Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconto
di
Vittorio di Stefano
 
EZECHIELE
 
Credo che Ezechiele fosse considerato come un figlio; forse perché infine era giunto a farne le veci, certo del tutto inconsapevolmente, da ambo le parti. Loro erano persone estremamente riservate. Avevano accennato a parlarne ben poche volte. Tuttavia mi era sembrato di capire che dovevano essere stati quei suoi occhietti vivaci, talvolta un po' enigmatici, sognanti, ad averli ammaliati; soprattutto lui, Giorgio, uomo sicuramente di cuore, genuino, appassionato in tutte le sue cose. Lei, Elisa, persona più compassata, desiderosa di attenzione, doveva invece essere stata catturata da quella considerazione che Ezechiele mostrava sempre per chiunque gli fosse vicino; non cessava mai di guardarti e di masticare, a bocca chiusa, educatamente, con i baffetti bianchi che vibravano. Era tutto bianco, Ezechiele, gli occhi adornati di un rosa quasi femmineo; cose che dovevano aver inciso profondamente negli animi dei nostri conoscenti in via di sviluppo per diventare veri e propri amici, a giudicare dagli scambi di inviti a cena che stavano per divenire abituali.
Che Ezechiele cercasse continuamente di gratificarti della massima attenzione si vedeva anche dalle orecchie che si muovevano ad ogni tua più piccola mossa, orecchie lunghissime e dritte, come hanno i conigli. Spesso ristava sulle zampette posteriori, univa quelle anteriori, inalberava le orecchie a "V", ti guardava intensamente mentre quel suo nasino rosa palpitava in segno di grande affettuosità e, all'improvviso, l'orecchio sinistro si piegava in due. Era allora che sentivi sorgere dall'area pericardica un inarrestabile fiotto di simpatia.
Di solito, mentre si era a tavola sotto il pergolato, lo lasciavano libero di scorrazzare per il prato. E lui lo faceva abbondantemente. Poi spariva per andare a riposare nella sua gabbietta, sempre aperta, posta discretamente dietro una siepetta di ortensie. D'altra parte Ezechiele era molto educato; non era come certi gatti che vengono lì ad importunarti, ti si strusciano contro i calzoni... e che dire di certi cani che oltretutto sbavano e ti impelano tutto, si profondono in atteggiamenti ora adulatori, ora mendìchi, ora di rimprovero, il tutto per un misero boccone.
Purtroppo noi dovevamo essere destinati a codeste specie. Dopo un gatto dall'ego gigantesco, il cane che nostra figlia ci impose, un grazioso alano, certo non grande come un vitello, aveva il naso più umido della norma ed era ancora più indiscreto, sebbene grasso e continuamente rimpinzato dalla pargoletta. Però non era come un coniglio. Aveva un che di fiero ed irrispettoso che mandava in bestia me ed in sollucchero Gemma, l'altra mia metà. Talvolta ho sospettato che fra i due fatti vi fosse un nesso, nel senso che il secondo fosse conseguenza del primo. L'unica cosa che Ariel ed Ezechiele avevano in comune era il colore del pelo. Però quello di Ariel si doveva essere maculato al concepimento, forse per colpa della madre o forse del padre, non lo so, perché quando si impadronì della nostra casa era già cucciolone di nove mesi. Quel bianco macchiato era per noi una spesa continua a favore del lavacani, che possedeva il "know-how" e forse tecnologia giapponese per tenerlo fermo nella vasca. Ezechiele invece si manteneva bianco da solo, una creatura deliziosa, degna dell'adorazione di Giorgio ed Elisa.
Il senso di colpa mi esplose dentro quella sera che tutti felici approfittammo del loro invito per presentare Ariel. Ma andiamo per gradi. Cominciammo col sentirci un po' in colpa per essere giunti troppo presto; trovammo Elisa e Giorgio ancora impegnati nella preparazione della cena. Quel disagio crebbe, alimentato dal fatto che non fecero tanti complimenti e ci accompagnarono in giardino, degnando Ariel appena di uno sguardo privo di emozioni, per poi ritirarsi silenziosi in cucina.
Eravamo in paziente attesa da non pochi minuti, seduti su una panchina, che comparve ai nostri occhi la prova che il cane imita l'uomo, a tutti i livelli. Con quel fare giocoso ed irresponsabile tipico dei cuccioloni di ogni specie, compresa la nostra, Ariel teneva in bocca Ezechiele e scuoteva la testa come se non si vedesse che quello era morto abbastanza.
Morto, Ezechiele, gli occhi sbarrati, gli orecchi piegati, alla mercè degli inferi. Giuro di aver visto il suo fantasma, o forse era la sua anima candida, aleggiare sopra quel cerbero, le zampette anteriori riunite e rivolte verso il cielo, in preghiera. Giuro che invocai il divino affinché inducesse quell'anima pia a rientrare nel corpo appena abbandonato. Giuro che non avrei voluto essere là per tutto l'oro del mondo. Gemma era terrea e nostra figlia guardava come se non credesse ai propri occhi.
Questo sì che era un vero senso di colpa! Mica quello di prima!
Ora, è più forte il senso di colpa o l'istinto di sopravvivenza sociale? Il fatto è che scoprii una parte inedita di me stesso. A ripensarci mi vengono in mente le metamorfosi di Ovidio, quelle di Nicandro e quelle di Apuleio; quisquilie! Forse il Kafka col suo uomo che si trasforma in scarafaggio c'è andato più vicino. In effetti io ero precipitato ancora più in fondo nella scala dell'evoluzione: ero diventato un verme, forse un anellide, o un nematelminto, non saprei. Con calma e determinazione feci sì che l'infame botolo mollasse il bottino. Una volta avuta la bianca creatura completamente nelle mie mani, sentii scivolare nell'animo un essere serpentesco mai prima visto né sentito. Quell'essenza diabolica ne prese subito possesso. La cosa che ancora oggi mi fa tremare e temere per l'umanità fu che non ne fui affatto sconvolto, anzi, lo accolsi con sollievo ed ammirazione. In preda a raptus scultoreo, agii con mani empie sul cadavere, ne plasmai astutamente la posa fino a realizzare uno di quegli atteggiamenti che da vivo rendevano felici i suoi padroni. Strisciando come un platelminto, raggiunsi la gabbietta del defunto e ce lo ficcai dentro. Lo stiracchiai ancora un po' per farlo sembrare più naturale. Gli tirai su le orecchie che rimasero belle dritte. Biecamente soddisfatto del risultato gli feci anche un salutino: "Ciao , ciao!". Il senso di colpa mi schiumò acido cloridrico nello stomaco quando l'orecchio sinistro, da solo, si piegò a metà. Chiusi gli occhi e mi voltai. Cercai di nascondermi perfino a me stesso e tornai alla panchina. Messo rapidamente a guinzaglio Ariel, iniziai a conversare con Gemma come se niente fosse.
Quella sera non incoraggiammo, come nostro solito, il Giorgio e l'Elisa ad aprirsi un po' ed almeno tentare di vincere la loro imperterrita riservatezza. La cenetta trascorse fra brandelli di conversazione su argomenti di eccezionale banalità, come la fame nel mondo, il genocidio dei Kurdi, e sul fatto incontrovertibile che la specie Homo Politicus ha come tratti distintivi una passione viscerale e l'abilità necessarie e sufficienti ad infinocchiare la gente comune, e via dicendo. A me personalmente i manicaretti di Elisa andavano come in pellegrinaggio di penitenza alla Mecca: nella fattispecie tre passi in giù e due in su. Il vomito, riuscii a neutralizzarlo a suon di bicchieri di rosso di Montalcino, di cui Giorgio aveva generosamente imbandito la tavola.
Al dessert il senso di colpa era divenuto protuberante e nella smania di crescere assumeva forme subdole, come quella vogliolina gorgogliante di confessare tutto. Tenni duro. Anche i miei furono eroici.
Come Dio volle la cena finì. Gemma accusò improvvisamente un violento quanto provvidenziale mal di testa, assolutamente inventato; anche lei, che verme! Trovammo i nostri ospiti assai premurosi. Ci accompagnarono subito all'uscita. Il commiato fu breve e finalmente quella loro porta si chiuse alle nostre spalle. Chissà perché il suono del battente risuonò per tutta la lunghezza del mio corpo come il ricadere del coperchio su di un sarcofago. Addio Ezechiele! Sono sicuro che se c'è, sei in paradiso, mentre io...
Passarono le due settimane canoniche, dopo le quali avremmo dovuto invitare Giorgio ed Elisa. Di solito nel corso di quelle settimane le due signore si scambiano 3 o 4 discrete telefonatine come se avessero il pizzicorino e fosse il caso di grattarsi. Ma Gemma non ricevette alcuna chiamata e quando provò a telefonare non trovò nessuno a rispondere.
Cominciammo a scambiarci occhiate in silenzio. Ciascuno di noi sapeva che cosa voleva dire. Alla decima occhiata mia moglie mostrò le palme delle mani come per dire: "È andata. L'amicizia è rotta per sempre."
Dopo un'altra settimana io sbottai: "Avranno certamente capito, ma io non ci posso far niente!" - poi aggiunsi urlando - "Va bene!"
"Vedi, quello che mi fa pensare..." - intervenne pacata Gemma - "... è che non rispondono a telefono. Questo va oltre la questione di Ezechiele. Sono partiti per un viaggio... cose che non ci riguardano... e poi il cane l'hanno sempre visto legato... e che? A questo Ezechiele non gli può essere preso un infarto?" - e poi aggiunse urlando - "Eh! Non gli prendono gli infarti ai conigli!?"
Passò un mese. Io non mi sentivo più verme che due o tre secondi alla volta.
Di lì a qualche giorno il telefono squillò. Ero convinto che quello era uno squillo particolare. Non ci credete? Non è importante. Io so che sentii che quella era Elisa che chiamava. Accesi il viva voce e Gemma rispose.
"Pronto? Chi è?"
"Gemma, sono Elisa."
Sentii i brividi tempestarmi l'epidermide.
"Oh! Cara Elisa! Finalmente! Vi abbiamo cercato tanto!"
"Purtroppo siamo stati via." - silenzio ed i brividi che non se ne volevano andare.
"Purtroppo? Che vi è successo?" - Dio, come suonava falsa la sua voce!
"Eh! Abbiamo avuto una disgrazia!"
"Non mi dire che Ezechiele..." - che sciagurata! Ma non conosceva il detto: "Jole, il dente batte dove la lingua duole... o viceversa; ero in preda ai brividi.
"Sì, purtroppo. Ezechiele ci ha lasciati, più di un mese fa..."
"Un mese?... Ma... quando siamo venuti a cena da voi!" - era certo il senso di colpa che le faceva profferire quelle stupide parole!
"Eh! Sì, cara Gemma, proprio allora." - silenzio - "Non ti dico la disperazione di Giorgio!"
"Capisco, ma... ora io... insomma ragazzi... certo noi non possiamo capire... noi abbiamo quell'Ariel là... no... capisco che non può essere la stessa cosa..."
"Ci era così affezionato, sai..."
"Eh certo noi non possiamo capire..."
"Ci parlava... era come..."
"Un figlio? Certo, certo, ma per il vostro bene, io dico che bisogna farsi forza."
"Ma io mi sto facendo forza..."
"E Giorgio?"
"È ancora in ospedale."
Mio Dio i brividi!
"In ospedale?"
"Ezechiele era morto. E lui lo ha seppellito amorevolmente in giardino. Noi ci scusiamo, ma quella sera eravamo ancora terribilmente sconvolti e non volevamo darlo a vedere. Il brutto è stato quando al mattino dopo Giorgio è andato a prendere la gabbia per portarla via ed ha visto Ezechiele che doveva essere uscito dalla tomba e lo aspettava, sai come faceva lui con quell'orecchio a metà giù? È stato allora che gli è venuto l'infarto."
 

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Inserito il 7 novembre 2000