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Recensioni
- Maria
Cristina
Paganoni
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- ARUNDHATI
ROY,
- GUIDA
ALL'IMPERO PER LA GENTE
COMUNE
- (Trad.
di Giuseppina Cavallo, Piero Leodi e
Laura
Quagliuolo),
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PARMA, GUANDA,
2003
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- Non c'è
mai un'unica storia. Ci sono solo modi
di vedere. Racconto una storia come un
cantastorie che vuole condividere con
gli altri il suo modo di intendere il
mondo" (7). È con tali parole di
esordio che Arundhati Roy, indiana
dello stato del Kerala ora residente a
New Delhi, romanziera, saggista ed
attivista no global, introduce
il lettore alla sua Guida, una
raccolta di otto saggi politici -
apparsi in contesti eterogenei nel
corso del 2002 e 2003 - che evidenziano
l'incisività e la concretezza
del suo impegno civile e non lasciano
dubbi sulla perspicacia della sua
visione coraggiosamente
divergente.
- Tutti i
contributi sono accomunati dalla
vibrante denuncia "della paranoia e
della spietatezza del potere"(8)
dell'impero, oggi sostanzialmente
incarnato dall'egemonia politica
statunitense e dalla globalizzazione
neoliberista, che di tale egemonia
rappresenta l'emanazione economica, con
il suo culto del libero mercato. Di
fronte a questa situazione che non
smette di causare guerre e
povertà di dimensioni
insostenibili, la Roy rivolge ad ognuno
e a tutti l'appello veemente a non
farsi defraudare del diritto di vivere
in un mondo meno violento e più
giusto. "Guida all'impero per la gente
comune" (The Guardian, 2 aprile
2003), il saggio che dà il
titolo al volumetto e che denuncia la
rozza pretestuosità dell'attacco
bellico sferrato contro l'Iraq, si
conclude infatti invitando i cittadini
del pianeta a radunarsi provvisti degli
utensili necessari per smantellare
l'apparato imperiale degli Stati Uniti,
ad esempio con forme di boicottaggio
nei consumi, poiché "il loro
territorio può essere difeso da
pattuglie di frontiera e armi nucleari,
ma la loro economia è sparsa in
tutto il globo. I loro avamposti
economici sono vulnerabili e soggetti a
ogni tipo di attacco" (75-76). Guida
alla democrazia globale, ecco come
si potrebbe altrimenti intitolare la
raccolta, una democrazia che sia capace
di superare i biechi nazionalismi alla
radice della maggior parte dei genocidi
del XX secolo, poiché "le
bandiere sono pezzi di stoffa colorata
che i governi usano prima come
pellicola per avvolgervi ben bene la
mente delle persone e poi come sudari
cerimoniali per avvolgervi i morti"
(9).
- I cinque saggi
della prima parte sono dedicati alle
dinamiche della scena mondiale
contemporanea - l'undici settembre, la
crisi della democrazia, il neoliberismo
economico, la politica statunitense e
il sempre più diffuso
antiamericanismo, la guerra in Iraq -
mentre i tre della seconda si
concentrano sull'attuale situazione
indiana - la crescita del
fondamentalismo religioso indù
culminato nel massacro di duemila
musulmani nello stato del Gujarat nel
marzo del 2002, le armi nucleari in
India e Pakistan e le tensioni fra i
due stati, le politiche pericolosamente
reazionarie del governo indiano,
nonché la discutibile scelta di
promuovere il cosiddetto sviluppo della
nazione attraverso la costruzione di
imponenti dighe di dubbia
razionalità, finanziate da
potenti multinazionali, che sradicano
intere comunità rurali senza
darsi pena di ricollocare o risarcire
gli sfollati. Non si tratta affatto di
azzardati accostamenti tematici
poiché, come afferma la
scrittrice, sottolineando il complesso
meccanismo di interdipendenze fra il
globale ed il locale, "nel XXI secolo
non è più possibile
ignorare i legami esistenti tra
fondamentalismo religioso, nazionalismo
nuclearista, globalizzazione
neoliberista e impoverimento delle
popolazioni" (153). Ma anche dal punto
di vista dell'approccio teorico, come
ribadisce il critico Timothy Brennan,
è evidente che gli studi
postcoloniali e le teorie della
globalizzazione sono discorsi che
sempre più si ritrovano ad
utilizzare le stesse nozioni e parole
chiave e che in parte si sovrappongono
nei loro rispettivi terreni di
indagine.
- Il commento ad
alcuni episodi drammatici della scena
internazionale permette alla Roy di
rintracciare nel nefasto accumularsi di
ingiustizie ai danni dei più
inermi l'origine di quella spirale di
violenza da cui è afflitto il
mondo attuale e di denunciare ogni
tentativo di rimozione dei fatti e di
riscrittura manichea della storia. Non
è vero, sostiene lei con
disarmante lucidità in
"Settembre alle porte", che ci sia un
solo undici settembre. L'innegabile
atrocità dell'attacco
terroristico alle Twin Towers non
può comunque cancellare
l'evidenza che altre - troppe - volte
nella storia contemporanea settembre si
sia rivelato un mese di spaventose
ricorrenze, a partire da quell'11
settembre 1922 in cui la proclamazione
del mandato britannico in Palestina da
parte dell'Inghilterra imperiale ha
segnato in modo irreversibile il
destino di quella terra, e non solo di
quella. Sempre lungo la medesima linea
di rilettura critica della
contemporaneità, memore delle
molte ferite di quel tragico XX secolo
che lo storico Eric Hobsbawm ha
opportunamente rinominato "l'età
degli estremi", lo schieramento del
mondo fra presunti buoni e cattivi
quale è ostentato dal "profluvio
retorico seguito all'11 settembre"(11)
è indicato come una costruzione
ideologica che a tutti gli effetti
aizza alla guerra santa, così
come la visibilità mediatica di
alcuni avvenimenti rispetto ad altri,
sfruttata per giustificare e rafforzare
l'aggressione bellica, è
denunciata come una strumentale
manipolazione semiotica di chi possiede
l'egemonia politica al fine di
fabbricare il consenso. "Il sostegno
pubblico alla guerra contro l'Iraq si
è fondato su una stratificata
costruzione di falsità e
disonestà, coordinata dal
governo statunitense e supinamente
amplificata dai media" (83), scrive
ancora in "Democrazia imperiale pronta
all'uso (paghi uno prendi due)", una
conferenza del maggio 2003, che tratta
questa volta delle fantomatiche armi di
distruzione di massa di cui si sarebbe
dotato l'Iraq, a riprova che, come
tronfiamente dichiara l'impero con i
suoi alleati, "i fatti sono ciò
che noi vogliamo che siano"
(82).
- A quali
strategie ricorrere, allora, per
"contrastare l'impero" nei suoi panni
vecchi e nuovi? Si tratta, per
l'appunto, del titolo del terzo saggio
della raccolta, che riporta il discorso
tenuto dalla scrittrice dalla
piattaforma dell'edizione 2003 del
World Social Forum, nella città
brasiliana di Porto Alegre. È
importante osservare, a questo
proposito, come il World Social Forum,
una tribuna di recente formazione
(l'anno è il 2001) e di
crescente visibilità
internazionale, offra alla Roy
l'occasione preziosa di rivolgersi ad
un nuovo soggetto collettivo ed attore
mondiale, la cosiddetta società
civile globale. E infatti, lo scorso
gennaio, la Roy è intervenuta
anche al WSF 2004, tenutosi proprio
nella sua India, a Mumbai, pronunciando
nell'assemblea plenaria di apertura un
discorso ancora più graffiante,
"Do Turkeys Enjoy Thanksgiving?"
(apparso in traduzione italiana
sull'Internazionale con il
titolo "Il tacchino di George W.
Bush"), che di nuovo si scaglia contro
l'egemonia statunitense. E come fare,
inoltre, affinché le strategie
di resistenza siano intelligenti, non
violente - si avverte nel pensiero
della Roy la lezione di Gandhi - ed
efficaci, cioè riescano a
scardinare gli assetti di potere
precostituiti concretizzandosi in
alternative storicamente realizzabili?
- Innanzi tutto,
bisogna che la gente comune investa con
realismo nel ruolo di cittadino
globale, assumendosi la
responsabilità della costruzione
di un altro mondo possibile, come
recita lo stesso motto del World Social
Forum. Questa infatti non può e
non deve essere delegata ai governi e
alle istituzioni. La Roy sembra qui
citare un'altra voce critica nei
confronti della globalizzazione
neoliberista, lo statunitense Joseph
Stiglitz, vincitore del Nobel per
l'Economia nel 2001, che per l'appunto
ammonisce "Non fidatevi dei tecnocrati"
(The Guardian, 16 luglio 2003),
riferendosi parimenti alle strategie
imperialistiche, interessate ed
improvvide della Banca Mondiale, del
Fondo Monetario Internazionale e
dell'Organizzazione Mondiale per il
Commercio, tre gigantesche istituzioni
controllate dagli Stati Uniti che
vorrebbero permettersi di determinare a
livello globale le economie, i criteri
di sviluppo, gli investimenti e i
parametri locali della bilancia
commerciale, provocando di fatto
dissesti finanziari a lungo termine nei
paesi più poveri e mantenendoli
in una situazione di subordinazione. I
tecnocrati non devono sentirsi
legittimati a sottrarre la democrazia
ai cittadini, i quali sono
energicamente richiamati alla strenua
difesa della stessa, e senza indulgere
in idealizzazioni o in sterili
piagnistei: "C'è un che di
patetico in un popolo che si lamenta
costantemente dei suoi leader. Se ci
hanno deluso è solo
perché noi glielo abbiamo
permesso" (137-38). La Roy invita
infatti ad azioni concrete di
boicottaggio e racconta gesti effettivi
ed efficaci di resistenza non violenta,
ad esempio il lungo sciopero della fame
degli attivisti del movimento di tutela
del fiume Narmada per contrastare la
devastazione provocata dalla
costruzione delle dighe alle
comunità locali e
all'ecosistema.
- In secondo
luogo, con un'ostinata fiducia nel
potere sovversivo del linguaggio, ossia
nell'efficacia politica di
rappresentazioni alternative a quelle
egemoniche, la Roy invita non solo a
contrastare l'impero, ma a "stringerlo
d'assedio, togliergli l'ossigeno,
svergognarlo, ridicolizzarlo con la
nostra arte, la nostra musica, la
nostra letteratura, la nostra
ostinazione, la nostra gioia, il nostro
talento, la nostra capacità di
narrare storie che ci appartengono.
Storie diverse da quelle che ci vuol
far credere con la sua propaganda"
(63). Attraverso l'orchestrazione del
consenso, la retorica manichea e il
controllo mediatico, infatti, il nuovo
imperialismo assoggetta gli individui
imprigionandoli in un sistema simbolico
soffocante, colonizzandone
l'immaginario, depauperandone i sogni e
mortificandone il linguaggio e
l'espressione artistica. Se il
controdiscorso prodotto localmente dai
cittadini globali riuscirà a
riappropriarsi delle parole e delle
idee sbarazzandosi dei molti eufemismi
ipocriti del linguaggio imperiale (ad
es. "libertà di parola", "mondo
libero", "sviluppo", "riforma",
"aggiustamento strutturale", ma
l'elenco non finisce certo qui), la
resistenza all'empire
potrà trasformarsi in un
effettivo processo di
empowerment della società
civile, sfociando nella progettazione e
nella realizzazione di modelli
culturali più rispettosi della
diversità e in pratiche
socioeconomiche tese a forme di
sviluppo autenticamente
sostenibile.
- Ecco quindi
che, come terapia del linguaggio, la
Roy propone di leggere Chomsky,
annoverando il famoso linguista
statunitense fra i paladini della
resistenza alle nuove forme di
imperialismo e dedicandogli il secondo
saggio, "La solitudine di Noam
Chomsky", nato come prefazione al
recente libro dello studioso, For
Reasons of State (2003). In un
contesto, infatti, in cui "la
democrazia è diventata meno di
una parola vuota, un bell'involucro
svuotato di qualsiasi contenuto e
significato" (97), Chomsky ha saputo
mostrare con coraggiosa indipendenza
intellettuale che "l'opinione pubblica
nelle democrazie del 'libero mercato'
è confezionata come qualunque
altro prodotto di massa: saponette,
interruttori o pane in cassetta" (34).
Ha smascherato "l'universo orribile,
mistificatore e aggressivo che si
nasconde dietro quella bella e solare
parola: 'libertà'. E lo ha fatto
in modo razionale e pratico"
(39).
- La
consapevolezza critica di come
funzionano i discorsi del potere
è quindi la prima essenziale
scuola di resistenza a cui il cittadino
globale deve imparare a formarsi.
Opporsi all'ipocrita neutralità
del lessico specialistico tecnocratico
comporta parimenti lo sforzo di
forgiare un linguaggio più
democratico, accessibile e volutamente
'eccentrico', quale è, per
l'appunto, quello della Roy, di cui
riusciamo a gustare, anche in
traduzione italiana, la forza polemica,
la creatività e la
capacità davvero sorprendente di
ricontestualizzazione metaforica del
mondo a partire da un irriverente e
terapeutico sguardo "dal basso",
postcoloniale e no global.
Un'ultima notazione sullo stile della
Roy saggista: l'ibridazione fra il
coacervo di culture indiane, che
affiora nei dettagli delle storie
narrate e nell'occasionale marcatezza
del lessico, e la cultura di stampo
angloamericano, di cui la scrittrice
padroneggia il codice linguistico ed il
sostrato simbolico, non produce qui gli
effetti di creolizzazione tipici,
invece, del romanzo Il dio delle
piccole cose, dalle decise tinte
indiane. Questa volta, semmai,
Arundhati Roy si fa apprezzare per
quanto si potrebbe definire
duttilità interculturale, una
flessibile equidistanza che le permette
di citare con pari destrezza da
entrambi gli universi culturali,
menzionando con la stessa sovversiva
ironia una volta la vacca sacra,
un'altra il tricheco di
Alice.
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