IL CLUB DI

LETIZIA

Dedicato alla lesione cerebrale infantile

A cura di Maria Simona Bellini

 

STORIA DI LEONARDO

Per non credere alle parole "Non c'é niente da fare"

 

Questa mia breve storia é indirizzata a tutti i genitori che hanno un figlio con problemi e a tutti gli operatori del settore che non sanno vedere di là dal "proprio naso".

Leonardo é nato da parto naturale, senza complicazioni di sorta, e ha avuto una crescita normale senza incidenti fino all'età di diciotto mesi. Aveva incominciato a sviluppare un linguaggio fatto di poche parole che non ci preoccupava, data l'età, ed era sempre allegro.

Tuttavia il suo bel sorriso gioioso ben presto si trasformò in un atteggiamento angosciato: ricordo che stava sempre in braccio al suo papà, non giocava con gli altri bambini e quindi incominciò a rinchiudersi in un mutismo preoccupante, perciò, io e mio marito decidemmo di iscriverlo ad un asilo privato nel tentativo di ottenere il suo linguaggio attraverso la socializzazione. Fu un fallimento totale, le insegnanti non si resero conto nemmeno della sua difficoltà. Cominciai a capire che c'era qualcosa che non andava, ma nessuno mi credeva: il pediatra mi assicurava che il bambino era normale e che ero io a dovermi curare perché fortemente esaurita.
Era vero, mi sentivo impazzire perché io vedevo alcune reazioni strane di mio figlio che gli altri ignoravano:
  • Leonardo non si girava quando lo chiamavo, ma se sentiva la pubblicità alla televisione andava di corsa a vederla
  • non reagiva ad un rumore improvviso come il passaggio di un elicottero, ma riconosceva il rumore della macchina del padre quando tornava dal lavoro
  • quando tentavo di insegnargli qualcosa si rifiutava e quasi "ringhiava"
  • giocava per ore intere con l'acqua e con tutto ciò che poteva fare oscillare
 
In maniera quasi inevitabile, arrivò il giorno della mia prima spaventosa crisi di nervi: a questo punto tutti mi credettero. Andammo a Roma al Centro di Neuropsichiatria Infantile dell'Università, dove nostro figlio avrebbe dovuto fare un periodo di valutazione per scoprire il suo problema. Siamo rimasti in quella squallida struttura per tre settimane.
Tutte le mattine nostro figlio, con altri due bambini, entrava in una stanza dove rimaneva tre ore senza che noi sapessimo cosa stessero facendo. Di tanto in tanto, qualche studentessa ci sottoponeva dei questionari che a me sembravano molto stupidi ed intanto i giorni passavano senza sapere a quale punto erano le indagini che venivano svolte ed io ricordo che ero la madre più "sovversiva" infatti, riuscii ad entrare in quella stanza tre volte (le altre mamme mai).
Alla fine delle tre settimane, ci spiegarono che nostro figlio era affetto da una malattia grave, poiché in ritardo con la comunicazione e che non avrebbe recuperato mai più. Di fronte ad alcune mie domande sul perché di alcuni atteggiamenti mi fu risposto che semplicemente avrei dovuto interrompere questi comportamenti scendendo al suo livello e che non dovevo essere ossessiva poiché la salvezza, incerta, di mio figlio dipendeva dalla distinzione dei ruoli: i genitori devono fare i genitori, i terapisti i terapisti e le insegnanti le insegnanti.
Una di quelle terapiste un giorno parlandomi, a sostegno forse del mio dolore, disse che mio figlio non avrebbe dovuto vedere mai più le video cassette di cartoni animati poiché avrebbe corso il rischio di identificarsi con Paperino: «Che peccato! - mi disse - un così bel bambino!».
Alla fine delle tre settimane non avevo capito niente e alla mia richiesta di suggerimenti mi dissero che avevo saputo già troppo. Se non mi sono suicidata con mio figlio, lo devo solo al grande amore che sento per lui e per il resto della mia famiglia.
Tornammo a casa per fare psicomotricità tre volte la settimana senza sapere neanche come si chiamava il mostro che stavamo affrontando: "Tratti autistici"
«Ma - mi chiedevo- come sono gli autistici senza tratti?».
Non sapevo nemmeno se potevo toccare mio figlio e da sola cominciai a leggere dì tutto sull'autismo e mi resi conto che c'era una grande confusione. Di tanto in tanto, chiamavo il numero privato del neurologo manifestandole il mio stupore ed ella mi rispondeva che dovevo prendere degli ansiolitici e di non trasmettere la mia ansia al bambino e soprattutto di non leggere molto sull'autismo poiché non tutto era vero e assolutamente non dovevo portare il mio bambino da nessuna altra parte poiché avrei peggiorato la situazione.
Ed era proprio così: la maggiore parte delle cose che leggevo erano cavolate, ma questo lo avrei scoperto più tardi. Mentre i sensi di colpa distruggevano me e mio marito, facevo alcuni piccoli esperimenti con Leonardo: non si toccava, non toccava gli altri e soprattutto provava ripugnanza quando cercavo di avvicinarlo al mio corpo nudo.
«Perché - mi chiedevo - a volte sente, altre no?».
Intuivo che c'era qualcosa di più, ma non trovavo il filo conduttore. Nel palazzo di mia madre c'era una conoscente il cui bambino era gravemente cerebroleso con grossi problemi motori e dopo tre anni di una certa terapia non era più spastico. Mi prese la curiosità di conoscere la terapia fatta da questo bambino e per la prima volta sentii parlare del Metodo Delacato di Organizzazione Neurologica. Ebbi il numero telefonico, giusto quello che avrebbe salvato mio figlio. L'incontro con un componente dell'équipe dell'Associazione Delacato, padre di una ragazza autistica, fu per me decisivo: ad ogni perché c'era una spiegazione, finalmente capivo il mostro e quanto si poteva fare per mio figlio.
Passavo serate intere a telefono con questa persona meravigliosa che mi incoraggiava sempre. Di seguito lessi tutti i libri pubblicati in Italia da Carl Delacato e finalmente capii che cosa era accaduto a mio figlio: l'autismo non era una malattia psicologica, ma la conseguenza di una non corretta organizzazione delle funzioni cerebrali. In conseguenza di microlesioni a livello neuronale, il sistema sensoriale del soggetto autistico è gravemente disturbato ed invia informazioni erronee al cervello: troppo nei bambini iper e troppo poche nei bambini ipo. Il disturbo percettivo impedisce loro di comunicare e di raggiungere il linguaggio verbale che nell'uomo rappresenta il punto di arrivo di un corretto e completo sviluppo neurologico.
Il Dott. Delacato mi spiegò che mio figlio aveva un problema di iper udito, iper tatto e iper vista e che non parlava non perché affetto da ritardo mentale ma solo perché il suo cervello riceveva troppe informazioni e per questo non riusciva ad organizzare il linguaggio.
Abbracciai subito il metodo ben felice del fatto che avrei dovuto essere io stessa a svolgere la terapia (solo due ore il giorno).
I risultati furono immediati: insegnavamo al cervello di Leonardo a percepire ed a sentire nel modo giusto con esercizi di stimolazioni sensoriali da una parte e cercando di sfruttare le sue capacità dall'altra.
Dopo otto mesi la sua comprensione era migliorata, le stereotipie diminuivano e diceva circa trenta parole; imparava a leggere e a scrivere, prestandoci attenzione, anche se limitatamente.
Dopo due anni e quattro mesi di terapia possiamo dire con certezza che Leonardo é uscito dal suo disagio e si avvicina sempre di più alla normalità, ma stiamo lavorando ancora perché il ricordo delle terribili parole che condannavano senza appello il nostro bambino risuonano ancora nelle nostre orecchie come una spaventosa minaccia.
Ho trovato molte persone che hanno collaborato con noi anche nell'ambito scolastico ove purtroppo regna l'ignoranza assoluta sul problema. Sono venute delle volontarie ad intrattenere Leonardo per farlo stare sempre in attività. Accanto a queste persone ne ho incontrate altre, operatori del settore, che, chiusi nelle loro convinzioni ed omettendo di fornire le giuste informazioni, non consentono il recupero di questi bambini ed uccidono le loro famiglie colpevolizzandole.
Quando io parlavo loro del Metodo Delacato mi rispondevano: «No signora, per carità, é un metodo duro, non scientificamente provato».
In realtà, mi sono resa conto che questi grandi luminari non hanno la più piccola conoscenza del Metodo Delacato e, quello che é più grave, non vogliono sentire parlare di "cervello" e della sua riabilitazione quando si interviene nell'autismo.
A tutti i genitori di bambini con problemi vorrei dire di non rassegnarsi mai e di non credere alle parole "non c'è niente da fare" semplicemente perché non é vero.
Valentina

Giugno 1998

 


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