Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconti
di
Walter Magnani

L'allievo
 
 
La finestra socchiusa dello studio sbatté leggermente, richiudendosi alle sue spalle.
Con la sensazione che quello fosse un "segno" di ostilità ambientale collegato, chissà
come, al suo umore spento e vagamente annoiato, incapace di concentrazione sullo spartito, pensò che quella non fosse una giornata propizia e decise di chiudere così con gli esercizi quotidiani.
Tolse definitivamente le mani dalla tastiera del pianoforte, vi stese sopra la striscia di pannetto verde ed abbassò il coperchio.
Alzandosi, volse lo sguardo verso la cucina, dalla quale un odore di caffè arrivava ancora a tentarlo; ma dopo un attimo di incertezza si diresse pigramente alla finestra, dove una tendina era rimasta incastrata nella congiunzione delle ante.
La giornata di sole caldo e luminoso pareva aver riportato il clima indietro di due mesi, quando, in piena estate, già al mattino presto faceva così caldo da fargli prendere un giorno una di quelle decisioni alle quali non riusciva mai a venire a capo, rimandandone continuamente la conclusione, com'era suo solito. Era stato verso la metà di luglio, quando gli esami di diploma lo avevano stancato oltre il previsto, mentre faceva un caldo insopportabile e i ragazzi sudavano più del solito sulla tastiera e lui si disse con animo deciso che " per quest'anno sarebbe andata ancora così, ma che sarebbe stato l'ultimo. Che il condizionatore era ora di comprarlo; che addirittura le dita gli scivolavano sui tasti bagnati di sudore; e che anche per dormire meglio era diventato necessario".
Avrebbe fatto, probabilmente, come al solito. Si sarebbe informato da qualcuno che di queste cose se ne intendeva; magari gli avrebbe fatto vedere l'appartamento e qualora avesse avuto l'impressione che l'interpellato fosse una persona che , oltre ad essere competente, fosse anche onesta, si sarebbe lasciato convincere. In quanto poi a certi prezzi di cui aveva sentito parlare per fare un buon impianto, pazienza: era così; e poi se lo poteva permettere. Ma sicuro! Non si poteva certo dire che stesse sempre a spendere, anzi. Certe volte si meravigliava lui stesso di quanto poco, in fondo, spendesse i suoi soldi. A volte si accorgeva di ciò, quasi improvvisamente, per lo più mentre passeggiava sotto i portici a fianco di tutte quelle vetrine quando di colpo si arrestava, attratto dai più disparati oggetti, fissandoli fino a convincersi che li avrebbe acquistati. Ma poi, dopo averli osservati bene e, con l'immaginazione, averli sistemati in quello che gli sembrava il luogo più adatto per la sua casa, lasciava, altrettanto improvvisamente, cadere l'idea, convincendosi di punto in bianco del contrario e allontanandosi con un lieve sorriso, già contento così, di essersi concesso una bizzarra fantasticheria.
" Beh!, vedremo…", gli passò per la testa a proposito del condizionatore, mentre richiudeva la finestra.
All'improvviso il telefono si mise a squillare.
Quel rumore inaspettato, insistente ed imperioso lo lasciò di stucco per un istante, durante il quale interrogò la memoria. Non gli venne in mente niente lì per lì e si affrettò all'apparecchio anticipando la risposta automatica della segreteria.
"Sì, pronto?"
"Pronto, il professor Viviani?" Una voce di donna dall'altra parte del filo gli chiedeva se fosse proprio il maestro di musica e insegnante di pianoforte Corrado Viviani, del Conservatorio.
"Sono io", rispose non senza una certa diffidenza.
"Buongiorno" continuò la voce in fretta come se temesse un brusco tentativo di interruzione da parte di lui. "Scusi se la disturbo professore. Sono la mamma di un ragazzo che fa la seconda…. La seconda media voglio dire; e siccome voleva… anzi io, io e suo padre vorremmo, per la verità, che riprendesse gli studi di piano… Ecco, noi volevamo chiederle se lei potesse "sentirlo" un attimo, per invogliarlo un po' ecco; perché lui, mio figlio, era bravo quando circa due anni fa si mise a prendere le prime lezioni…. e aveva anche entusiasmo. Gli avevamo preso il pianoforte, perché sembrava proprio che gli piacesse, poi… Poi, a un tratto si è stancato, non lo so….. Comunque, adesso l'ha abbandonato quasi del tutto; sembra che non gli piaccia più. Ma era bravino, come le ho detto. Ed è un peccato… anche per il pianoforte, voglio dire: è lì che non viene quasi più toccato ed è un peccato. Se lei potesse sentire cosa gli è rimasto e magari incoraggiarlo, ecco, mi farebbe un grande piacere…"
Era una voce ferma, sicura, di chi è abituato a stare al telefono. Le poche esitazioni i cui era incorsa erano dovute sicuramente al fatto di parlare ad uno sconosciuto.
Le pause che di tanto in tanto aveva creato erano servite per tendere l'orecchio cercando di percepire una qualche sensazione nel respiro che provenisse dall'altro capo del telefono. Poi, non essendo stata interrotta, la voce rallentò, verso la fine della spiegazione, lo slancio iniziale del discorso; e si fermò all'improvviso, con un abbassamento di tono, fino a smettere di parlare, in una sospesa attesa di risposta.
Corrado lasciò passare solo un istante prima di rispondere. Era piacevolmente colpito da quella voce, ma soprattutto dal modo di parlare di lei.
"Ma… guardi, signora", rispose infine con tono calmo e affabile, "lezioni private non ne do più, ormai da anni. Non so come dirle ma… ho deciso così allora per motivi che non sto a spiegarle. Ormai si sa che dico di no e non me lo chiede neanche più nessuno…. Veramente, mi dispiace… Capisco benissimo che è un peccato, tuttavia…"
"Ma è solo per sentirlo", fece di colpo, ma garbatamente, lei. "Per sentire cosa gli è rimasto dopo due anni e soprattutto per incoraggiarlo a riprendere. Poi se lei dice che può riprendere e da che punto…e se, con il suo consiglio, lui si decide,… allora lo manderò da qualcuno. Magari me lo dice lei da chi, se conosce un insegnante disposto".
Di nuovo si interruppe pronunciando a bassa voce l'ultima sillaba; e di nuovo quella voce lo colpì. Arrivava, da quelle parole, un sottofondo di suoni bassi, lievemente smorzati, su cui poggiavano note decise, come una fila di ottoni e di clarinetti e le esalazioni del respiro ne caratterizzavano il timbro, dando, alla voce stessa, movimento e unità di ritmo. La sensazione forse più stravagante che percepiva Corrado era quella di poter indovinare i lineamenti di una simile cavità orale, che egli immaginò ampia; e l'accentuazione delle ultime sillabe gli dava l'idea di una persona pronta al sorriso.
"Beh, senta… Non so…. Lei quando vorrebbe venire?…."
"Anche oggi, se vuole!….. Se può, anche oggi."
 
Arrivarono dopo un'ora circa, lei e il ragazzo.
Quando aprì la porta, Corrado vide la bocca di lei quasi esclusivamente e il suo cuore sussultò.
Ci sono sorrisi che dicono tutto. Sgombrano il campo da ogni perplessità e reticenza. Hanno a che fare direttamente con l'anima; e non si fermano sullo sguardo altrui, ma scendono. Vanno dentro espandendo le…. E …… dove si posano. Il corpo rimane immobile e lo sguardo trafitto.
Rimase attaccato con lo sguardo ai suoi occhi neri, gli zigomi leggermente pronunciati, i capelli scuri arricciati e ancora quel sorriso contornato da labbra carnose e sensuali. Lei, con espressione divertita, osservò per qualche istante lo sguardo insistito di lui, prima di dire: "Eccoci qua!". Aggiunse anche una piccola risatina di compiacimento che risuonò leggera e secca come una serie di accentuate espirazioni.
Corrado si accorse del proprio attimo di confusione e guardò di colpo in basso, verso il ragazzo e con aria gentile e disponibile li esortò: "Bene. Entrate, prego…"
Il giovane era un ragazzetto robusto, con le gote rosse e rotonde; dall'aria un po' triste, come chi è trascinato ad un supplemento di fatiche scolastiche impreviste ma che, con appena malcelata rassegnazione, dà a vedere di essere disposto a sopportare.
 
Dopo che furono entrati, passarono nello studio e si presentarono.
"Mi chiamo Paola", fece lei porgendogli la mano, "Paola Melotti; e questo è Enrico". Il ragazzo sorrise timidamente guardando il piano, quindi si accomodarono tutti e tre al tavolo rotondo vicino alla finestra, sul quale Enrico appoggiò la cartella che si era portata appresso.
"Bene. Tua mamma mi ha detto che hai preso lezioni per qualche tempo. Vuoi farmi vedere che cosa avete fatto e su quali libri?"
Corrado cercò di assumere un tono il più cortese possibile ed Enrico aprì la cartella tirandone fuori due volumi di solfeggio e tre di tecnica pianistica. Chiacchierò con lui fino a metterlo a suo agio. Si informò su chi fosse stato l'insegnante fino a quel punto, sulla frequenza delle lezioni, sul pianoforte di entrambi e se fosse sicuro che il suo fosse ben accordato. Poi, se aveva qualche amico che studiasse musica, se con loro ne parlava, se i genitori lo seguivano, che scuola media frequentava. Cercò di farsi venire in mente se conosceva qualcuno in quella scuola.
Sua madre era lì, seduta a fianco al ragazzo, di fronte a Corrado, con la testa appoggiata alla mano destra e il gomito sul tavolo, attenta a quello che i due si dicevano; e quando Corrado la guardava velocemente, si mostrava contenta per come si mettevano le cose. Sorridendo, emetteva un'espirazione e a Corrado pareva che da ciò gli pervenisse parte dell'intimità di lei, una fragranza sua interiore che si accompagnava al profumo che emanava.
Finì col chiedere ad Enrico se facesse dello sport e quale fosse la sua squadra di calcio preferita. Il ragazzo sorrise enormemente, contagiando in questo gli altri due e rispose con decisione, mentre Corrado aprì un libro con l'intenzione di sentire un po' di solfeggio. Enrico, ormai a proprio agio, attaccò al meglio di quanto poteva ricordare alcune righe abbastanza semplici, con una certa disinvoltura.
"Ho capito. E sullo strumento? Cosa avete fatto?"
il ragazzo spiegò, mentre insieme si portarono al piano.
"Hai visto che bel piano?", disse lei dal tavolo.
"Non farci caso…", lo tranquillizzò Corrado temendo un condizionamento del ragazzo che si apprestava a mettere le mani sul suo Steinway a mezza coda, nero e austero: "….è come il tuo".
Enrico invece si emozionò e balbettò uno dei primissimi esercizi dell'Antologia pianistica della Gioventù, sbagliando completamente tutto e interrompendosi dopo tre battute, tutto rosso e mortificato. "Fa lo stesso, Enrico. Non voglio che tu mi faccia bene l'esercizio. Stiamo solo facendo due chiacchiere per conoscerci meglio; non ti preoccupare. Voglio solo vedere come hai impostato la mano."
"Comunque, questi li faceva bene..", lo soccorse la madre.
"Ma certo. Facciamo così: fammeli sentire, magari solo accennati, a mani separate; poi vediamo".
Il ragazzo si tranquillizzò nuovamente; ed in effetti, a mani separate, le cose andarono meglio; tanto che, anziché accennarli, Enrico ne eseguì quattro di fila, prima con la destra poi con la sinistra, molto meglio, senza interruzioni e solo con qualche errore trascurabile, dovuto alla rigidità del braccio. Quando poi Corrado disse: "Bene", lui continuò con più attenzione, ripetendo un esercizio a mani unite, eseguendolo discretamente.
Corrado sorrise volgendosi verso la madre che lo guardò felice: "E' solo questione di stare tranquilli", soggiunse.
Il ragazzo, a questo punto, volle strafare e propose con una certa smania: "Abbiamo fatto anche la Sonatina di Clementi".
"Beh, se vuoi…. Sentiamo."
Era la prima del gruppo delle 6 delle Sonatine di Clementi: la più conosciuta. Ma questa volta, con un orribile e sgangherato "basso albertino" che Corrado mal sopportò, Enrico eseguì, come se stesse con le braccia sul manubrio della bicicletta o giocando a bigliardino, tra errori e battute fuori tempo, un'accozzaglia di note senza la più lontana parvenza di musicalità, che richiamavano solo a distanza abissale quelle, per la cui grazia e leggiadrìa, era famosa la suddetta Sonatina.
Si trattò, per fortuna, del solo Movimento finale: il Vivace.
Alla fine, Corrado fece un vago cenno del capo, come se avesse capito qualcosa e il ragazzo ne fu contento.
 
L'accordo fu stabilito per sei lezioni, esclusa questa, a partire dal giorno dopo, a metà pomeriggio. Si sarebbe stabilito di volta in volta l'appuntamento successivo. Ma, più o meno, sarebbero state due volte la settimana, per tre settimane: giusto il tempo che mancava all'inizio ufficiale delle scuole. Sarebbe venuto solo il ragazzo. La madre lo avrebbe accompagnato per tornare a riprenderlo dopo un'ora. Corrado, con un certo imbarazzo, concordò il costo orario e aggiunse che, comunque, si sarebbe trattato solamente di lezioni di ripasso.
"Ma certo!", fece lei sorridente e felice dell'esito di quella lezione; convinta com'era che Enrico fosse rimasto ben impressionato dal modo di fare di Corrado e che il figlio avrebbe tratto non solo giovamento da quelle lezioni, ma, come aveva sperato, un rinnovato piacere a continuare lo studio.
 
Corrado restò a pensarci un po' su, dopo che furono usciti.
Si sorprese di come si fosse lasciato cogliere da quell'evento che ora gli sembrava essersi svolto in modo tanto rapido, con un ritmo a lui inconsueto. Ricostruì il susseguirsi di quelle poche ore, a cominciare dalla telefonata; da quella voce, da quel moto interiore che gli aveva impedito di rifiutare l'incontro, come invece era capitato altre volte: sbrigativamente e seccamente. Poi la sensazione di fastidio, emersa durante l'attesa per la rassegnata accondiscendenza con cui aveva infine risposto quel:"Va bene". Gli venne in mente il rapido rassetto dello studio e del vano d'ingresso; il breve esame, scacciato subito con un gesto stizzito, sulle cose da offrire; fino allo squillo del campanello; fino al sorriso di lei, davanti al quale egli si fermò, parendogli ora che solo uno sforzo gli avesse consentito di uscire dal suo fluido avvolgente. Ed ora ascoltava il suo stato d'animo che si manifestava inquieto e turbolento. Pensò a lei; ne odorò il profumo persistente nello studio e ne inspirò la voluttà.
 
 
L'indomani arrivò segnato da quell'attesa e dai preparativi necessari. Corrado fu occupato per buona parte del mattino dagli esercizi per sé, prima di dedicare un po' di tempo alla costruzione di un programma di ripasso per l'allievo. Per questo gli bastò, quasi automaticamente, raccogliere alcuni volumi dei primi corsi che teneva stipati in un settore del mobile-libreria, di fianco al piano. Ne mancava solo uno e gli dispiaceva non averlo. Era una delle ultime raccolte della Ricordi dei piccoli brani di Duvernoy, che era stato adottato dalle scuole negli ultimi anni e che lui non aveva comprato per sé, ma che riteneva buono, anzi, indispensabile.
"Peccato", pensò con disappunto, sistemando i volumi scelti sul piano, "faremo qualcos'altro. Anzi, no. Non vedo perché dovremmo rinunciarvi: se lo andrà a comprare. Certo, se vuole studiare se lo và a comprare."
Non si sorprese più di tanto di questo moto autoritario che gli salì all'improvviso. Gli insegnanti, si giustificò, lo sanno loro ciò che serve. Così aveva fatto lui a suo tempo, quando i suoi maestri si presentavano e dicevano: prendete questo e quello; e basta.
Tra l'altro, allora bisognava andare da "Del Rio: strumenti musicali e partiture", anche più di una volta, a prenotare prima, e a sentire poi se fosse arrivato ciò che era atteso con impazienza. Già, con impazienza! Perché gli studenti di musica amano i propri libri; quando il maestro stabilisce che si è pronti per affrontare qualcosa di nuovo dicono con emozione: " Il prossimo è Debussy!" E quelle pagine sfogliate col fiato sospeso già dentro al negozio e poi in strada, a testa bassa tra la gente; con il nero delle note sempre più fitto che sembra impossibile venirne a capo e persino spaventano. Quei libri contengono qualcosa di loro, qualcosa che per il momento è ancora estraneo e sulla carta, ma che poi gli scorrerà dentro e ognuno di loro darà al contenuto un colore proprio, diverso da chiunque altro; perché si tratta prima di capire, poi di rielaborare.
 
"Potrei anche andarci io…"
Gli era passato per la testa di uscire e fare un salto al negozio di musica collegato al Conservatorio. Non che fosse necessario… Ma così: tanto per uscire e per dare un'occhiata a qualcosa di nuovo che eventualmente ci poteva essere al negozio di musica. Tanto per vedere se c'era quel Duvernoy, per esempio.
Si vestì; passò di fianco al mobiletto del telefono e tirò fuori l'elenco.
"Melotti….", disse fra sé. "Magari c'è… Forse c'è lei sull'elenco…"
"Melotti!… Melotti Ada, Aurelio, Claudio………… Melotti Paola… via Lago di Como 27!… di là dalla ferrovia…"
"Và beh!… ma che c'entra, andiamo!…"
Uscì. Prese la bici. Faceva caldo e la gente, per strada, portava ancora le camicette estive. Si diresse in centro, gironzolando adagio senza scendere dalla bici. Poi infilò una delle stradine che portano al Conservatorio, fermandosi qualche portone prima di esso e appoggiando la sella della bicicletta a una grondaia che scendeva di fianco al negozio di musica. Il testo che cercava c'era e chiese al commesso di riservargliene una copia per un suo allievo che sarebbe passato in quei giorni a prenderlo.
Di nuovo fuori, Corrado non indugiò molto a dirigersi verso il passaggio a livello che separava dal centro i quartieri con le vie dei laghi dove, presumibilmente, si trovava la via Lago di Como.
Infatti, dopo pochi isolati, si trovò lungo una strada costeggiata da villette quasi tutte con giardino e da un paio soltanto di piccoli condomini. Era al secondo di questi, il numero ventisette, e Corrado lo osservò. Una palazzina marrone, di tre piani, compreso quello terra, dov'erano allineati i garages. Con una fitta siepe davanti che lasciava posto a due ingressi laterali per le auto e uno rientrante per il vialetto centrale. Avvicinandosi al pannello dei campanelli vide il nome che cercava: Melotti. Melotti e nient'altro. Girò la bici, non prima di aver guardato in su per assicurarsi di non essere osservato e tornò indietro.
Ci mise un po' prima di pensare ad altro. Guardava avanti a sé, distrattamente. Ascoltava la quiete della propria solitudine scossa improvvisamente. Non era il tipo da lasciarsi facilmente condizionare nelle proprie abitudini; o almeno, così credeva. Eppure non era solo una questione di solitudine quella che stava affrontando con grande circospezione. Era semplicemente il fatto che si era trovato di fronte a ciò che desiderava: qualcosa, o meglio, qualcuno…; diciamolo pure: una donna che lo aveva colpito: e si trovava a pensare a lei.
Una donna forse sola, con un figlio; forse divorziata; forse separata… Una donna forte, bella, con personalità, con fascino. Ecco: più che bella, con fascino. Anche con un corpo piacente, e un sorriso abbondante e carnoso. Gli venne in mente una frase che aveva sentito, non ricordava dove, sull'incidenza dell'elemento di mascolinità nella donna e, viceversa, quello di femminilità nell'uomo come componenti caratterizzanti i due tipi di fascino; e questo gli sembrò vero, come qualcosa da lui stesso riscontrato.
 
Si diresse verso casa, senza aggiungere altro a ciò che già gli era entrato in testa.
 
Alle sei del pomeriggio del giorno successivo, Enrico arrivò e Corrado gli aprì la porta facendo in tempo a salutare la madre dalla soglia, mentre lei dall'interno della macchina lo ricambiò con un gesto della mano.
La lezione si svolse nel segno del ripasso, come stabilito e Corrado disse che gli aveva prenotato un altro libro da acquistare. Alla fine della lezione, mentre stavano aspettando Paola, Corrado chiese: " Tuo padre non ce la fa a venirti a prendere?… E' per via del lavoro?"
Enrico rispose senza alcuna incertezza: "Mio padre non abita con noi. Io sto con la mamma. Loro sono separati e lo vedo la domenica. Non sempre, però…"
"Ah!… ecco. Beh!, questa forse è lei."
In strada, infatti, si era sentito il rumore di una macchina che si era appena fermata e i due si alzarono contemporaneamente.
"Tutto bene?", chiese Paola ad entrambi non appena li vide.
"Tutto bene", rispose Corrado con le mani sulle spalle di Enrico che guardò in su, girando un poco la testa all'indietro, grato di quelle parole.
Lei allargò il sorriso e Corrado mise gli occhi dentro ai suoi, sorridendo anch'egli.
"Bene; allora a martedì della prossima settimana…"
"A martedì. E tu, mi raccomando, insisti con gli esercizi di tecnica."
"Va bene.."
"Allora… arrivederci"
"Arrivederci"
 
Non può fare molto chi non sa bene cosa fare. Può stare a sentire ciò che il suo animo vorrebbe; e immaginarsi le cose più disparate. Corrado la voleva rivedere, al più presto. Non avrebbe voluto che se ne andasse.
Quanti anni poteva avere, poi? A vedere così, giusto quei quattro o cinque meno di lui. E il marito? Stava con un'altra donna? Probabilmente sì. Normalmente sì. Chissà da quanto tempo erano separati? Era una cosa recente? Mah!..
Si guardò intorno. Guardò la sua casa. "Troppo poche luci accese nelle sere d'inverno!… Chi era che l'aveva detto?"
Comunque, il suo umore in quei giorni cambiò. Telefonò a questo e a quello, suscitando qualche sorpresa. Risentì a una vecchia amica che sentiva di rado, generando i lei una reazione di piacevole gratitudine; ancora di più quando le chiese qualche ragguaglio sul rinnovo del guardaroba, lasciandosi spiritosamente apostrofare con qualche bonaria allusione al suo modo di presentarsi sempre uguale da ottobre a maggio e da giugno a settembre; e così via, parlando a lungo… lasciandosi dire delle cose; senza obiettare; rispondendo allegramente: "E' vero!".
Aveva voglia di uscire. Ridusse al minimo il tempo dei suoi esercizi quotidiani e usciva di casa come uscisse di prigione. Ad un certo punto di pensò: "Ma quale altro insegnante? A Enrico ci penso io…", lasciandosi andare a un eccesso di entusiasmo.
 
Arrivò così il martedì successivo, poi il venerdì. Enrico stava riacquistando dimestichezza con ciò che aveva abbandonato e le lezioni procedevano secondo il programma stabilito. Era Corrado che vedeva ora con dispiacere l'avvicinarsi dell'ultimo di quegli incontri; perciò aveva raccomandato al suo allievo che, qualora si fosse trovato in difficoltà col piano, ora che ricominciava la scuola, di farglielo sapere, senza timori; e lui gli avrebbe dato senz'altro una mano. Cercava banalmente di avere un aggancio, per potere rivedere Paola; forse anche nel caso che Enrico si rivolgesse ad un altro insegnante, com'era stato detto all'inizio.
La quale Paola però, dal canto suo, aveva preparato una piccola sorpresa. Telefonò a Corrado il giorno prima dell'ultima lezione per invitarlo a cena la sera dell'ultima lezione: "Lo vengo a prendere alle sette, come al solito, poi ci troviamo a casa mia intorno alle nove; perché sa… voglio avere il tempo di preparare qualcosa. Niente di speciale però!… Glielo dico perché non vorrei che lei si aspettasse…"
"No, ma cosa dice. Anzi, la ringrazio molto di questo gentile pensiero.."
"Saremo noi tre: lei, io e Enrico.."
"Va benissimo. Io porterò qualcosa… un po' di vino… un dolce…"
"No, vino ne ho… non porti niente…"
"Ma…"
"Se proprio vuole, porti un po' di gelato… A Enrico piace con molto cioccolato."
"Va bene… del gelato…"
"Aspetti che le do l'indirizzo. Sa dov'è via Lago di Como? E' nel quartiere che si trova dopo il passaggio a livello della ferrovia…"
"Ah, ho capito! Dove ci sono tutte le vie dei laghi"
"Esatto. La terza a sinistra rispetto alla strada principale, venendo dal centro"
"Perfetto. Ho capito tutto. Allora ci vediamo domani, prima per la lezione e poi per la cena"
"Bene; a domani"
"A domani"
Era sorpreso; gratificato. "Ma guarda un po' ", si disse, "che succede, dopo che mi era sembrata una seccatura…E' proprio vero: quando meno te l'aspetti, ecco che ti succede quello che non avresti mai immaginato…"
Si mise a pensare a tante cose. Anche la notte rimuginò molto prima di prender sonno. Pensò a come vestirsi, al gelato con molto cioccolato; al fatto di vederla nella sua cucina, a dire qualcosa sui reciproci gusti culinari. Immaginò di sentirsi confessare che lei in cucina era una frana e lui di rispondere che invece amava la cucina e il cucinare. Pensò anche al dopo… al saluto di commiato; e a questo proposito gli venne in mente un innocuo giochetto. Avrebbe portato con sé un piccolo cimelio: un articolo di giornale di parecchi anni prima dove si parlava di lui come di una giovane e brillante promessa artistica, con tanto di foto. Un articolo del Resto del Carlino molto esagerato e provinciale, dove Corrado appariva insieme ad alcuni coetanei che erano stati scelti per uno scambio culturale fra giovani diplomati del conservatorio di Reggio Emilia con quello di Monaco di Baviera, davanti al quale era stata scattata la foto. C'era anche una medaglietta ricordo, con tanto di data con su scritto, tutto in tondo: " hoere Lehranstalt fur Kunste Musik" e dietro: " das Munich Konservatorium ".
Non era niente in tutto; soprattutto considerando quali e quante illusioni e disillusioni erano seguite a quell'entusiasmo giovanile. Ma in quel momento a Corrado piacque
l'idea di riprenderlo in mano e mostrarlo a lei: per sorridere insieme anche su di sé, su cosa aveva pensato negli anni, su come gli era andata… E il giochetto era quello di fingere di dimenticarselo in casa di lei; per poi telefonarle di nuovo dopo pochi giorni; andarlo a riprendere; riparlarle…. Un subdolo stratagemma da adolescenti che lo si intuisce subito a cui ci si sente sempre rispondere: "L'avevo capito". Ma tant'è. Il bello di queste cose è la loro componente irrazionale, e Corrado, sospettando un eccesso di ridicolo, lasciò il giudizio in sospeso; ma l'idea continuava a non dispiacergli…."Insomma: vedremo", si disse decidendo di prender definitivamente sonno.
 
Così il giorno arrivò. La lezione si svolse e Paola venne a riprendere Enrico, precisando ancora una volta: "Mi raccomando, più sulle nove che non prima…"
Corrado si preparò. Si vestì, si mise in tasca il famoso articolo e la piccola scatola
che conteneva la medaglia. Uscì fermandosi a prendere il gelato e alle nove meno dieci suonò il campanello di Paola.
Lo accolse Enrico e quando fu dentro Paola lo pregò di accomodarsi facendo capolino dalla porta della cucina, nella quale era impegnata, assicurò, ancora per pochi minuti.
La tavola era apparecchiata per loro tre e dopo che Corrado raccomandò a Enrico di mettere subito il gelato nel frigo, si sistemò sul divano impaziente di fare un po' di conversazione:
"Avrei potuto portare anche un po' di vino!?..", disse alzando la voce.
"No, ma ce l'ho il vino. Non c'è lì in tavola?", rispose lei, mentre si muoveva ancora all'interno della cucina.
"Sì, sì c'è… No, dicevo così… per portare qualcosa in più.."
"No, grazie. Spero che quello le piaccia, piuttosto."
"Certamente."
Corrado azzardò a pensare che lo avrebbe portato la prossima volta, anche se non lo disse. Si girò così verso Enrico, già seduto a tavola al suo posto, ma non fece in tempo ad aprir bocca che Paola uscì dalla cucina.
"Eccoci qua!", esclamò, reggendo con le due mani una zuppiera che appoggiò rapidamente al centro della tavola. Aveva preparato gli ossi buchi al riso e ciò le comportava una doppia operazione: doveva infatti, prima sistemare il riso in ogni piatto, poi tornare in cucina e prendere il tegame dal quale versare sul fondo di riso il sugo prima di appoggiarvi sopra gli ossi buchi. Era un bel piatto unico, che si presentava bene e che Corrado apprezzò.
"Questo… se uno vuole ancora del riso", aggiunse, alludendo alla zuppiera rimasta in tavola. "Spero che le piaccia", disse infine sedendosi, rivolto a Corrado."
"Molto… E' un bel piatto"
 
Parlarono di cucina, del tempo, di Enrico, della scuola, degli insegnanti; e mentre in tavola arrivò il gelato, Corrado mostrò i suoi ricordi.
Si accomodarono infine sul divano a continuare la conversazione e la medaglietta rimase lì, sul tavolino, tra una tazza e l'altra di gelato ormai squagliato.
Tutto come previsto, se non chè il campanello dell'ingresso, improvvisamente suonò. Due colpi secchi che lasciarono Paola e Corrado in silenzio. Enrico invece, saltò subito in piedi e corse a premere il pulsante accanto al citofono:
"E' Vittorio!" strillò. "Mi ha riportato lo skate-board… Grande: me l'ha aggiustato!"
Paola si alzò in piedi e un minuto accolse Vittorio che entrava con un braccio al colo di Enrico al quale aveva consegnato l'oggetto di tanto entusiasmo.
"Ciao", disse a Paola e le diede un piccolo bacio sulla bocca. "Buonasera", aggiunse, rivolto a Corrado.
Corrado si alzò, rispose al saluto e gli strinse la mano.
"Stia pur comodo, per carità! Mi siedo un minuto anch'io, qui sulla poltrona"
"Scusate il disturbo", continuò, "ma sapevo che Enrico ci teneva a riaverlo al più presto. Avete finito di mangiare?"
"Sì, abbiamo finito", rispose sorridendogli Paola; "Stavamo parlando del più e del meno… Anzi no! Il professore ci faceva vedere che era una celebrità."
"Ma no..", protestò a bassa voce Corrado: "Non volevo dire questo…"
Era deluso; deluso, mortificato e imbarazzato.
C'era dunque quest'uomo nella sua vita. Altro che il vino la prossima volta… Ma figuriamoci!…", si disse condannandosi. "Basta guardarlo!.. Ma certo!…"
Era esattamente il tipo d'uomo opposto a Corrado. Sportivo, alla moda; con un codino che gli tirava indietro la chioma di capelli neri e lucidi.
Portava una camicia estiva bianca e ampia che ne risaltava la persistente abbronzatura; con una catenina al collo, un orecchino pendente dal lobo sinistro e un grosso orologio che gli stringeva il polso; un tono di voce deciso e i modi di fare ancor di più. Parlava.
Disse che aveva provato anche lui, tempo prima e solo per poco, a fare musica: col basso elettrico, precisò. Chiese a Corrado se faceva Jazz e se gli piaceva il Jazz.
"No"
Corrado rimaneva con un garbato e immobile sorriso fra loro. Sentiva solo la sua fluidità arrestarsi, ritirarsi, fino a svanire. Percepiva il movimento di chiusura della sua anima e il rapido ripiegamento dei suoi sensi percettori che si staccavano dalla superficie interna della pelle come fossero ventose ormai inutili.
Non aveva più niente da chiedere in quella casa e quando fu il momento, si mosse per uscire, ringraziando Paola dell'invito e salutando Enrico con una composta esortazione alla perseveranza. Disse che non era necessario accompagnarlo fino al cancello e salutò di nuovo tutti sulla soglia.
Non era ancora in strada che, Paola lo richiamò. Era scesa subito dopo di lui e con la mano protesa gli chiedeva di fermarsi:
"Professore… Professore"
"Sì?"
"La sua medaglia… Se l'era dimenticata sul tavolino"
Corrado tornò un passo indietro.
"Ah, già…che stupido!", le rispose riprendendosi l'oggetto.
"Che stupido!", mormorò a bassa voce, mentre la guardava rientrare con un piede ormai in strada.
"Che stupido!", disse dentro di sé prima di girarsi completamente e scomparire.
 
 

 
L'appuntamento
 
 
Il signor Hans Krogel prese un giorno una decisione improcrastinabile.
Stabilì che doveva essere il destino a farsi avanti, e non lui a cercarne le tracce.
Non aveva più intenzione di continuare a farsi prendere in giro; e voleva chiamarlo allo scoperto. Si era stufato di attese interminabili e di speranze mal riposte. Il destino doveva mostrarsi chiaramente e farsi riconoscere. Se c'era, che venisse avanti; e gli dicesse una buona volta come stavano le cose. Lui, da quel momento, non avrebbe più partecipato a quel gioco crudele, e non avrebbe fatto passi ulteriori in nessuna direzione.
Decideva di cambiare atteggiamento; di porsi di fronte a chi si divertiva alle sue spalle con un rifiuto deciso; di fermarsi e di smetterla con gli atteggiamenti accomodanti. Doveva fargli capire che così lui non avrebbe proseguito. Voleva guardarlo in faccia, e decise perciò di dargli appuntamento; di chiamarlo al dunque. Lo avrebbe aspettato da qualche parte, in città o altrove; per strada o al caffè; comunque all'aperto, in un luogo pubblico, dove le persone solitamente si incontrano, si scambiano un saluto e parlano. Voleva una parola chiara; e non più ascoltare l'angoscia dell'anima tesa a riempire i vuoti della notte. Voleva incontrarlo, farlo accomodare e starlo a sentire; lui se ne sarebbe stato semplicemente ad ascoltare. Tranquillo ma fermo, deciso; e voleva, alla fine, essere convinto di qualcosa, di una cosa qualsiasi che valesse la pena di essere intrapresa e perseguita; una cosa che aspettasse proprio lui, per essere realizzata.
Il luogo adatto poteva essere benissimo il parco pubblico, perché no? La panchina di un parco, anzi, è il posto giusto per attendere qualcuno.
Si convinse e così fece.
 
Andò a sistemarsi nel parco, senza pensare a niente. Pensare voleva dire illudersi, e subirne poi i contraccolpi. Il destino, lasciato libero di fare i propri comodi, l'aveva ormai troppo deluso, al punto di aver dubitato che esistesse.
" Questo però non può essere ", sentenziò. " I grandi uomini c'è l'hanno; quindi esiste anche per gli altri. E' solo più piccolo, e più difficile da trovare... "
Per esserci, c'era. Lui era solo stanco di cercare; di abbandonare ogni volta una strada intrapresa. E ormai non sapeva più cosa rispondere al suo cuore sconfortato.
" Finora, non è successo mai niente ", si dispiaceva Hans. Mai una volta che si fosse sentito soddisfatto appieno di ciò che aveva cominciato. Mai sicuro che un entusiasmo potesse durare e alimentarsi da sé. E dire che non voleva niente di eccezionale. Aveva desiderato dapprima, come tutti, a una vita semplice, normale. Dopodichè, visto non si era sentito bene in quella prospettiva, aveva provato quelle più difficili… Ora era di fronte a un muro, a una nebbia; aveva le gambe molli e non sapeva come orientarsi. Forse non era vero niente, pensava; anche se una piccolissima zona del suo essere rimaneva di parere contrario. Al limite, gli sarebbe bastata anche solo una conferma, che qualcuno gli dicesse: " Signor Hans, il suo destino è quello di non averlo. Lei è condannato a cercare; a cercare e basta… inutilmente. Creda che, al mondo, c'è bisogno anche di quelli come lei….Ci dispiace ma è così… ".
Ecco, anche una cosa del genere… purché fosse qualcosa.
Tutt'al più, si sarebbe chiesto come mai.
Comunque, ora bisognava cambiare tattica. Era il momento di imporsi e di provare a controbattere decisi: o si sa qualcosa o si sta fermi. In cambio del silenzio non si vedrà più sullo sfondo una macchiolina, un ballerino senza speranza.
 
Arrivò nel parco e si sedette su una panchina. Ne scelse una proprio di fronte alla fermata dell'autobus, in modo da tenere d'occhio la possibilità che l'atteso potesse arrivare da quella parte. " Il destino ", si disse con una punta di amarezza, " nessuno sa come sia fatto. Se però lo devo riconoscere, sarà meglio che assuma le sembianze umane. "
 
Il parco, in quel punto, non era molto frequentato. Si sentiva il rumore del traffico che scorreva abbastanza vicino. La panchina dov'era seduto costeggiava uno dei vialetti esterni e solo qualche ciclista, più un podista sbuffante gli erano passati davanti. Un cane, tenuto d'occhio da un po' distante dal padrone annusava l'erba, fermandosi a ridosso di ogni panchina libera ad urinare. Un ammasso di verde lo sovrastava, lasciando intravedere solo qualche piccolo puntino di azzurro fra le abbondanti fronde. Foglie e frammenti di piccoli rami spezzati erano stati spazzati ed ammucchiati qua e là sul prato da un diligente lavoro mattutino.
Un uomo, seduto poco più in là, si era messo ad osservarlo. Sbirciava, con lo sguardo mezzo nascosto dal giornale, l'espressione tesa e concentrata del nuovo arrivato.
Hans se ne accorse e un po' si mosse. " Già ", si rammaricò: " sarebbe stato meglio portare qualcosa per ammazzare il tempo. "
 
Arrivò l'autobus.
Si sentì dapprima lo stridore cigolante dei freni, poi un tonfo brusco di stantuffi e la porta si aprì. Scese una donna; un'anziana signora che si diresse verso il vicino ospedale.
Quell'uomo continuava a guardare; e Hans ad evitare il suo sguardo.
Arrivarono poi altri autobus e altre persone scesero, senza che lui provasse alcunché di emotivo nell'osservarli.
La rabbia iniziale che lo avevano condotto a quella mortificazione, cominciava ad affievolirsi. Sentì pian piano salirgli in corpo uno nuovo stimolo di ripresa; un istinto che giudicò di sopravvivenza, e che tastò con cautela. Si abbandonò, allora, alla sua immaginazione pensando a come se lo sarebbe aspettato un individuo apparente che in realtà celasse il suo destino.
Si figurò un uomo serio, vestito di nero, con il cappello; con sottobraccio una borsa, nera anch'essa. Che scendeva alla fermata e si guardava intorno per individuare a sua volta qualcuno. Una volta avvicinatosi, avrebbe messo mano alla cartella, senza nemmeno salutare, da cui avrebbe estratto qualcosa. Dei fogli?
Una scena alquanto suggestiva.
Sorrise.
" Chissà cosa direbbe quel tipo che mi osserva se fosse al corrente di questa cosa? " Lo guardò. L'altro fissò il giornale intensamente.
 
Attese un ultimo autobus che arrivò quasi vuoto. Hans, ormai, si era alzato in piedi e osservava davanti a sé con il distacco dell'ennesima disillusione. Quella volta, non scese addirittura nessuno. Ci fu invece una donna che salì all'ultimo minuto, dopo aver lanciato cenni e richiami all'autista, che dallo specchietto la vide e la aspettò. Non era stata, neanche quella, una buona idea. Era valsa solamente come grido interiore, come inutile protesta personale lanciata nel nulla e ormai caduta.
Si incamminò. Passando davanti alla panchina dove stava quell'uomo, Hans salutò: " Buongiorno ", disse con un sorriso.
L'altro, un po' sorpreso, ricambiò: " Buongiorno "
 
" Il fatto è ", concluse allontanandosi, " che le speranze, o meglio le illusioni fanno presto a rispuntare. "
 
Dopo che se ne fu andato, un altro autobus arrivò.
Scese un uomo, vestito di nero; con una borsa sottobraccio e col cappello in testa.
Si guardò intorno, un po' spaesato, come per cercare un riferimento o lo sguardo interessato di qualcuno. Fece qualche passo in direzione del parco, ma vide solo un uomo intento a leggere il giornale. Aspettò qualche minuto, poi tornò alla fermata.
L'autobus successivo arrivò e lui salì così com'era sceso; e se lo portò via.
 


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Agg. 15-05-2006