Letteratura

 
Francesca Romana Paci
 
STORIA E DESIDERIO NELLA NARRATIVA DI YVONNE VERA

Il vasto territorio africano, che il mondo per quasi cento anni ha chiamato Rhodesia del Sud e conosciuto come colonia inglese, è diventato la nazione indipendente dello Zimbabwe nel 1980. Nonostante la storia del paese si estenda nel passato per centinaia e centinaia di anni prima di quella data, la situazione politica, sociale, economica e culturale dello Zimbabwe di oggi è legata soprattutto agli ultimi cent'anni o poco più, a partire appunto da quando, negli anni novanta dell'Ottocento, il magnate inglese Cecil Rhodes, per iniziativa privata e non priva di ombre, ne intraprese una conquista armata violenta. Ebbe così inizio un lungo rapporto con l'Inghilterra, un rapporto prima paracoloniale, e dal 1923 dichiaratamente coloniale con l'annessione della Rhodesia del Sud alla corona inglese. La conseguente colonizzazione economica e culturale, l'opposizione al potere coloniale a partire circa dal 1961 di ZAPU e ZANU1, e il processo tormentato e contraddittorio della decolonizzazione, da più di un punto di vista palesemente ancora in atto, hanno inevitabilmente fatto dell'ultimo secolo il periodo di storia che è più necessario conoscere per affrontare lo studio della nuova difficile realtà materiale e intellettuale dello Zimbabwe. Il futuro, forse, potrà concedere agli studiosi e agli scrittori più libertà di scelta. Questo è certamente quello che Yvonne Vera auspica quando parla del suo prossimo romanzo, che in qualche modo coinvolgerà le grandi rovine megalitiche, Zimbabwe, dalle quali il paese prende il suo nome attuale.
Yvonne Vera è tanto convinta della urgenza della ricerca storica, proprio in funzione di libertà e progresso sociale e politico, da aver fatto di uno dei protagonisti maschili del suo ultimo romanzo, The Stone Virgins, proprio uno storico. Il giovane Cephas Dube è uno studioso del passato dello Zimbabwe e delle sue tradizioni - in realtà oltre che uno storico è un antropologo e un archeologo, e in tutte queste funzioni lavora per la nuova istituzione statale dei National Museums and Monuments of Zimbabwe. Raccoglie e ricostruisce dati e documenti per gli archivi dell'ente, per conservare memoria e testimonianza non solo dei grandi eventi, ma soprattutto delle singole medie e piccole realtà quotidiane, salvate così dalla caduta nullificante nel "buio" e nel "silenzio": "My name is Cephas Dube. I live in Bulawayo ... I work there ... I work in an office in the city. I file documents, in an archive ..." (Vera: 2002, 137-139). Scopriremo alla fin del romanzo che non si limita a catalogare documenti, Cephas Dube contribuisce alla costruzione del futuro ricostruendo il passato come conoscenza intellettuale, ma anche come materialità. Le righe conclusive dell'ultimo capitolo dicono e spiegano con una certa enfasi retorica, che il suo vero lavoro è cominciato proprio con l'Indipendenza.
 
A new nation needs to restore the past. His focus, the bee-hive hut, to be installed at Lobengula's ancient kraal in kwoBulawayo the following year. His task is to learn to recreate the manner in which the tenderest branches bend, meet and dry, the way grass folds smoothly over this frame and weaves a nest, the way it protects the cool livable places within; deliverance (Vera: 2002, 165).
 
La metafora composta, forse meglio la composizione di metafore, è particolarmente efficace, con una sfuggente ma innegabile componente di sensualità, che, del resto è anche uno squisito elemento del personaggio Cephas Dube.
Alla dichiarazione di Indipendenza del 1980 il paese era un corpo orribilmente lacerato, un orrore di ferite, mutilazioni, e distruzioni, provocate da decenni di lotte, di guerre e soprattutto di intense attività di guerriglia2. La lotta stessa per la liberazione, come è noto, aveva visto al suo interno il contrapporsi violento di gruppi neri nazionalisti diversi. Le ostilità reciproche e gli episodi di sangue non cessarono neanche dopo l'Indipendenza. Prima e dopo vennero commesse atrocità difficili da credere e da riferire, delle quali si hanno nondimeno abbondanti testimonianze precise, ormai raccolte e pubblicate in numerosi studi e documentazioni. In tutta la sua narrativa Vera non indugia sugli orrori e non se ne compiace, ma non li evita. Nella sua rappresentazione alla violenza fisica e materiale si sommano la violenza psicologica delle ideologie, del razzismo quotidiano, e la non minore violenza di alcuni costumi tribali locali. La violenza del contesto africano nero e il razzismo sembrano spesso figli della stessa nebbia intellettuale e della stessa confusione morale. In uno dei suoi racconti, Independence Day (Vera: 1992-1994) riesce a rappresentare, con notevole distanza critica e uso controllato di dettagli autentici di cronaca, la reazione diurna e notturna al grande evento di un anonimo bianco, impreparato e sgomento, che celebra l'evento storico con abbondante birra gelata e prostituta nera.
Nel 1980 Yvonne Vera aveva sedici anni, aveva la fortuna (che in interviste e conversazioni private riconosce spesso con calore) di essere nata in una famiglia di persone colte, di avere la possibilità di studiare e di sapere già osservare criticamente il contesto ristretto e allargato intorno a lei. Uno dei suoi zii si era unito agli uomini della lotta per la liberazione, mentre il suo gruppo famigliare, come tanti altri, aveva conosciuto le durezze di una grande povertà3. Il 1980, con nuove elezioni e nuove libertà, si presentava come l'anno della pace e l'inizio della ricostruzione, era l'ingresso in una fase nella quale la storia nazionale sarebbe stata un problema che non poteva essere evitato o sottovalutato. A tutto questo Vera, che già allora si sentiva attratta dalla scrittura narrativa, risponde negli anni che seguono sviluppando fattivamente un interesse profondo per la storia del suo paese. Non si accontenta, e quindi non si ferma alla storia ufficiale, ma elabora, come il suo personaggio Cephas Dube, in The Stone Virgins, un concetto della storia come insieme complesso di singole vite umane, e non soltanto, come successione, pur altrettanto complessa, di eventi monolitici. La sua concezione intellettuale della storia si delinea già con la scelta e l'attenzione per l'individuo in quanto tale largamente presente nei racconti di Why Don't You Carve Other Animals, che sono il suo esordio letterario nel 1992; si espande poi con impeto nel suo primo romanzo Nehanda nel 1993, per essere successivamente condotta a definirsi sempre meglio in ognuno dei romanzi seguenti, dove la rappresentazione dedica lo spazio maggiore alla vita "of the people who were ignored"4, la voce dei quali non è mai stata ascoltata e neppure cercata. Vera cerca di ricostruire quelle vite e quelle voci, ma non si concede illusioni, non ha ottimismo di parte, non esibisce agiografie, non semplifica. Anche quando narra le vicende più terribili, però, mostra di avere speranze. Sono speranze caute, sottili, difficili da rappresentare, che nella sua visione generale, si potrebbe dire nella sua poetica, sono saldamente connesse con la politica nel senso più alto, con la cultura, l'istruzione e l'acquisizione di professionalità.
Fino a oggi Yvonne Vera, che viene da una famiglia di etnia shona e ha scelto l'inglese come sua lingua letteraria, ha pubblicato cinque romanzi. Dopo Nehanda nel 1993, vengono Without a Name nel 1994, Under the Tongue nel 1996, Butterfly Burning nel 1998, fino al più recente The Stone Virgins nel 1999. Ai romanzi e alla già menzionata raccolta di quindici racconti, Why Don't You Carve Other Animals, si aggiungono numerosi scritti di critica letteraria e sociale e un esteso studio sulla situazione coloniale e post-coloniale del suo paese, The Prison of Colonial Space, pubblicato nel 1995. Tutta la produzione narrativa di Yvonne Vera in realtà è dedicata allo studio e alla rappresentazione di momenti e aspetti cruciali del suo paese, lungo l'arco di tempo di oltre cento anni, appunto dalla conquista da parte di Cecil Rhodes fino a oggi.
Il cuore del suo sistema di pensiero e rappresentazione è il rapporto del desiderio umano con la storia passata e futura, mentre il desiderio stesso è il rapporto di fondo dell'individuo con la storia. L'individuo, e certamente anche un popolo, ma nelle opere di Vera sempre attraverso l'individuo, desidera un futuro di crescita, una nuova storia, una storia migliore, e desidera appassionatamente parole per esprimere e far accettare il suo desiderio5. La lotta per la parola è fondamentale, perché senza diritto alla parola c'è solo il silenzio, l'immobilità, e, come vedremo, la morte. Le parole non sono l'unico linguaggio della comunicazione che Vera valuti, riconosce altrettanto grande valore alla musica6, al linguaggio del corpo nella danza, nella sessualità, e nella sofferenza, ai rituali, alla simbologia naturale e oggettuale. Ma la parola nella sua visione filosofica del mondo mantiene sempre una posizione di principio, mezzo, e condizione di realtà e di esistenza.
Nessuno dei libri di Yvonne Vera offre una lettura facile, tutti richiedono attenzione, per la struttura narrativa della temporalità, per la deliberata costruzione a rete tematica, per raffinatezze e idiosincrasie di lingua e stile. Tutti richiedono, inoltre, impegno e volontà di sapere e di capire insiemi complessi di dati storici e sociali proposti in forma narrativa; e inoltre pazienza nel seguire i movimenti meandrici dell'azione, che viene fatta procedere con deliberata lentezza e inframmezzata da altrettanto deliberate digressioni. Le digressioni, però, una volta accettate come approfondimenti, come di fatto sono, si rivelano essere non solo elementi storici e culturali di grande interesse per la comprensione del tutto, ma anche elementi che rendono più viva l'emozione della lettura.
Ognuno dei cinque romanzi è autonomo e può essere letto indipendentemente dagli altri, e così sarà sicuramente anche per i prossimi romanzi che Yvonne Vera scriverà, ma ognuno acquista ulteriore significato se lo si legge come parte di un percorso di ricerca unico. Il primo tratto del percorso è rappresentato da Nehanda, non solo perché è la prima opera nel canone di Vera, ma perché l'ambientazione temporale è la più precoce. Nehanda, in modo aperto, visionario e simultaneamente realistico, racconta momenti della lotta di fine Ottocento contro l'aggressione e le sopraffazioni del colonialismo. Nehanda è una donna predestinata fin dal momento della nascita a svolgere per il suo popolo un ruolo storico e rituale; è una medium, che incarna uno spirito potente del quale, come si saprà nel corso del romanzo, ha preso anche il nome. Fin da bambina è consapevole della sua missione:
 
The child watched the wind come toward them. A voice rose from beneath the earth. She saw birth and death, and the presence of her ancestors. The wind was full of the sun. She heard it call to her with its song which emanated from within her: the spirits had presided over her birth (Vera: 1993, 3).
 
La bambina, quindi, venendo al mondo ha incarnato lo spirito della leggendaria Nehanda, una principessa shona del passato, forse protagonista creata dall'immaginazione in qualche antico racconto orale, forse personaggio storico vissuto nel XV secolo, comunque mitizzato da elaborazioni posteriori. La principessa Nehanda è diventata uno spirito-leone, uno spirito del rango più alto, e interviene nei momenti critici della storia della sua gente, attraverso medium dislocati nell'arco di secoli7.
L'inizio del romanzo è visionario e sovratemporale; introduce direttamente nel mito, ma contiene anche elementi riconducibili al livello più realistico del racconto. Un personaggio femminile, ieratico e assorto, individuato prima come "she" e solo in seguito con il nome di Nehanda, lascia scorrere il suo sguardo in basso sui palmi delle sue mani, e lascia che insieme scorra il suo pensiero:
 
"Pain sears the lines on her palms, and she turns her eyes to her hands in wonder. Rivers and trees cover her palms; the trees are lifeless and the rivers dry. Anthills move in dying elongated shadows while furious red clouds escape ..." (Vera: 1993, 1).
 
Le sue mani rappresentano, e nella immagine visionaria sono, il suo paese. Come uno spirito posto in alto, in un luogo imprecisato, ma comunque in alto, da qualche parte fra terra e cielo, Nehanda guarda la sua terra ferita, e desidera libertà e guarigione. Il romanzo è diviso in capitoli di lunghezza molto diversa fra loro; il primo capitolo, dal quale provengono le parole sopra citate, è breve, ma contiene alcuni dei temi principali del libro e di tutta la narrativa di Vera. Ha, di fatto, la funzione importante di primo program piece del suo sistema di ricerca e rappresentazione, che, pur in evoluzione aperta, mantiene sempre il fuoco dell'attenzione sui grandi problemi di libertà, giustizia, cultura - come sono vissuti dal desiderio e negati dal potere. In stretta connessione con tutto questo Vera pone il grande tema della parola, che era comparso in frammenti nei racconti, e che qui prende forza e acquista i suoi significati principali. Nehanda, donna e spirito antenato,
 
"carries her bag of words in a pouch that lies tied around her waist. She wears some along her arms, Words and bones. Words fall into dreaming, into night. She hears the bones fall in the silence" (Vera: 1993, 1).
 
Le parole hanno consistenza materiale, se ne intuisce il potere di scambio e di affermazione, e si intuisce anche il pericolo che venga negato il diritto all'uso delle parole, che le parole siano solo sognate, oscurate, tenute in bocca senza pronunciarle, e che diventino quindi silenzio8. Il diritto alla parola, come si è detto, è uno dei fondamentali diritti che Vera chiede, prima per il suo popolo e poi per le donne di quello stesso popolo, vittime due volte, del sistema coloniale e della cultura tribale tramandata acriticamente. Possedere la parola significa poter affermare la propria identità, libertà, volontà, e alla fine: esistenza. La parola, il linguaggio, e la lingua, come insieme di parole, e la lingua come organo che permette di articolare le parole insieme alle labbra9, diventano tutti metafore di esistenza, tanto per un popolo quanto per l'individuo.
In Nehanda, dove il potere di inibire la parola è rappresentato essenzialmente dalla colonizzazione dei bianchi, in un passo che descrive un momento di forte esaltazione profetica della protagonista, la parola è assimilata all'energia che muove il vento, e il vento "is always in a state of creation, and of being born ... wind gives new tongues ... and new languages with which to cross the boundaries of time". Il vento rappresenta il desiderio perenne e quindi l'energia perenne, e a sua volta genera parole per comunicare il desiderio, in un modello circolare di continuità. Le donne creano "new songs to help clear the path into new lives ... With words compelling them through the intersection of time, they recognize their future selves" (Vera: 1993, 112-113). Il collegamento tra i "nuovi canti" delle donne e la scrittura della stessa Vera sarebbe difficile da ignorare, mentre si deve contemporaneamente notare che le donne cantano restando, insieme ai bambini, fisicamente al di fuori del cerchio degli uomini che discutono e deliberano sugli avvenimenti. Più avanti nello stesso romanzo, Ibwe, l'oratore, dichiara appassionatamente il valore delle parole: "Our people know the power of words. It is because of this that they desire to have words continuously spoken and kept alive ... People are their words" (Vera: 1993, 40). Ma la parola non è sempre concessa ai popoli e agli individui. La negazione della parola è fatale, perché di fatto nega il diritto all'esistenza come soggetto, in quanto è negazione da parte dell'uno del riconoscimento dell'uguaglianza dell'altro. La parola è ancipite, il suo valore dipende dall'essere pronunciata e simultaneamente dall'essere riconosciuta, nel doppio senso di capita e accolta; senza riconoscimento, quindi, la parola è assimilabile al silenzio. Chi non ha parola non ha diritti, e chi non ha diritti perde la parola, fino a perdere anche quella particolare parola che è il suo nome, come leggiamo soprattutto in Without a Name e in Under the Tongue.
Se in Nehanda il potere di negare la parola è esercitato da un popolo nei confronti di un altro popolo, negli altri romanzi l'attenzione maggiore di Vera è per il silenzio imposto alle donne dagli uomini e talvolta da altre donne entro il loro stesso popolo. Tutte le opere di Vera hanno al centro figure femminili che affrontano situazioni di sofferenza e di miseria terribili. Le sue donne sono vittime della cultura specifica del contesto africano locale, che sancisce un assoluto predominio maschile e relega le donne in uno stato perenne di minore età10. In realtà nei romanzi di Vera uomini e donne sono ugualmente vittime della sofferenza, della povertà, della mancanza di istruzione, e delle ingiustizie sociali, ma le donne sono doppiamente esposte al male in un contesto dove l'eroe di una guerra di liberazione e un padre possono diventare stupratori, e dove su stupro e incesto gli uomini possono imporre il silenzio11.
Le variazioni di Vera su questo tema sono tutte fortemente caratterizzate e decise nella denuncia. In Without a Name, ambientato nell'anno 1977 durante la 'guerra di liberazione', come il titolo stesso del romanzo dice, anche se il concetto diventa esplicito solo nel corso della narrazione, esistenza e identità dipendono dalla nominazione, dal dare o non dare un nome. Mazvita non può dare un nome al suo stupratore, un guerrigliero disperso o in fuga, perché l'uomo ha annullato l'identità personale nell'anonimato della guerra, e nell'anonimato dell'uso consueto di un nom de guerre fra i combattenti in clandestinità. Parallelamente non può dare un nome al bambino, che in realtà è una bambina, non può compiere per lei il rituale della nominazione, perché darle un nome e pronunciarlo vorrebbe dire accoglierla nell'esistenza. È molto significativo che "the baby", talvolta "the child", sia una bambina, e che sia quindi una futura donna che sprofonderà senza nome e per sempre nel silenzio della morte. Mazvita è imprigionata e nullificata lei stessa dal silenzio: "She had no name for the baby ... A name is for calling a child into the world ... Mazvita could not name the silence" (Vera: 1994 e 2002, 85). Eppure Mazvita è una giovane donna forte, coraggiosa, che vuole una nuova vita, che è giunta fino a Harare per trovare la libertà di costruirla: "Mazvita had a strong desire to grow. She trusted the future and her growth and her desire", inoltre "Mazvita had a profound belief in her own reality" (Vera: 1994 e 2002, 64). Ma la guerra, Harare, e infine il nuovo compagno Joel, che non è il padre del bambino e che non lo accetta, confinano Mazvita nel silenzio, nella ingiustizia del non diritto al desiderio di vita, e alla fine la spingono a una scelta di morte. È significativo che nel momento fatale Mazvita senta lontana da sé e dalla sua volontà anche la stessa scelta di morte. "Her decision came to her slowly. When it did come, she was not sure that the decision had been entirely her own" (Vera: 1994 e 2002, 95).
Le pagine sul bambino/bambina, e quelle dove sono anticipati gli eventi connessi con il bambino/bambina, sono tanto più terribili in quanto estremamente e volutamente liriche, intrise del rimpianto bruciante del desiderio, che elude e preme nello stesso momento. La fragilità del collo del bambino/bambina, per esempio, è anticipata dal piacere della fragilità delle carni di un fungo nelle mani di Mazvita, dalla tenerezza della fragilità ricordata dell'uovo bruno di un uccellino nel palmo della sua mano: entrambi sembrano magnetizzare la violenza, proprio per la loro vulnerabilità. Il delirio delle parole afone di Mazvita che ricorda e rivive frammenti di quel vissuto è terrificante anche perché si staglia senza pietà contro gli altri eventi e contro un contesto soffocante, con il quale non comunica.
In Under the Tongue la bambina Zhizha ha perduto la parola quando è stata stuprata dal padre con una furia gelida e inspiegabile. Pur lineare nella vicenda principale, Under the Tongue, che racconta vicende avvenute alle soglie del 1980 (o nel 1980), ma da un punto di osservazione posteriore di anni, è il più complesso dei romanzi di Vera. È l'unico, finora, che rappresenti una struttura familiare allargata e completa di tre generazioni e ne esplori i rapporti. Le donne sono enfaticamente una figlia, una madre e una nonna, legate da un dolore ancestrale: "... our tears are as old as the daughters and mothers and grandmothers of our ancient earth" (Vera: 1996 e 2002, 132); legate dalla nascita, legate dalla funzione che passa da una all'altra, da una nascita all'altra: "We are women: We belong together in an ancient caress of the earth" (Vera: 1996 e 2002, 132). A madre e nonna viene attribuito il nome di Runyararo, che vuol dire 'silenzio', mentre Zhizha suona come il rumore della pioggia nell'aria, dopo il raccolto, il suono del suo nome ridotto appunto a un rumore, con un suggerimento di tenerezza, ma anche di impermanenza, di non identità12. Come Mazvita, e come Phephelaphi in Butterfly Burning, la madre Runyararo, che come sua madre, la nonna della bambina, non può parlare e ancora meno può essere ascoltata, reagisce con la violenza. Runyararo uccide il marito che ha stuprato la loro stessa figlia. La storia è raccontata da un narratore onnisciente, che spesso cede il compito a Zhizha, narratrice frammentaria, immersa nella nebbia di ricordi terribili e frammentati, il cui racconto procede in terza persona e resta sempre un racconto interiore. Da alcuni indizi, soprattutto di tempi verbali e di avverbi temporali, si capisce che è una Zhizha adulta, ma ancora gravemente sofferente, quella che ripercorre le vicende, ridiventando bambina, rivivendo incubi e sogni. Lo stupro e l'uccisione del padre da parte della madre sono collocati nell'infanzia di Zhizha e nell'infanzia dell'Indipendenza, ma quando Zhizha ricorda quegli eventi il 1980 deve essere già trascorso da alcuni anni.
Al centro di tutto grava la parola perduta dopo la violenza. Zhizha ha dentro di sé il linguaggio, ma la sua lingua non le consente di dargli voce: "My voice has forgotten me. Only Grandmother's voice remembers me. Her voice says that before I learned to forget there was a river in my mouth ... I touch my tongue. It is heavy like stone. I do not speak. I know nothing of rivers" (Vera: 1996 e 2002, 121.122). Anche il desiderio di parlare l'ha lasciata, abbandonandola in una specie di stasi ipnotica nella quale scorrono pensieri e ricordi. Vera è particolarmente efficace nella rappresentazione di quello stato sospeso e semiallucinato, parte in prima persona e parte in terza. Le pagine di questo tipo sono quelle che contengono i migliori momenti lirici e anche i migliori momenti di indagine fenomenologia del e sul rapporto mente-corpo-mondo circostante. Un esempio ancora più completo è dato dal lungo episodio dell'aborto in Butterfly Burning (nel capitolo sedicesimo).
In Under the Tongue, come negli altri romanzi, anche gli uomini sono vittime e si dibattono in una loro prigione di desiderio e di sofferenza. Il nonno VaGomba, il padre di suo padre, è diventato cieco nella maturità, e la sua cecità è spiegata con un racconto che allarga la metafora in storia allegorica: un giorno mentre lavorava la terra, il suolo ha sguainato una radice ("a root had sprung from the earth and torn the sight from his eyes"). Muroyiwa, suo figlio e padre di Zhizha, "had been born into his father's blindness and it received and contained him like a vessel" (Vera: 1996 e 2002, 138). Così Muroyiwa ha ereditato da suo padre anche una cecità metaforica, che diventa una barriera alla percezione dell'altro13. Da VaGomba, accecato dalla terra, e indissolubilmente legato alla terra, Muroyiwa riceve il suo desiderio: "Muroyiwa longed to find the root which harbored the sight of his father. One day this root would climb outward to the sun, grow, and bloom. The flowers would restore sight to his father" (Vera: 1996 e 2002, 149). Quando parte per unirsi alla guerra di liberazione Muroyiwa vuole portare il desiderio a unirsi con la storia. Vita e morte, passato e futuro si agitano nel suo desiderio, che diventa "an untarnished desire for living", solo debolmente compreso. In parte uscendo dal punto di vista del suo personaggio, con il suo particolare metodo di oscillare tra onniscienza e assenza autoriale14, Vera scrive: "This came in the pursuit of a limitless charm ..." (Vera: 1996 e 2002, 129). L'incontro di Muroyiwa con le farfalle sulle colline ha un legame di somiglianza emotiva e culturale con l'incontro di Sibaso con le vergini graffite sulle pareti di una grotta in The Stone Virgins. Sibaso è un combattente della guerra di liberazione come Muroyiwa, e come lui è travolto dallo spirito della distruzione e lascia che il desiderio di impadronirsi della propria storia diventi desiderio di morte. Per Sibaso le vergini incedono verso una morte sacrificale, per Muroyiwa le farfalle si levano "like innocence into the air", ma il suo pensiero è pieno del paradosso farfalle/guerra: come possono le farfalle15 sopravvivere alla guerra?
La narrazione di Under the Tongue in apparenza si ferma, senza una conclusione, con il penultimo capitolo, che si chiude con una affermazione di Zhizha dalla quale si è indotti a pensare a un nuovo inizio, forse la parola è ritornata: "A word does not rot unless it is carried in the mouth for too long, under the tongue" (Vera: 1996 e 2002). L'ultimo capitolo può sembrare avulso dal contesto precedente, ma è solo apparentemente slegato dalla narrazione; è un breve e difficile discorso sulla Indipendenza, e proprio sul nuovo inizio promesso dal 1980. In realtà l'ultimo capitolo, che ha stupito recensori e critici, non è enigmatico se lo si vive come dichiarazione di contesto e come suggerimento, molto equilibrato, di interpretazione; se, in breve, se ne coglie la componente corale, veramente politica, della rappresentazione di un popolo che riprende a costruire la propria realtà. Zhizha ritrova la parola e ora deve usarla, come il paese rientra in possesso dell'indipendenza politica e ora deve imparare a usarla. È un finale aperto, che lascia chiaroscuri e dubbi ma non nega il risultato raggiunto e insieme si protende verso il futuro: "1980 spelled the end of loneliness and unfulfilled desire long kept (...) 1980 was a time to shorten distances to desire". Fra le due affermazioni si pone il bellissimo racconto del rituale degli specchi infranti per strada dalle donne: "History had become dazed and circular", mentre le parole finali del romanzo sono dedicate a coloro che non hanno avuto voce nella storia, ai quali Vera ha affermato di voler appunto "dare voce": "Their voices hewn, frail, and listless, their longing almost forgotten - they had waited" (Vera: 1996 e 2002, 232-234).
Il quarto romanzo, Butterfly Burning, del 1998, segna nella poetica di Vera una evoluzione coerente, ampliando il campo di indagine. Racconta le vicende, situate nello spazio di tempo tra gli anni 1946 e 1948 nella township nera di Makokoba alla periferia di Bulawayo, della giovanissima e appassionata Phephelaphi, e del suo non giovane compagno Fumbatha. Intorno a loro si muovono altri personaggi co-protagonisti, tra i quali soprattutto tre donne, Getrude, Zandile e Deliwe, che, con Phephelaphi, affrontano la storia armate del loro desiderio. Anche in questo romanzo le donne sono vittime nello stesso tempo del colonialismo e del sistema africano locale, così come lo sono delle proprie scelte, ma anche in questo romanzo sono le donne a rappresentare volontà di vita e di movimento. Giuste o sbagliate che siano le loro azioni, Getrude, Zandile, Deliwe e Phephelaphi rifiutano la stasi, l'immobilità e l'affidarsi afasico e inerte a un destino pensato da altri. Phephelaphi è la più giovane; le altre tre donne sono in un certo senso tutte madri per lei, tutte ancorate a una cultura mista e spuria, coloniale e africana, alla quale il loro desiderio si ribella, senza però che possano fare qualcosa per cambiarla o anche solo per prendere piena consapevolezza della situazione. Per imporsi alla storia, sostiene implicitamente Vera, bisogna andare oltre la ribellione, bisogna cercare di possedere consapevolezza e conoscenza. Il desiderio deve diventare proposta operativa. Anche le vite di coloro "who were ignored", la cui voce non ha risuonato con importanza, sono la storia16. Lo scriba ufficiale di Butterfly Burning, inserendosi fra i pensieri di Phephelaphi, dice: "A fragment is also a life, it is how all of life is lived, in patches17 "(Vera: 1998 e 2002, 108).
Phephelaphi è diversa dalle sue madri, perché Vera ne arricchisce il desiderio di curiosità, intuito, volontà, e soprattutto istruzione. L'elemento dell'istruzione, quindi della scuola dalla base fino ai livelli più alti, è fondamentale. Rappresenta una delle principali proposte operative di Yvonne Vera perché la situazione femminile nel suo paese evolva in vita che valga la pena di vivere, non degradata e non degradante, e dove ci sia anche posto per l'amore18. Phephelaphi, come Nonceba in The Stone Virgins, ha studiato, possiede un diploma e una competenza da usare nella storia, e alla fine per la storia del paese. Phephelaphi non potrà realizzare il desiderio di crescita e di maturazione, vincerà solo lasciando la stasi per levarsi in una vampa di fiamma verso l'alto, ma per Nonceba la speranza è ancora viva, e la storia è aperta.
Il desiderio di Phephelaphi è rappresentato con caratteristiche di forza mentale e di passione fisica veramente travolgenti, sia quando è vissuto dentro la musica come resa a un fiume (Vera, 1998 e 2002, 66-67), sia quando è percepito come leggerezza, quasi come volo (Vera, 1998 e 2002, 98-99). Comunque il desiderio è energia e movimento. Phephelaphi possiede un titolo di studio sufficiente a farla ammettere cone allieva alla scuola per infermiere del General Mission Hospital, dove sarebbe la prima "Student Nurse" nera a essere accolta: "It is not the being a nurse that matters, but the movement forward - the entrance into something new and untried. Her heart rises in an agony of longing ..." (Vera: 1998 e 2002, 71). Queste due righe sono, finora, uno dei momenti narrativi in cui Vera esprime meglio il suo concetto di desiderio e storia, e il rapporto tra desiderio e storia. Sono anche righe di anticipazione della fine terribile di Phephelaphi, che sceglie un'agonia di ascesa verso lo spazio aperto anche per morire. Solo nel movimento si può non tradire il desiderio. Ma da Fumbatha il desiderio di crescita e di espansione è percepito sempre come pericolo19. In realtà sarà proprio lui che la ama a spingerla alla scelta di morte. Naturalmente Vera connette il desiderio con la sessualità, e rende la sessualità e il diritto alla sessualità un elemento indispensabile alla vita, ma il desiderio è più grande anche della sessualità, la contiene, non ne è prigioniero. Se è prigioniero, il desiderio è claustrofobico, come è per Mazvita e Phephelaphi, e come non sarà per Nonceba nella nuova vita a Bulawayo. In un altro modo si può dire che la sessualità per Vera deve magnificare la vita non umiliarla, sia per gli uomini sia per le donne.
Il romanzo più recente, The Stone Virgins, del 1999, ripercorre parte degli anni della guerra di liberazione, prima quindi del 1980, per arrivare agli anni dopo l'Indipendenza, e al momento della prima20 tensione verso la ricostruzione del passato e la costruzione del futuro. Come è già stato notato, il lavoro che Cephas Dube svolge per l'ente nazionale dei Musei dello Zimbabwe, e in realtà la persona stessa di Cephas Dube, sono emblematici del momento politico epocale.
Dopo un primo capitolo di celebrazione lirica di Bulawayo, che è veramente e pienamente una celebrazione della magnanimità (etimologicamente) del desiderio, all'inizio del racconto, o meglio delle vicende in sé, anche The Stone Virgins rappresenta violenze atroci, ma Nonceba, la vera protagonista, la donna nuova, dopo essere stata violentata e aver visto morire sua sorella, alla fine trova qualche dolcezza. Il desiderio non soffre più di claustrofobia: Nonceba trova un lavoro, e può perfino scegliere quale; con il lavoro sente di avere acquistato una dignità nuova, e, anche se alla fine del romanzo non ne è ancora consapevole e se la questione rimane aperta, forse ha trovato anche l'amore. The Stone Virgins è anche una storia d'amore, complessa, in due parti, perché coinvolge due sorelle, Nonceba e Thenjiwe21, entrambe in modo diverso amate da Cephas. Con il personaggio di Cephas Dube, uomo completo quasi in senso rinascimentale (affermazione da considerare con tutta cautela), Vera, che dimostra di possedere una grande capacità maieutica di pensiero, ha creato un prototipo di sogno, non impossibile, non eccessivo, ma veramente figlio del desiderio e strumento della storia.
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