto,
"l'orrore della guerra, del colonialismo, della
violenza. L'orrore del cuore umano...e consegna un
brandello - di quell'orrore - sotto forma di
lirica". A tale proposito, Diliberto ricorda che
"precedenti illustri avevano trascritto in forma
poetica la prima guerra mondiale (l'elegia
struggente e terribile della trincea di Ungaretti),
poi i massacri dei nazisti in Italia (il Quasimodo
di "Alle fronde dei salici"). Con la poesia di
Serena "giungiamo agli orrori dei giorni nostri,
sino all'Iraq" ... "Ecco, dunque, il lacerante
grido di dolore di queste liriche, il loro
esplicito messaggio ... la letteratura può -
e secondo alcuni, deve, dovrebbe - svolgere un
ruolo prezioso di denuncia". Tutti i testi che
compongono la raccolta si ispirano a tale principio
e ricordano: "il lungo monologo finale della "vita
di Galileo" (di Bertold Brecht) sul tema della
responsabilità dell'intellettuale. A tale
responsabilità, grande e terribile, Serena
non ha voluto sottrarsi".
- Secondo
Angelo Gaccione, in particolare "lo splendido testo
di apertura: "Parole al rogo" per efficacia
stilistica e forza espressionistica assurge quasi a
manifesto letterario".
- Nelle
poesie seguenti: "Parole al rogo" è la
denuncia della barbarie della guerra preventiva che
richiama altri orrori di epoche
precedenti.
- "Cocktail
Iraq" evidenzia gli interessi economici che
determinano la guerra in Iraq, come, in generale,
tutte le guerre.
-
-
-
-
Parole al rogo
-
- "La
guerra umanitaria non è guerra:
- è
l'esplosione di una civiltà
- che,
avvampando, purifica de genti":
- che
disgregate sian queste parole,
- e
scomposte e sconnesse e frantumate
- e
squarciate e smembrate e stritolate,
- che
una sillaba sola non rimanga,
- né
una vocale, né una consonante,
- sì
che non si congiunga il senso infame
- dell'impostura
e del plagio letale,
- dell'insensata
litania di morte;
- che
sian scagliate nel fetido brago,
- e
imbrattate e insozzate e calpestate,
- estirpate
dal cuore e dalle menti,
- dalla
ragione schernite, oltraggiate
- dalle
coscienze, dai sensi schifate,
- come
l'infamia dell'incesto, come
- le
catene gementi degli schiavi;
- che
sian bruciate e incendiate e scagliate nel vento
fin che ceneri di morte
- ritornino
sui nostri capi chini
- e
i capelli, ingrigiti da improvvisa
- vergognosa
vecchiezza, testimoni
- diventino
di un mondo imbarbarito
- che
si contorce sulla propria fine.
-
-
- Cocktail
Iraq
-
- È
un cocktail nuovo, viene dall'Iraq
- e
si dava per certo il suo successo.
- Simili
sono gli ingredienti a quelli,
- a
suo tempo, elencati da Neruda
- in
un passato lontano e vicino,
- perché
stessa è la Ditta produttrice.
- Semplice
la ricetta: per un terzo,
- si
prenda sangue di donne e bambini,
- falciati
dalle bombe intelligenti;
- divenuti
da poco, per variante
- del
produttore, sangue di ribelli.
- L'ultimo
terzo è quello più
complesso:
- c'è
sangue americano, mescolato
- a
quello proveniente da altri luoghi,
- copiosi
come i grani di un Rosario.
- Nella
mistura si immerga un cubetto
- di
ghiaccio che sussurri, gorgogliando,
- "Difendiamo
la nostra civiltà".
- Si
può, a piacere, aggiungere uno
spruzzo
- di
invettive e di ingiurie di una donna
- invasata;si
scuota forte il tutto
- e
l'intruglio è completo ed
approntato.
-
- La
ricetta sembrava ben studiata,
- ma
quei profitti, che parevan certi,
- ogni
giorno si fanno più insicuri,
- così
da far pensare che le spese
- non
siano state ben preventivate.
- Qualcuno
obbietterà: "Ma come?Il sangue
- non
è merce prezzata sul mercato".
- È
vero, ma bisogna pur pagare
- i
propri donatori, ed addestrarli
- e
armarli e, senza sosta, motivarli,
- perché
vadan, persuasi e baldanzosi,
- come
vitelli a farsi macellare.
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