-
Recensioni
- Francesca
Romana Paci
-
- YVONNE
VERA, THE STONE
VIRGINS,
- HARARE,
ZIMBABWE, WEAVER PRESS,
2002.
-
- Il
primo romanzo della scrittrice africana
Yvonne Vera, Nehanda, è
uscito nel 1993, seguito da Without
a Name nel 1994, da Under the
Tongue nel 1996, e nel 1998 da
Butterfly Burning, ora tradotto
in Italia come Il fuoco e la
farfalla (Frassinelli, Milano,
2002). Il recente The Stone
Virgins è quindi il quinto
romanzo di una scrittrice giovane e in
continua ascesa. Prima dei romanzi ha
scritto una raccolta di quindici
racconti, Why Don't You Carve Other
Animals, pubblicata prima in Canada
nel 1992 e nel 1994 in Zimbabwe. Yvonne
Vera è nata in Zimbabwe, a
Bulawayo, nel 1964, ha compiuto gli
studi universitari in Canada, a
Toronto, dove ha conseguito un Ph.D. in
Letteratura. In seguito è
ritornata a vivere in Zimbabwe, dove
pubblica le prime edizioni dei suoi
libri, e dove è direttore della
National Gallery di
Bulawayo.
- Fino
a oggi tutta la narrativa di Vera
è dedicata alla rappresentazione
del suo paese e di quella parte della
sua storia che va dalla fine
dell'ottocento all'epoca attuale. Non
è una narrativa facile, non
tanto e non solo perché sia
necessaria una certa informazione
storica e sociale sullo Zimbabwe per
capire, quanto perché la
scrittura è elaborata e
idiosincratica, perché lo spazio
e soprattutto il tempo sono piegati e
frammentati, perché il passo
narrativo, estremamente lavorato,
richiede attenzione
ininterrotta.
- Ognuno
dei romanzi di Vera può essere
letto come opera autonoma e
autosufficiente, ma se si leggono i
cinque romanzi uno dopo l'altro e
nell'ordine in cui sono stati scritti
ci si configura davanti una ricerca
unica e organizzata, che pone, e
soprattutto si pone, domande di vitale
importanza sulla libertà, sul
diritto della persona, sulle culture,
sulle tradizioni, sulle civiltà
e sul futuro africano. La ricerca di
Vera è dedicata allo Zimbabwe
prima di tutto, ma lavorare per
l'avanzamento dello Zimbabwe per Vera
coinvolge una difficile indagine che si
spinga dentro le pieghe profonde della
natura umana e dei condizionamenti che
le comunità di uomini e donne
ricevono dal contesto. Europeizzazione
e occidentalizzazione sono parole e
concetti neppure menzionati, ma
costantemente impliciti nell'opera di
Vera, evocati tacitamente dalle
tradizioni, dalla storia coloniale,
dalla fenomenologia sociale, dalla
politica, dalla stessa innovazione
africana. Se le guerre sono il primo
male da estinguere, la ricerca di
equilibrio tra tradizione e innovazione
è il primo e fondamentale
problema da affrontare. La ricerca
dell'armonia, del senso, delle
aspettative nel futuro, è
irrinunciabile, è difficile,
è metastabile. Fino a che punto
si deve e si può aprirsi al
mondo, alle altre culture del mondo,
alla cultura europea e nordamericana in
particolare, fino a che punto insistere
sul nazionalismo e sulla cultura
nazionale pura? Persino in
Nehanda, che racconta
liberamente un episodio del periodo
coloniale, la questione non è
limitata a incomprensione e violenza
tra inglesi e africani. La cultura
è, e resterà sempre, un
campo di battaglia, le culture non
possono semplicemente escludersi, gli
incontri sono sempre metastabili. Vera
è cauta, grave, pensierosa, e
colta.
- Per
la sua tesi di dottorato, dove tratta
aspetti del colonialismo, ha studiato
Bachtin e quindi ha incontrato
Dostoevskij. Vera non può e non
vuole fondarsi all'esterno per
costruire la propria poetica, ma non
può e non vuole resecare e
scartare il mondo. Leggendo la sua
opera è più che mai
necessario riproporsi il problema degli
universali (vocabolo in disuso e
concetto proteiforme), avere il
coraggio di scandagliare non solo il
male, ma anche l'origine e la natura
metafisica del male, la apparente
liceità del male, la
complicità con il male. È
necessario avere il coraggio che si
trova in Delitto e castigo e nei
Fratelli Karamazov, e ovviamente
anche in mille altre opere letterarie,
ma un coraggio che spesso ha taciuto o
è stato tacitato nella
omologazione del mondo, che si è
globalizzato anche nella coscienza. Il
male sembra un argomento troppo grande
per studiarlo, troppo difficile per
analizzarlo, e anche per spingere la
rappresentazione fino a porre domande
che una volta poste non potrebbero
avere risposta.
- Rispetto
ai romanzi che lo precedono The
Stone Virgins rappresenta una
evoluzione coerente, che approfondisce
l'indagine e propone elementi nuovi,
avendo cura di lasciare aperta la via
verso un progresso ulteriore. Come
tutte le opere di Vera ha al centro
figure femminili piagate dal dolore,
vittime di violenza e ingiustizia. Ma,
mentre nei romanzi precedenti il
sistema e la società e i tempi
non riconoscono loro sufficiente
dignità e autonomia di vita
quotidiana e di pensiero, le donne di
The Stone Virgins si trovano
sulla linea di confine tra il vecchio e
il nuovo. I personaggi maschili non
sono mai trascurati, anzi la loro
partecipazione è indiscussa, la
loro vicinanza desiderata. Il male che
da loro proviene è denunciato,
esposto, ma senza cecità
iraconda; la cecità è
piuttosto quella che impedisce a una
parte degli uomini, come
emblematicamente al capofamiglia
VaGomba in Under the Tongue, di
capire la tragedia di donne come sua
moglie e sua nipote.
- Tutte
le donne della narrativa di Vera sono
vittime e insieme portatrici di
volontà di vita e di autonomia.
Le miserie e le oppressioni sono frutto
della passata situazione coloniale, ma
anche dalla posizione sociale delle
donne entro lo specifico contesto
africano, dove l'eroe di una guerra di
liberazione e un padre possono
diventare stupratori, e dove le donne
non hanno diritto a voce propria. Per
le donne Vera auspica parità
sociale e soprattutto istruzione
professionale e cultura in ogni senso,
che garantiscano loro
possibilità di indipendenza e
quindi dignità individuale. Il
processo verso l'emancipazione non
è facile, perché non solo
è ostacolato da una
società che conserva aspetti di
maschilismo, è rallentato e
deviato anche dagli errori stessi delle
donne, che troppo spesso scambiano i
segni per realtà.
- Divisa
in due parti, 1959-1980 e
1981-1986, indicate nettamente
dalla grafica (la prima di quattro, la
seconda di tredici capitoli), la
narrazione di The Stone Virgins
comincia con un lungo capitolo di
celebrazione di Bulawayo: "Selborne is
the most splendid street in Bulawayo
and you can look down it for miles and
miles with your eyes encountering
everything plus blooms..." (4). Una
celebrazione non priva di ironia, dalle
sirene della fontana davanti al
National Museum, al quartiere delle vie
"named after English poets - Kipling,
Tennyson, Byron, Keats and Coleridge
..." (5). Simmetricamente, dopo un
brevissimo capitolo di cerniera fra le
due parti (il quinto, di una sola
pagina - come non ricordare "Time
passes" in To the Lighthouse di
Virginia Wolf?), il romanzo si chiude
con una seconda celebrazione di
Bulawayo, calda ma ugualmente accorta.
Paragrafo dopo paragrafo, immagine dopo
immagine, colore dopo colore, suono
dopo suono, passo dopo passo, Bulawayo
questa volta si rivela attraverso il
vissuto di uno dei personaggi centrali,
la giovane Nonceba: "She enjoys the
din, a sound which fills the city, and
gives it an alertness, a sense of
expectation ..."(149). Yvonne Vera ama
la città, spesso la contrappone
alla campagna, per la quale ha
sentimenti contrastanti, forse non
ancora chiariti a se stessa. Bulawayo
è luce, aria, spazio,
possibilità, sorpresa, scelta,
futuro, e libertà.
- Le
vicende vere e proprie del romanzo,
però, cominciano nel 1980, anno
del Cessate il fuoco e
dell'Indipendenza, a Kezi, un centro
rurale di media grandezza vicino alle
colline di Gulati, a circa duecento
chilometri da Bulawayo in direzione del
confine con il Botswana. A Kezi vivono
due belle e tenere sorelle, Thenjiwe e
Nonceba, che hanno perso i genitori e
che in un solo giorno, nella stessa
ora, incontrano un destino terribile,
la prima uccisa, la seconda violentata
e sfigurata da un combattente della
libertà, un reduce della guerra
di liberazione che non ha accettato la
pace fra le fazioni. L'uomo, Sibaso,
è uno dei personaggi più
difficili e interessanti tra quelli
creati da Vera, come del resto è
interessante e nel profondo altrettanto
complesso il secondo personaggio
maschile, Cephas Dube, uomo di lotta,
ma soprattutto uomo di pace, capace di
dolcezza, intellettuale, studioso di
archeologia e storia. Sibaso, che
è tutt'altro che ignorante, ha
studiato, ha letto i classici africani,
è sensibile ai segni di arte del
passato del suo paese che trova in una
grotta (le "vergini" del titolo), pure
non domina la realtà, la
subisce. Cephas, al contrario, si
impone alla realtà e cerca di
comprenderla, di valutarla, di darle
una direzione. È per la sua
invenzione come personaggio che The
Stone Virgins è anche un
romanzo d'amore. Sibaso, che ha
combattuto appassionatamente per una
causa, ha letto il quasi mitico Feso
di Solomon Mutswairo, cerca di
ritrovare un padre che presumibilmente
ama, pure compie azioni di
crudeltà atroce, tradendo la
stessa propria natura umana. Cephas, il
cui lavoro è lo studio e la
comprensione del passato culturale del
paese, sembra possedere fino nelle sue
più profonde implicazioni
filosofiche il significato di una
frase, che quasi certamente non ha mai
letto o ascoltato, contenuta nel
Novum organum di Francis Bacon,
"Natura non imperatur nisi parendo",
dove "natura" è anche la natura
umana, con tutti i suoi impliciti
diritti alla dignità e alla
conoscenza.
- Il
titolo del romanzo, The Stone
Virgins, si riferisce alle
incisioni rupestri che Sibaso vede
nelle grotte delle colline di Gulati
dove si rifugia durante la Guerra. La
bellezza di Gulati e l'orrore della
Guerra sono un paradosso che sconvolge
Sibaso: "There is a shrine in Gulati...
A cave called Mbelele. An enclosure,
enormous, known throughout Gulati as
the most sacred of sacred places ..."
(91). Sibaso nelle grotte di Gulati
può ancora governare il suo
destino, ma, come nella scelta fatale
in una storia leggendaria l'eroe compie
sempre la scelta giusta, Sibaso invece,
altrettanto fatalmente, sbaglia: "I
place my hand on the rocks, where
antelopes and long-breasted women stand
together ... they are hunting ...
beyond ... something eternal ...They
are the virgins who walk into their own
graves before the burial of a king ..."
(94). Disadattato dalla guerra alla
vita, la sua scelta è una scelta
di morte. All'elemento femminile,
rappresentato dalle donne delle
incisioni rupestri, è negata
ogni altra funzione se non quella della
vittima sacrificale. Sibaso così
condanna a morte anche se stesso, si
identifica con il re morto, che a sua
volta è identificato
inconsciamente con il
paese.
- Un
arazzo di vita brulicante di
personaggi, di oggetti, di natura, reso
rappresentazione quadrimensionale dalla
abilità tecnica di Vera,
contiene le vicende. Non si tratta di
descrizione, di compiacimento nella
esposizione di immagini, si tratta di
uno sforzo consapevole di provocare il
pensiero. A Kezi il posto più
importante è l'edificio, del
Thandabantu Store, dove si concentra
ogni forma di energia sociale e di
movimento: "Thandabantu Store has a
large wide veranda where often people
meet and sit and talk and wait for the
bus or any other traffic to go by, to
stop, to deliver a message, a parcel, a
plough, a human presence ..." (22). Ma
alla fine del capitolo risuona la
minaccia: "The war so near, close to
the skin you can smell it" (26). La
guerra non è solo un grandissimo
male contingente, un orrore indicibile,
una potenziale corruzione morale che
perdura anche dopo il ritorno della
pace, la guerra ha anche esiti
paradossali come quello di affrettare
l'emancipazione femminile, come
è evidente con la comparsa delle
donne-soldato sulla veranda del
Thandabantu Store: "The women who
return from the bush arrive with a
superior claim of their own. They
define the world differently. They are
fighters, simply, who pulled down every
barrier and entered the bush, yes, like
men. But then they were women and said
so, and spoke so, and entered the bush,
like men ...". Il brano dedicato alle
donne-soldato è lungo e
articolato, il senso è
enigmatico e chiaro simultaneamente,
perché l'emancipazione è
un bene desiderato, ma l'emancipazione
stessa può avvenire attraverso
mistificazioni, e essere in sé
mistificazione del reale. Può
essere segno preso per
realtà.
- Nelle
prime opere di Vera è
costantemente presente la metafora del
tessuto come creatività, e il
linguaggio è spesso lavorato
come un tessuto. Come ho già
avuto occasione di affermare, Vera
è una grande tessitrice di
linguaggio e le sue pagine sono
veramente tessiture, ottenute con un
intreccio attento delle ripetizioni, di
insiemi di sinonimi, di parentele di
significati, di immagini che diventano
simboli, motivi, e temi. Anche in
The Stone Virgins Vera dimostra
di sapere usare le parole come fili
colorati, di saperle avvicinare,
allontanare, ripetere, fino a far
prendere vita a una rappresentazione
che è insieme lirica e
filosofica, e, senza contraddizione,
emozionante e lucidamente
realistica.
-
-
- Sommario
Culture
2002
- Indice
Culture
-
-
-
-
|
|