CULTURE

17 - 2003

Recensioni

Maria Cristina Paganoni

ARUNDHATI ROY,
GUIDA ALL'IMPERO PER LA GENTE COMUNE
(Trad. di Giuseppina Cavallo, Piero Leodi e Laura Quagliuolo),
PARMA, GUANDA, 2003 
 

Non c'è mai un'unica storia. Ci sono solo modi di vedere. Racconto una storia come un cantastorie che vuole condividere con gli altri il suo modo di intendere il mondo" (7). È con tali parole di esordio che Arundhati Roy, indiana dello stato del Kerala ora residente a New Delhi, romanziera, saggista ed attivista no global, introduce il lettore alla sua Guida, una raccolta di otto saggi politici - apparsi in contesti eterogenei nel corso del 2002 e 2003 - che evidenziano l'incisività e la concretezza del suo impegno civile e non lasciano dubbi sulla perspicacia della sua visione coraggiosamente divergente.
Tutti i contributi sono accomunati dalla vibrante denuncia "della paranoia e della spietatezza del potere"(8) dell'impero, oggi sostanzialmente incarnato dall'egemonia politica statunitense e dalla globalizzazione neoliberista, che di tale egemonia rappresenta l'emanazione economica, con il suo culto del libero mercato. Di fronte a questa situazione che non smette di causare guerre e povertà di dimensioni insostenibili, la Roy rivolge ad ognuno e a tutti l'appello veemente a non farsi defraudare del diritto di vivere in un mondo meno violento e più giusto. "Guida all'impero per la gente comune" (The Guardian, 2 aprile 2003), il saggio che dà il titolo al volumetto e che denuncia la rozza pretestuosità dell'attacco bellico sferrato contro l'Iraq, si conclude infatti invitando i cittadini del pianeta a radunarsi provvisti degli utensili necessari per smantellare l'apparato imperiale degli Stati Uniti, ad esempio con forme di boicottaggio nei consumi, poiché "il loro territorio può essere difeso da pattuglie di frontiera e armi nucleari, ma la loro economia è sparsa in tutto il globo. I loro avamposti economici sono vulnerabili e soggetti a ogni tipo di attacco" (75-76). Guida alla democrazia globale, ecco come si potrebbe altrimenti intitolare la raccolta, una democrazia che sia capace di superare i biechi nazionalismi alla radice della maggior parte dei genocidi del XX secolo, poiché "le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima come pellicola per avvolgervi ben bene la mente delle persone e poi come sudari cerimoniali per avvolgervi i morti" (9).
I cinque saggi della prima parte sono dedicati alle dinamiche della scena mondiale contemporanea - l'undici settembre, la crisi della democrazia, il neoliberismo economico, la politica statunitense e il sempre più diffuso antiamericanismo, la guerra in Iraq - mentre i tre della seconda si concentrano sull'attuale situazione indiana - la crescita del fondamentalismo religioso indù culminato nel massacro di duemila musulmani nello stato del Gujarat nel marzo del 2002, le armi nucleari in India e Pakistan e le tensioni fra i due stati, le politiche pericolosamente reazionarie del governo indiano, nonché la discutibile scelta di promuovere il cosiddetto sviluppo della nazione attraverso la costruzione di imponenti dighe di dubbia razionalità, finanziate da potenti multinazionali, che sradicano intere comunità rurali senza darsi pena di ricollocare o risarcire gli sfollati. Non si tratta affatto di azzardati accostamenti tematici poiché, come afferma la scrittrice, sottolineando il complesso meccanismo di interdipendenze fra il globale ed il locale, "nel XXI secolo non è più possibile ignorare i legami esistenti tra fondamentalismo religioso, nazionalismo nuclearista, globalizzazione neoliberista e impoverimento delle popolazioni" (153). Ma anche dal punto di vista dell'approccio teorico, come ribadisce il critico Timothy Brennan, è evidente che gli studi postcoloniali e le teorie della globalizzazione sono discorsi che sempre più si ritrovano ad utilizzare le stesse nozioni e parole chiave e che in parte si sovrappongono nei loro rispettivi terreni di indagine.
Il commento ad alcuni episodi drammatici della scena internazionale permette alla Roy di rintracciare nel nefasto accumularsi di ingiustizie ai danni dei più inermi l'origine di quella spirale di violenza da cui è afflitto il mondo attuale e di denunciare ogni tentativo di rimozione dei fatti e di riscrittura manichea della storia. Non è vero, sostiene lei con disarmante lucidità in "Settembre alle porte", che ci sia un solo undici settembre. L'innegabile atrocità dell'attacco terroristico alle Twin Towers non può comunque cancellare l'evidenza che altre - troppe - volte nella storia contemporanea settembre si sia rivelato un mese di spaventose ricorrenze, a partire da quell'11 settembre 1922 in cui la proclamazione del mandato britannico in Palestina da parte dell'Inghilterra imperiale ha segnato in modo irreversibile il destino di quella terra, e non solo di quella. Sempre lungo la medesima linea di rilettura critica della contemporaneità, memore delle molte ferite di quel tragico XX secolo che lo storico Eric Hobsbawm ha opportunamente rinominato "l'età degli estremi", lo schieramento del mondo fra presunti buoni e cattivi quale è ostentato dal "profluvio retorico seguito all'11 settembre"(11) è indicato come una costruzione ideologica che a tutti gli effetti aizza alla guerra santa, così come la visibilità mediatica di alcuni avvenimenti rispetto ad altri, sfruttata per giustificare e rafforzare l'aggressione bellica, è denunciata come una strumentale manipolazione semiotica di chi possiede l'egemonia politica al fine di fabbricare il consenso. "Il sostegno pubblico alla guerra contro l'Iraq si è fondato su una stratificata costruzione di falsità e disonestà, coordinata dal governo statunitense e supinamente amplificata dai media" (83), scrive ancora in "Democrazia imperiale pronta all'uso (paghi uno prendi due)", una conferenza del maggio 2003, che tratta questa volta delle fantomatiche armi di distruzione di massa di cui si sarebbe dotato l'Iraq, a riprova che, come tronfiamente dichiara l'impero con i suoi alleati, "i fatti sono ciò che noi vogliamo che siano" (82).
A quali strategie ricorrere, allora, per "contrastare l'impero" nei suoi panni vecchi e nuovi? Si tratta, per l'appunto, del titolo del terzo saggio della raccolta, che riporta il discorso tenuto dalla scrittrice dalla piattaforma dell'edizione 2003 del World Social Forum, nella città brasiliana di Porto Alegre. È importante osservare, a questo proposito, come il World Social Forum, una tribuna di recente formazione (l'anno è il 2001) e di crescente visibilità internazionale, offra alla Roy l'occasione preziosa di rivolgersi ad un nuovo soggetto collettivo ed attore mondiale, la cosiddetta società civile globale. E infatti, lo scorso gennaio, la Roy è intervenuta anche al WSF 2004, tenutosi proprio nella sua India, a Mumbai, pronunciando nell'assemblea plenaria di apertura un discorso ancora più graffiante, "Do Turkeys Enjoy Thanksgiving?" (apparso in traduzione italiana sull'Internazionale con il titolo "Il tacchino di George W. Bush"), che di nuovo si scaglia contro l'egemonia statunitense. E come fare, inoltre, affinché le strategie di resistenza siano intelligenti, non violente - si avverte nel pensiero della Roy la lezione di Gandhi - ed efficaci, cioè riescano a scardinare gli assetti di potere precostituiti concretizzandosi in alternative storicamente realizzabili?
Innanzi tutto, bisogna che la gente comune investa con realismo nel ruolo di cittadino globale, assumendosi la responsabilità della costruzione di un altro mondo possibile, come recita lo stesso motto del World Social Forum. Questa infatti non può e non deve essere delegata ai governi e alle istituzioni. La Roy sembra qui citare un'altra voce critica nei confronti della globalizzazione neoliberista, lo statunitense Joseph Stiglitz, vincitore del Nobel per l'Economia nel 2001, che per l'appunto ammonisce "Non fidatevi dei tecnocrati" (The Guardian, 16 luglio 2003), riferendosi parimenti alle strategie imperialistiche, interessate ed improvvide della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, tre gigantesche istituzioni controllate dagli Stati Uniti che vorrebbero permettersi di determinare a livello globale le economie, i criteri di sviluppo, gli investimenti e i parametri locali della bilancia commerciale, provocando di fatto dissesti finanziari a lungo termine nei paesi più poveri e mantenendoli in una situazione di subordinazione. I tecnocrati non devono sentirsi legittimati a sottrarre la democrazia ai cittadini, i quali sono energicamente richiamati alla strenua difesa della stessa, e senza indulgere in idealizzazioni o in sterili piagnistei: "C'è un che di patetico in un popolo che si lamenta costantemente dei suoi leader. Se ci hanno deluso è solo perché noi glielo abbiamo permesso" (137-38). La Roy invita infatti ad azioni concrete di boicottaggio e racconta gesti effettivi ed efficaci di resistenza non violenta, ad esempio il lungo sciopero della fame degli attivisti del movimento di tutela del fiume Narmada per contrastare la devastazione provocata dalla costruzione delle dighe alle comunità locali e all'ecosistema.
In secondo luogo, con un'ostinata fiducia nel potere sovversivo del linguaggio, ossia nell'efficacia politica di rappresentazioni alternative a quelle egemoniche, la Roy invita non solo a contrastare l'impero, ma a "stringerlo d'assedio, togliergli l'ossigeno, svergognarlo, ridicolizzarlo con la nostra arte, la nostra musica, la nostra letteratura, la nostra ostinazione, la nostra gioia, il nostro talento, la nostra capacità di narrare storie che ci appartengono. Storie diverse da quelle che ci vuol far credere con la sua propaganda" (63). Attraverso l'orchestrazione del consenso, la retorica manichea e il controllo mediatico, infatti, il nuovo imperialismo assoggetta gli individui imprigionandoli in un sistema simbolico soffocante, colonizzandone l'immaginario, depauperandone i sogni e mortificandone il linguaggio e l'espressione artistica. Se il controdiscorso prodotto localmente dai cittadini globali riuscirà a riappropriarsi delle parole e delle idee sbarazzandosi dei molti eufemismi ipocriti del linguaggio imperiale (ad es. "libertà di parola", "mondo libero", "sviluppo", "riforma", "aggiustamento strutturale", ma l'elenco non finisce certo qui), la resistenza all'empire potrà trasformarsi in un effettivo processo di empowerment della società civile, sfociando nella progettazione e nella realizzazione di modelli culturali più rispettosi della diversità e in pratiche socioeconomiche tese a forme di sviluppo autenticamente sostenibile.
Ecco quindi che, come terapia del linguaggio, la Roy propone di leggere Chomsky, annoverando il famoso linguista statunitense fra i paladini della resistenza alle nuove forme di imperialismo e dedicandogli il secondo saggio, "La solitudine di Noam Chomsky", nato come prefazione al recente libro dello studioso, For Reasons of State (2003). In un contesto, infatti, in cui "la democrazia è diventata meno di una parola vuota, un bell'involucro svuotato di qualsiasi contenuto e significato" (97), Chomsky ha saputo mostrare con coraggiosa indipendenza intellettuale che "l'opinione pubblica nelle democrazie del 'libero mercato' è confezionata come qualunque altro prodotto di massa: saponette, interruttori o pane in cassetta" (34). Ha smascherato "l'universo orribile, mistificatore e aggressivo che si nasconde dietro quella bella e solare parola: 'libertà'. E lo ha fatto in modo razionale e pratico" (39).
La consapevolezza critica di come funzionano i discorsi del potere è quindi la prima essenziale scuola di resistenza a cui il cittadino globale deve imparare a formarsi. Opporsi all'ipocrita neutralità del lessico specialistico tecnocratico comporta parimenti lo sforzo di forgiare un linguaggio più democratico, accessibile e volutamente 'eccentrico', quale è, per l'appunto, quello della Roy, di cui riusciamo a gustare, anche in traduzione italiana, la forza polemica, la creatività e la capacità davvero sorprendente di ricontestualizzazione metaforica del mondo a partire da un irriverente e terapeutico sguardo "dal basso", postcoloniale e no global. Un'ultima notazione sullo stile della Roy saggista: l'ibridazione fra il coacervo di culture indiane, che affiora nei dettagli delle storie narrate e nell'occasionale marcatezza del lessico, e la cultura di stampo angloamericano, di cui la scrittrice padroneggia il codice linguistico ed il sostrato simbolico, non produce qui gli effetti di creolizzazione tipici, invece, del romanzo Il dio delle piccole cose, dalle decise tinte indiane. Questa volta, semmai, Arundhati Roy si fa apprezzare per quanto si potrebbe definire duttilità interculturale, una flessibile equidistanza che le permette di citare con pari destrezza da entrambi gli universi culturali, menzionando con la stessa sovversiva ironia una volta la vacca sacra, un'altra il tricheco di Alice.

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