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Dossier
Studi
Culturali
- Alessandra
Di Maio
-
- GLI
STUDI CULTURALI IN
INDIA
- IL
COLLETTIVO SUBALTERN
STUDIES
- E
IL DISCORSO POSTCOLONIALE DA SAID A
SPIVAK
-
- *
La parte del
presente saggio
relativa ai
Subaltern Studies
è elaborata
sulla voce
omonima, compilata
dalla stessa
autrice, inclusa
in Michele Cometa,
ed. (2004),
Dizionario degli
studi culturali,
Roma,
Meltemi.
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-
-
- Gli
studi culturali, la cui nascita si fa
convenzionalmente risalire alla
fondazione del Centre for
Contemporary Cultural Studies
(CCCS) di Birmingham, istituito nel
1964, si diffondono presto dal Regno
Unito in varie regioni del mondo,
soprattutto a partire dalla fine degli
anni Settanta e, più
compiutamente, negli anni Ottanta,
assumendo caratteristiche peculiari a
seconda delle civiltà con cui
interagiscono, le quali, dal canto
loro, contribuiscono a una
ridefinizione generale del campo
disciplinare in questione. In alcuni
paesi, quali gli USA, gli studi
culturali diventano meno politici e
prestano maggiore attenzione alle
analisi estetiche e testuali, salvo poi
recuperare aspetti sociali
fondamentali; mentre in altri, quali la
Francia, si politicizzano
ulteriormente, preoccupandosi
soprattutto del ruolo dei soggetti
marginalizzati e dei discorsi
provenienti dalle
periferie.
- Diverso
è il caso del subcontinente
indiano, dove gli studi culturali hanno
vita autonoma e, prima ancora di subire
una qualsiasi influenza esterna, hanno
già stabilito una tradizione.
Risale infatti al 1963 la fondazione
del Centre for the Study of
Developing Societies (CSDS), con
base a Delhi, che si preoccupa di
recuperare le forme indigene di
conoscenza sociale e di problematizzare
l'idea di cultura, mettendo in
discussione e in relazione categorie
quali la politica, l'economia e le
scienze. Tre sono gli orientamenti di
studio principali seguiti dal Centro:
l'esperienza della trasformazione delle
comunità pre-moderne in moderne;
la conversazione tra culture, che
prevede anche un elemento di mutua
'incomprensione', del quale viene
offerta una sistemazione teorica; e il
rinvenimento delle culture tradizionali
rese politicamente marginali dallo
stato e dalle ideologie egemoniche del
nazionalismo, secolarismo, scientismo e
dell'universalismo culturale. Molti
sono gli studiosi che fanno capo al
Centro, tra cui Rajni Kothari, D.L.
Sheth, Ramashray Roy, Shiv Visvanathan
e V.B. Singh; ma la figura più
prominente, sia per statura
intellettuale sia per l'influenza
esercitata sulla ricerca successiva,
è quella di Ashis Nandy,
psicologo e critico culturale, da molti
considerato il fondatore degli studi
culturali indiani. Interrogandosi sul
rapporto tra culture occidentali e
non-occidentali, Nandy propone di
ribaltare gli stereotipi del
colonialismo, che, a suo avviso, ha
sostituito al barbaro come 'altro',
l'orientale come 'diverso'
(superstizioso, caotico, codardo,
effeminato); difende le
ambiguità culturali della
società indiana come costitutive
della tradizione; denuncia
l'addomesticamento del dissenso
nazionale entro la dicotomia tutta
occidentale pacifismo/violenza, che
egli invece propone di superare facendo
ricorso alle categorie culturali
autoctone; recupera le lingue native
come più vicine al sé
indiano, e dunque più adatte
alla sua articolazione; propugna una
cultura di resistenza che metta in
discussione tanto le influenze esterne
quanto le forze interne; infine,
constata la necessità di
un'unione tra le vittime della storia
tanto in Occidente quanto nelle
società
non-occidentali.
- Nel
corso degli anni sorgono altri centri
di ricerca, tra i quali uno dei
più influenti è il
Centre for Contemporary Studies
(CCS), che fa base al cosiddetto
'Teen Murti ', ovverossia il
Museo e la Biblioteca del Nehru
Memorial, con sede a Delhi. Al
Teen Murti fa capo un gruppo
eterogeneo di studiosi di varia
estrazione, che discutono di storia,
cinema, musica, danza, cultura di
strada, questioni linguistiche,
tecnologia e globalizzazione. Uno dei
più noti tra questi è
Aijaz Ahmad, intellettuale marxista tra
i più apprezzati della sua
generazione. Nel suo celebre e
controverso volume In Theory,
del 1992, Ahmad smantella alcuni dei
luoghi comuni che dominano la critica
culturale contemporanea, primo fra
tutti quello di "terzo mondo", concetto
a suo parere erroneamente omogeneo e
limitativo; e critica alcuni dei
principi fondanti del discorso
coloniale, nonché alcune
posizioni teoriche del
postcolonialismo, proponendo una
ridefinizione della letteratura
indiana.
- Il
collettivo Subaltern Studies,
formatosi all'inizio degli anni Ottanta
in India, attorno all'Università
di Delhi, costituisce un'altra delle
scuole principali degli studi culturali
sviluppatisi nel Sud-Est asiatico,
verosimilmente quella che ha avuto
maggiore eco fuori dall'India. Con i
centri precedenti il collettivo
condivide alcuni interessi specifici,
quali la riflessione critica sulla
modernità, l'investigare sul
ruolo svolto dalle scoperte
scientifiche e le innovazioni
tecnologiche nella formazione della
società contemporanea,
l'intendere la conoscenza come una
forma di intervento politico,
l'attenzione all'influenza cruciale di
Gandhi sulla cultura indiana del
ventesimo secolo, e il dibattito
sull'uso della lingua inglese
nell'India coloniale e postcoloniale;
tuttavia, se ne distingue in quanto a
orientamento teorico e metodologico. Il
gruppo, infatti, riunito intorno allo
storico ed economista Ranajit Guha, si
pone il fine di ricostruire la storia
del subcontinente indiano, dando
ascolto e voce ai "subalterni", che la
storiografia dominante - quella di
stampo eurocentrico dei colonizzatori
britannici da un lato, e quella
dell'élite nazionalista
dall'altro - avevano messo a tacere.
Secondo Guha e gli altri membri del
collettivo originale - tra cui Partha
Chatterjee, Gyanendra Pandey, Shahid
Amin, David Arnold, David Hardiman e
Dipesh Chakrabarty, a cui presto se ne
aggiungeranno altri, quali Gayatri
Spivak e Bernard Cohn - tutti i
resoconti della storia indiana
risultano incompleti e parziali,
perché non trattano del ruolo
cruciale e cospicuo svolto nella
formazione della nazione dalle masse
dei subalterni. Guha illustra la
situazione nel saggio On Some
Aspects of the Historiography of
Colonial India, sorta di manifesto
programmatico che, nel 1982, apre il
primo volume della collana Subaltern
Studies. Writings on South Asian
History and Society, pubblicazione
ufficiale dell'omonimo collettivo di
Delhi, oggi arrivata all'undicesimo
volume.
- Il
termine "subalterno", così come
molti altri utilizzati dal gruppo di
Delhi, è mutuato dagli scritti
di Antonio Gramsci, che con esso si
riferiva ai gruppi socialmente
subordinati al dominio delle classi
egemoni, nella fattispecie i proletari,
i quali, per definizione, non erano
né uniti né organizzati
e, di conseguenza, si trovavano
svantaggiati nel tentativo di costruire
una coscienza di classe contrapponibile
a quella di chi deteneva il potere. Un
cinquantennio più tardi, gli
studiosi della subalternità
re-interpretano il termine gramsciano,
inserendolo nel contesto sud-asiatico,
in particolare nell'ambito indiano,
dove l'intreccio di dominio e
resistenza, violenza e insubordinazione
appare assai complesso persino nel
tentativo di ricostruzione storica
dell'indipendenza nazionale. Da un
lato, infatti, i neocolonialisti
sostengono che l'indipendenza sia stata
raggiunta grazie agli stimoli
sollecitati dall'imperialismo
britannico, mentre d'altro lato la
storiografia nazionalista ritiene che
l'impresa della decolonizzazione sia
stata condotta quasi esclusivamente da
un gruppo ristretto di politici, quali
Gandhi, Nehru e Jinna: entrambe le
ipotesi, fanno notare Guha e compagni,
mancano di considerare il pur
importante ruolo svolto dai soggetti
subalterni nella formazione della
nazione postcoloniale.
- Riformulando
il concetto di "subalterno", gli
studiosi del collettivo ne estendono il
campo semantico, riferendolo alle masse
dei propri connazionali che, nonostante
la schiacciante maggioranza numerica e
i tentativi di ribellione, erano stati
oppressi, e la cui storia dunque era
stata soppressa, dai gruppi dominanti,
in virtù delle differenze di
casta, classe, genere, appartenenza
etnica, età, e così via.
Per Guha, la cui formazione politica
era stata condizionata sia dal
radicalismo rurale nell'India degli
anni Sessanta sia dagli sviluppi
contemporanei della rivoluzione cinese,
sono prima di tutto i contadini ad
assurgere a paradigma della condizione
subalterna. Come spiega in The Prose
of Counter-Insurgency, articolo che
apre il secondo volume della collana
Subaltern Studies (di cui fino
al 1989, cioè fino alla
pubblicazione del sesto volume, egli
rimane unico curatore), la
subalternità dei contadini nella
società semi-feudale delle
campagne indiane durante il periodo
coloniale si manifestava in un sistema
di segni che riguardavano ogni aspetto
della vita quotidiana, dal linguaggio
all'abbigliamento. Ribellarsi dunque a
tale sistema significava sovvertire
l'universo simbolico nel quale il
contadino aveva imparato a operare,
codificandone e decodificandone i
segni, ed entro cui trovava la propria
collocazione. È ovvio dunque,
sostiene Guha, che ribellarsi a tale
mondo, a differenza di ciò che
raccontava la storiografia ufficiale,
non poteva essere un mero riflesso
automatico alle misere condizioni di
vita, bensì doveva essere
un'operazione motivata e politicamente
consapevole, sia pure discontinua, da
parte delle popolazioni rurali.
Nell'atto della rivolta il contadino si
liberava coscientemente della propria
subalternità, iscrivendosi come
soggetto all'interno del discorso
storico nazionale.
- Il
collettivo riunito intorno a Guha si
propone dunque di colmare le lacune del
discorso storico dominante, di
riempirne le omissioni e le ellissi. La
difficoltà sta nel trovare la
maniera di accedere il più
direttamente possibile alla voce dei
subalterni. Si pone un doppio problema:
da un lato, bisogna prima rinvenire le
fonti alternative, in precedenza
trascurate, quali quelle dei racconti
orali, della memoria popolare, dei
documenti sepolti in archivi mai
consultati, e poi trovare gli strumenti
atti a interpretarle, nonostante si
presentino ora come frammentarie e
discontinue, ora come ripetitive e
non-lineari; d'altro lato, bisogna
altresì intervenire all'interno
del discorso storico dominante,
rileggendone le fonti ufficiali da un
punto di vista che ne sveli il
substrato neocoloniale e nazionalista,
tenendo cioè conto del fatto che
esse sono prodotte da chi ha
contribuito a rendere tali i
subalterni. È dunque necessario
che non solo le fonti recuperate ma
anche quelle tradizionali siano passate
al vaglio di una critica testuale
precisa e rigorosa - che Guha, nel suo
già citato e fondamentale
saggio The Prose of
Counter-Insurgency, rinviene negli
sviluppi della linguistica
strutturalista, in particolare nei
primi scritti di Roland Barthes, sulla
cui scia riesce a individuare gli
"indizi" della narrazione subalterna,
indispensabili termini di correlazione
tra le "funzioni" che fanno il discorso
dominante.
- Sorge
tuttavia un ulteriore problema, che
è tuttora oggetto di dibattito
tra gli studiosi della
subalternità: ci si chiede,
cioè, se una storia con tali
difficoltà di reperimento e
interpretazione delle fonti possa
costituire una registrazione autorevole
del passato, ovvero se le classi
dominanti non abbiano infine avuto
davvero la meglio nel cancellare le
tracce del passaggio delle masse e
degli individui subalterni, impedendone
la scrittura nella, e della, storia. Se
così fosse, la costruzione di
un'identità subalterna
risulterebbe una velleità
oggettivizzante e fine a se stessa da
parte dello storico, piuttosto che una
rivendicazione di soggettivizzazione
del subalterno. In altre parole, ci si
chiede se il subalterno possa
effettivamente parlare, raccontare la
propria storia, e costituirsi quindi
come soggetto. Il problema è
tuttora aperto, come dimostrano
già i titoli di alcuni dei saggi
più noti su questo aspetto
cruciale della subalternità:
primo fra tutti quello di Spivak,
Can the Subaltern Speak? (1988),
in cui la studiosa esamina il caso
estremo del rituale del sati, secondo
il quale la vedova è costretta
dalla società patriarcale a
immolarsi sulla pira del marito
defunto, diventando così il
soggetto subalterno zittito per
antonomasia; a esso seguono, tra gli
altri, Postcoloniality and the
Artifice of History: Who Speaks for
"Indian" Pasts? (1992), di
Chakrabarty; e When Will the
Subaltern Speak? (1993), di Alam
Shamsul.
- A
prescindere dalle difficoltà
teoriche e metodologiche che comporta,
l'alternativa subalterna propone
ciò che Edward Said, nella sua
nota introduzione alla prima raccolta
antologica di scritti sull'argomento
curata da Ranajit e Spivak (Selected
Subaltern Studies, 1988), definisce
"una conoscenza integrativa", in grado
di colmare i vuoti della storia indiana
coloniale e postcoloniale. Gramsci e
Said costituiscono in qualche modo i
punti di partenza del discorso
subalterno formulato dal collettivo di
Delhi: il primo in quanto iniziatore di
una direttrice del marxismo occidentale
a cui gli studiosi indiani fanno
continuo riferimento, il secondo, che
pure si rifà al pensiero
gramsciano, in quanto caposcuola del
discorso postcoloniale 'orientalista'
(cfr. E. Said, Orientalism,
1978), che Guha e compagni riprendono
ed esplorano ulteriormente, diventando
così una tra le voci più
forti e polifoniche degli studi
postcoloniali contemporanei. Tuttavia,
molteplici sono i punti di riferimento
dei diversi membri del collettivo, i
quali, da una parte, si rifanno a
storici quali Edward Palmer Thompson,
Eric Hobsbawm e Carlo Ginzburg; d'altra
parte, si confrontano con lo
strutturalismo, il post-strutturalismo
e il decostruzionismo di,
rispettivamente, Roland Barthes, Michel
Foucault e Jacques Derrida; mentre via
via, intrecciando in maniera originale
gli assunti dei pensatori che li
precedono, si aprono a nuove tendenze e
orientamenti di pensiero - il
femminismo, gli studi di genere, le
narrazioni legali - contribuendo
così a realizzare in maniera
intertestuale e interculturale il
programma della conoscenza integrativa
di cui sopra, che è stato sin
dall'inizio il principio motore del
progetto della subalternità.
- Nonostante
il programma del collettivo di Delhi
sia sempre rimasto coerente e rigoroso
negli assunti di fondo, svariati ne
sono gli sviluppi tematici e
metodologici. Se ne può
tracciare la vicenda, ancora in fieri,
nonché la sua espansione in
ambito interdisciplinare e in contesto
internazionale, seguendo le tappe delle
sue pubblicazioni. Mentre infatti i
primi tre volumi di Subaltern
Studies, pubblicati rispettivamente
nel 1982, 1983 e 1984, si occupano di
ricostruire la storia delle varie
comunità subalterne, siano esse
quelle dei contadini in rivolta o
quelle dei lavoratori di iuta in
città, ponendo l'enfasi sul loro
intervento attivo nella formazione
della nazione, già con il quarto
volume, pubblicato nel 1985, il
collettivo compie una prima svolta
verso la direzione degli studi
culturali, grazie all'apporto
dell'antropologo Bernard Cohn, presente
per la prima volta nella collana con
l'articolo The Command of Language
and the Language of Command; e
grazie, soprattutto, al contributo di
Spivak, la quale interviene per la
prima volta nel forum col suo saggio
Subaltern Studies: Deconstructing
Historiography, che risente
fortemente delle idee del filosofo
francese Derrida, il cui De la
grammatologie la studiosa aveva
tradotto in inglese.
- Con
Spivak e la sua critica
all'essenzializzazione del soggetto
subalterno - con cui rifiuta la
presunta stabilità di ogni
categoria, concetto basato, a suo
parere, sull'artificiosità delle
opposizioni binarie del pensiero
tradizionale occidentale, facendo perno
invece sulla "violenza epistemica" come
forma di conoscenza, che risulterebbe
dallo scontro fra il colonialismo e i
soggetti che questo produce - il
collettivo inizia a porsi nuovi
problemi di rappresentabilità e
rappresentazione, di cui la summa
è data dal controverso,
già citato saggio Can the
Subaltern Speak?, nel quale la
studiosa fornisce una risposta
sostanzialmente negativa alla domanda
provocatoria del titolo. Vengono
inoltre introdotte da Spivak la
questione del gender e, in particolare,
quella femminile, che saranno
ulteriormente esaminate da altre
studiose, quali Susie Tharu e Julie
Stephens, e che diventeranno centrali
nel discorso della
subalternità.
- Nella
seconda metà degli anni Ottanta,
la teoria della subalternità
raggiunge il centro dell'impero. Nel
1986, Rosalind O'Hanlon ne parla in un
seminario sulla cultura popolare
tenutosi a Cambridge, mentre nel 1988
la stessa studiosa firma il primo
articolo sugli studi subalterni
pubblicato in Modern Asian
Studies, prestigiosa rivista della
cosiddetta Scuola di Cambridge. Alcuni
degli argomenti dei saggi contenuti nel
quinto volume di Subaltern
Studies, dato alle stampe nel 1987,
rispecchiano la nuova apertura
intrapresa dal progetto della
subalternità, in quanto si
occupano di vedere come il subalterno
è rappresentato non soltanto
nelle narrazioni storiche, bensì
anche in letteratura e nei testi
giuridici. Quando, nel 1988, viene
pubblicata la prima selezione di saggi
del collettivo di Delhi, dal titolo
Selected Subaltern Studies, il
progetto della subalternità
assume visibilità a livello
globale, aprendosi nel frattempo a vari
ambiti disciplinari e nazionali, come
testimoniano i volumi successivi: nel
sesto e nel settimo, per esempio,
pubblicati rispettivamente nel 1989 e
nel 1992, alcuni studiosi affrontano
l'intersezione della questione
religiosa col mondo della
subalternità, mentre il nono
volume, del 1996, si conclude con uno
studio sull'"effetto subalterno" in
Irlanda - l'ottavo, invece, pubblicato
nel 1994, raccoglie una serie di
articoli in onore di Guha. Ancora, nel
decimo volume, pubblicato nel 1999,
accanto ai saggi storici si discute di
realismo magico e di cultura visiva
popolare, mentre nell'undicesimo, del
2000, viene presentata la situazione
delle donne palestinesi.
- Nel
corso degli anni Novanta, dunque, il
progetto della subalternità
compie una seconda svolta, assumendo
dimensioni internazionali: nel 1993
viene fondato un collettivo
latino-americano di studi subalterni,
mentre nel 1994 la prestigiosa
American History Review dedica
un numero monografico al progetto
subalterno internazionale. Quando, nel
1997, Guha cura il volume A
Subaltern Studies Reader: 1986-1995
- cui, nel 2001, seguirà
un'ulteriore antologia, Reading
Subaltern Studies, a cura di David
Ludden - molti dei saggi dei membri del
collettivo sono già ampiamente
antologizzati, e il paradigma della
subalternità è ormai
talmente affermato su scala mondiale
che nell'undicesimo e a oggi ultimo
volume della serie, Spivak sente di
dovere definire il concetto di "nuovo
subalterno", nel saggio omonimo che
chiude il libro, rintracciandolo
emblematicamente nelle donne
proletarizzate del Sud del
mondo.
- Il
dibattito sugli studi subalterni ferve
ormai da più di due decenni,
facendosi sempre più vivace e
accogliendo tra le sue fila un numero
sempre maggiore di sostenitori, ma
anche di detrattori, che ne
rimproverano l'astrusità
terminologica e la provenienza
occidentale del linguaggio e
dell'impostazione teorica, di frequente
lamentando anche il fatto che gli
studiosi che fanno capo al collettivo
scrivono quasi sempre dalla condizione
ai loro occhi privilegiata e
contraddittoria di chi vive in
diaspora. A prescindere dalle polemiche
che accompagnano il dibattito e dalle
diverse posizioni che lo
contraddistinguono, chiunque frequenti
studi culturali e postcoloniali,
filosofia e critica politica, storia e
letteratura contemporanee, sociologia e
studi d'area, tanto del sud-est
asiatico quanto di altre regioni del
mondo, difficilmente potrà fare
a meno di commisurarsi con il lavoro
degli studiosi della
subalternità, nonché,
più in generale, con il dinamico
panorama degli studi culturali offerto
dal sub-continente indiano.
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