Il primo colpo sotto la cintola ce lo dette il pediatra quando portammo Tommaso al
controllo previsto dopo le vacanze. Eravamo stati 15 giorni al mare, rispondendo al sano
principio che cambiare aria e distrarsi un po' avrebbe fatto bene a tutta la famiglia, ma
anche perché in casa nostra in estate fa veramente un caldo infernale ed è preferibile
andarsene in un luogo più fresco. (..) Quando tornammo in città eravamo fermamente
decisi a trovare una soluzione al problema del pianto di Tommaso. Questa fu proprio la
prima richiesta fatta al pediatra durante quella visita:" Dottore, gli dia
un pasticcone, o magari una bastonata in testa, ma ce lo faccia dormire di notte, per
carità, altrimenti qui si diventa tutti matti!".
Ma il medico dette importanza ad altre cose, anzi il problema del sonno non lo prese
nemmeno in considerazione, facendomi sentire decisamente stupida ad avere esordito con
quella battuta scherzosa ed inutile. Fece una visita accurata, durante la quale non disse
una parola, poi aspettò che avessimo rivestito Tommaso e che ci fossimo seduti di fronte
a lui. Solo allora esternò i suoi dubbi.
C'era sempre il solito problema della circonferenza cranica. La testa di Tommy, già
piccina alla nascita, non era cresciuta proporzionalmente a tutto il resto del corpo,
quindi si poteva legittimamente sospettare che ci fosse una malformazione che impediva
alla scatola cranica di assumere le dovute dimensioni. Non so se il pediatra avesse in
mente qualche sindrome specifica, ma una cosa era evidente: benchè continuasse a parlare
di microcrania era il contenuto del cranio che lo preoccupava maggiormente perché ad una
testa piccola corrisponde anche un cervello più piccolo del normale e non si poteva
sapere se era in grado di funzionare regolarmente. Inoltre l'ipertono muscolare diffuso a
cui si era data un'importanza relativa all'inizio , adesso assumeva un altro significato:
si poteva parlare di vera e propria spasticità. A questo c'era da aggiungere il fatto che
Tommy all'età di cinque mesi non dimostrava di aver fatto nessun progresso, non teneva
sollevata la testa, non aveva perso i riflessi della nascita, non afferrava gli oggetti.
Come sviluppo psicomotorio era ancora a livello di un bambino appena nato.
" Ma è possibile che non vi siate accorti di nulla? Eppure avete avuto un
altro figlio piccolo! Come mai non avete notato che questo non sviluppava delle competenze
proprie per la sua età?"
Domande intelligenti, a cui non avevamo risposte altrettanto intelligenti.
Era vero, avendo avuto un altro bambino prima di Tommy avremmo dovuto per forza
accorgerci che mentre Checco a cinque mesi stava già seduto sul seggiolone e cercava di
afferrare tutto quello che gli capitava a tiro, questo a malapena teneva la testa sul
collo. Il fatto era che io non avevo mai pensato, e Carlo altrettanto, che poteva esserci
qualcosa di veramente grave e anche adesso che il pediatra insisteva nel farci rilevare
certe difficoltà motorie ed un ritardo nello sviluppo generale, continuavo a pensare che
stesse prendendo un grosso granchio.
E poi, perché voleva colpevolizzarci, facendoci sentire dei genitori poco attenti
alle manifestazioni di nostro figlio e poco solerti nel rilevare quello che non andava?
Chi era il medico? Perché se aveva già da tempo un sospetto così grosso non lo aveva
esternato prima ed aveva lasciato passare cinque mesi, raccomandandoci solo molto
genericamente di controllare il bambino ? Controllare che cosa?
" Dottore, abbia pazienza, ma cosa avrei dovuto notare di tanto strano, in un
bambino come questo ? E' nato prematuro ed immaturo, per un mese me lo hanno fatto vedere
solo dietro ad un vetro, poi quando lo hanno dimesso dall'ospedale mi hanno consegnato una
cartella clinica dove c'era scritto: EEG nella norma, potenziali visivi nella norma, esame
audiometrico nella norma, ECG nella norma, praticamente tutto nella norma, e questo vuol
dire che andava tutto bene o no? "
Gli feci vedere per l'ennesima volta quella cartellina e continuai:" Quando
hanno dimesso Tommy i medici mi hanno detto che non c'erano problemi, se non per il fatto
che il bambino era ancora piccolo. C'era solo quel particolare della microcrania, ma mi
dissero che poteva trattarsi di un fattore ereditario e poi ne parlavano come di una cosa
secondaria, così come si potrebbe segnalare un callo ad un piede. Dottore, anche lei, le
prime volte che lo ha visto, ha detto che era un bambino sano e che andava solo seguito un
po' nella crescita. Lo guardi, per piacere! Nell'ultimo mese è cresciuto addirittura di
un chilo e mezzo ed ora non sembra più nemmeno parente alla lontana di quel grillino che
ho ripreso quattro mesi fa dall'ospedale! A parte questa storia del pianto notturno così
insistente, le garantisco che il bambino è stato sempre bene. E poi ci sono dei bambini
che non dormono per dei mesi interi e nessuno si sognerebbe mai di dire che hanno una
paralisi spastica o cose del genere! Anche Checco non dormiva molto, e mi sembra un
bambino normale, no? "
Il medico aspettò in silenzio che avessi terminato il mio sfogo, ormai sempre più
somigliante ad una crisi isterica. Non so se in quel momento stessi cercando delle
giustificazioni più per il pediatra o per me stessa, certo è che mai fino a quel momento
avrei potuto immaginare che tutti i problemi di mio figlio fossero legati ad una patologia
così grave.
Carlo non aveva aperto bocca per tutto il tempo. Aveva lasciato che io riversassi
sul medico tutto quel torrente di disperazione, senza mai annuire, né muovere un muscolo.
Sembrava invecchiato di dieci anni. Mentre io sfogavo tutta la mia rabbia sbraitando come
una pazza lui se ne stava zitto e pensieroso, col capo chino, come se avesse dovuto
sopportare sulla schiena tutto il peso del mondo.
Quando non ebbi più frasi da vomitargli addosso, il pediatra prese la penna e
scrisse qualcosa su una ricetta, poi rivolto a noi disse:
" Come vi ho già spiegato il quadro clinico non è rassicurante. Sarà
opportuno fare al bambino tutta una serie di esami clinici, ma prima di tutto vorrei che
lo vedesse un neuropsichiatra infantile e desse una valutazione del caso. Vi ho fatto una
richiesta di visita specialistica. Potete rivolgervi anche al servizio della USL, se
volete, so che c'è un bravo neuropsichiatra. Fatemi sapere qualcosa". E ci
accompagnò alla porta dell'ambulatorio, dove già premeva una piccola folla di mamme e
bambini in attesa di essere visitati.
Uscimmo da quella stanza barcollando come ubriachi, disorientati e prostrati da quel
colloquio e dal dubbio che il medico, senza fare tanti complimenti, ci aveva sbattuto in
faccia con la violenza di un ceffone. Adesso solo un pensiero era vivo nella nostra mente:
con molta probabilità nostro figlio non sarebbe stato un bambino normale; avrebbe forse
avuto un ritardo mentale, forse dei problemi motori, ma certamente non sarebbe stato un
bambino come gli altri. Quella parola usata dal pediatra, "spasticità" mi aveva
spaventata. Voleva forse dire che mio figlio sarebbe stato uno di quei bambini che
camminano come marionette di legno, oscillando a destra e sinistra, che non riescono ad
afferrare gli oggetti perché hanno le mani deformi come artigli e parlano in un modo
incomprensibile, con suoni gutturali, facendo orribili smorfie ed incrociando gli occhi
quando ti guardano? E quello specialista che doveva vederlo, il neuropsichiatra, era forse
il medico che cura quei ragazzini sempre irrequieti che non vogliono star fermi in nessun
posto, scappano da tutte le parti, oppure quelli che se ne stanno inebetiti, con lo
sguardo assente, perso nel vuoto, con la lingua penzoloni e si stropicciano i vestiti con
le mani, oppure dondolano la testa in qua e in là e poi la battono nel muro?
Ero sconvolta. Più cercavo di fare ordine nella mia mente e più mi sembrava che
quel turbine di immagini e di pensieri avrebbe finito per avere il sopravvento, la mia
ragione si sarebbe offuscata ed allora, altro che neuropsichiatra ci sarebbe voluto! Non
sarebbe bastata la camicia di forza per contenere tutta la violenza sprigionata dalla mia
pazzia! Non era possibile, assolutamente, che quella bellissima creatura che tenevo in
braccio, con i suoi occhi neri grandissimi, i suoi capelli biondi, la sua pelle di pesca,
avesse un avvenire così segnato. Quello era mio figlio, che, è vero, piangeva tanto di
notte, ma mi sorrideva quando lo tenevo stretto a me e non poteva diventare uno spastico o
un ritardato mentale, come diceva il dottore.
"Secondo me, quello lì non ha capito nulla. L'ho sempre detto che si dà un
mucchio di importanza, si crede un luminare della medicina e poi alla resa dei conti non
sa curare nemmeno un'influenza!" dissi a Carlo, mentre percorrevamo la strada di casa
"La prima cosa che faremo sarà di cambiare medico, perché questo non mi dà per
niente fiducia. Nemmeno una diarrea gli farei curare, a questo cialtrone! " rincarai
la dose.
"Ora basta, falla finita!" sbottò Carlo. Il suono acuto della sua voce,
dopo tutto quel tempo in cui mi era parso in trance, mi fece quasi sobbalzare per la
sorpresa. " Lo sai benissimo che Tommy ha qualcosa che non va, ne abbiamo già
parlato tante volte, negli ultimi giorni, per cui è inutile che ti faccia prendere dagli
isterismi Smettila subito con questi discorsi assurdi e cerca di capire che se il dottore
ci ha dato dei suggerimenti lo ha fatto per il nostro bene perché se c'è qualcosa che
non va è giusto che lo scopriamo e che si possa esser messi in condizione di agire nel
miglior modo possibile. Stai tranquilla che faremo di tutto perché Tommaso abbia uno
sviluppo normale, non lasceremo nessuna via intentata, ma per prima cosa mi sembra
opportuno che lo veda uno specialista, non ti sembra? A maggior ragione , se dici di non
fidarti di questo medico neppure per curare un raffreddore!."
" Hai ragione, scusami " risposi, abbastanza amareggiata " la cosa
più importante è sapere di quale malattia si sta parlando. Domani andrò subito a
fissare un appuntamento con il neuropsichiatra e poi si vedrà."
La nostra conversazione sull'argomento finì così. Del resto era inutile, come
sosteneva Carlo, stare a tormentarsi quando non sapevamo nulla di preciso e fino ad allora
erano state solo avanzate ipotesi e sprecate parole troppo grosse. Quella sera però
nessuno dei due riuscì a prendere sonno, ognuno a rimuginare in cuor suo cosa ci avrebbe
riservato la sorte riguardo a questo bambino. Io mi girai e rigirai tra le coperte e Carlo
accese mille volte la luce e vide passare tutte le ore della notte sul quadrante della
sveglia.(..)
Il neuropsichiatra che vide Tommaso era una donna. "Meno male" pensai fra
me "forse fra donne riusciremo a capirci meglio". Ero convinta che lei, in
quanto medico e donna, dovesse avere una sensibilità più spiccata e che io forse mi
sarei sentita meno a disagio nell'esporre i miei problemi.
"Signora, quando si è accorta che c'è qualcosa che non va in questo
bambino?"
Era un film che avevo già visto. Quindi, dato che ormai conoscevo il copione,
cercai di raccogliere le idee e di ripercorrere la storia di Tommaso dall'inizio, a
cominciare da quella gravidanza così difficile, e poi il parto affrettato, l'incubatrice
ed i problemi che avevamo con la sua rigidità muscolare e con il pianto. Cercavo di
parlare in modo conciso e chiaro, cosicchè la dottoressa avesse un quadro della
situazione il più esauriente possibile, ma, mano a mano che procedevo nel racconto, il
tono della mia voce si faceva sempre più concitato ed aggressivo ed io mi innervosivo
sempre di più. Come in occasione della visita dal pediatra, era scattata dentro di me una
molla, quello che io chiamo il mio istinto di conservazione. La mia mente si rifiutava di
elaborare certi concetti perché avrebbe significato prendere atto di una realtà avversa
e crudele. L'ammettere che certe manifestazioni di mio figlio erano vere, che aveva
realmente un aspetto teso, che muoveva le gambe a scatti e le braccia quasi per nulla, che
non teneva sollevata la testa, l'ammettere tutto questo significava anche ammettere che il
bambino aveva qualcosa di molto grave. Ma il mio istinto di conservazione mi diceva che
NO!, non era assolutamente vero nulla, erano i medici, incompetenti e presuntuosi, che si
stavano inventando tutto, per sperimentare chissà quale nuova diavoleria su mio figlio.
Per questo, mentre parlavo, ammettevo e negavo nello stesso tempo, finendo per fare
un gran guazzabuglio di realtà ed immaginazione, di fatti e sentimenti. Mi sembrava di
essere sottoposta ad una specie di interrogatorio, per stabilire in che percentuale
potessi essere considerata responsabile della patologia di mio figlio, perché io me lo
sentivo, lo sapevo, che i medici imputavo la colpa a me. Il mio stato d'animo era quello
di un imputato alla sbarra che deve difendersi con ogni mezzo ed a costo di qualsiasi
cosa. Ero braccata in un vicolo cieco, in un labirinto senza via d'uscita e dovevo per
forza trovare un modo per fuggire, altrimenti, lo sapevo, mi avrebbero stritolato. Per
tutti questi motivi, per quei brividi che mi correvano lungo la schiena, per quella
sensazione di sconfitta che mi attanagliava lo stomaco, urlavo la mia innocenza e mi
rivolgevo in modo aggressivo e maleducato a quella dottoressa che stava facendo solo il
suo mestiere e, non solo si guardava bene dal dare giudizi, ma addirittura cercava di
aiutarmi.
"In ogni caso lei deve dirmi cosa c'è che non va e se prevede che questo
bambino avrà degli handicap. Voglio sapere la verità. Assolutamente. " conclusi,
tutto d'un fiato ed in tono perentorio.
Sorrise. Il modo con cui mi guardò e quel suo risolino abbozzato a metà mi fece
sentire una mezza scema e mi fece vergognare di quella irragionevole tirata che avevo
appena concluso.
"Povera donna" mi aspettavo che mi rispondesse con modo compassionevole e
condiscendente, invece si rivolse a me con un tono duro, che mi lasciò di sasso:
"Quale verità vuole che le dica? La verità che vorrebbe sentirmi dire, o la
verità vera, qualsiasi essa sia?"
Mi mancò una risposta pronta. "Vede, dottoressa " ripresi, cercando di
giustificarmi per quel modo brusco con cui mi ero rivolta a lei poco prima "io credo
che non sopporterei il fatto che mio figlio non fosse normale".
"Signora, io non posso fare una diagnosi precisa, almeno per ora. Bisognerà
fare degli esami al bambino, alcuni molto sofisticati e forse non potremo lo stesso dare
un nome alla malattia di suo figlio, ma, vede, l'accettare più o meno bene l'handicap
dipende dalla concezione che si ha della vita".
"Ora questa stronza si mette anche a fare la filosofa" pensai fra me
mentre il sangue tornava a ribollirmi nelle vene e sentivo un vago sapore di bile salirmi
in gola "Non le basta fare la Cassandra, ora si mette anche a pontificare sul
significato della vita, questa cretina!". Ero a dir poco fuori di me. Quelle parole
erano una presa di giro bella e buona. Eravamo lì per parlare di medicina o di filosofia?
Delle sue lezioni potevo benissimo farne a meno.
Lasciai che la dottoressa prescrivesse una serie interminabile di esami e poi me ne
andai, con la certezza, in cuor mio, che avrei fatto un pacco di coriandoli con tutte
quelle ricette o, meglio ancora, le avrei usate al gabinetto. Mi sentivo furibonda,
demoralizzata, offesa, derisa. Stavo male, di un malessere fisico che mi faceva venire la
nausea e mi faceva girare la testa.
Intanto nel mio cervello continuavano a vorticare le frasi che erano state dette.
Ero convinta che non avrei sopportato l'idea che mio figlio potesse essere menomato in
qualcosa, ma poi mi chiedevo: e se così fosse, cosa faresti? Inghiottiresti un tubetto di
pasticche o lasceresti che il sangue sgorgasse dalle tue vene tagliate? Oppure ti
lasceresti andare sporca e puzzolente di vino, con gli occhi stralunati, accesi da una
luce di pazzia e di noncuranza per tutto ciò che non fosse il tuo dolore? Sì, la follia
si impadronirebbe della tua mente, si scaverebbe un varco fino al punto più remoto del
tuo cervello e ti rosicchierebbe le cellule una per una, le consumerebbe piano, con un
lento ed incessante logorio . La follia non la vedi, non la senti, ma sai che ce l'hai
dentro e ti porta sogni paurosi e pensieri di morte, ti regala facce brutte ed ostili, ti
incalza, ti immobilizza, ti fa sentire che questa tua vita è inutile e senza ragioni per
viverla.
Poi pensavo a mia nonna che ha visto un figlio morire a trent'anni, nel pieno della
giovinezza. Pensavo a mia madre, che ha avuto un bimbo strappato dalla culla. Eppure mia
nonna e mia madre non erano state inghiottite dal baratro che si era aperto sotto i loro
piedi. Avevano continuato a vivere, ridendo e piangendo, sopportando i dolori e godendosi
i momenti di gioia, amando. Se erano riuscite a sopravvivere loro, che avevano visto lo
strazio della morte, perché mai il mio cuore avrebbe dovuto lacerarsi a causa di un
dolore che era pur sempre dettato dalla vita? Qual è la dose di dolore che può uccidere
un uomo?
Sentivo che la mia mente cominciava a vacillare nel dubbio, ma il mio istinto di
conservazione continuava a tenermi saldamente ancorata alla certezza che si sarebbe
risolto tutto in una bolla di sapone. Tanta paura per nulla.
Cominciò il periodo più brutto di tutta la nostra esistenza. Facemmo a Tommaso
tutte le analisi diligentemente, così come ci era stato prescritto. Ormai avevamo
maturato la convinzione che era giusto andare fino in fondo, qualsiasi fossero stati i
risultati che sarebbero venuti fuori, ma purchè ci venissero date delle risposte alle
nostre domande sullo stato di salute di nostro figlio. Il non sapere, a questo punto, era
peggiore di qualsiasi sentenza.
All'inizio non venne fuori nulla di rilevante, tutte le analisi fatte risultavano
normali. Mi sembrava di ripetere la via crucis fatta all'ospedale, quando tutto risultava
"nella norma" e poi di "normale" non c'era un bel niente. Mi muovevo
come un automa da un gabinetto di analisi all'altro, da un ambulatorio all'altro, per
prendere appuntamenti su appuntamenti, quasi dispiaciuta ogni volta che mi davano un
risultato negativo, perché avrebbe significato continuare ancora a cercare.
Poi, durante un elettroencefalogramma, il quarto o quinto della serie, si
manifestarono delle convulsioni, o almeno così le interpretarono, in corrispondenza ad
uno spasmo motorio. Spasmi in flessione, li chiamarono, e decisero di iniziare una terapia
antiepilettica adeguata, per evitare che queste crisi danneggiassero ulteriormente il
bambino. Tommy, nel giro di pochissimo tempo, passò dal suo stato di agitazione e di
pianto perenne ad uno stato di semi-catalessi. Ora non piangeva quasi più perché le
medicine che prendeva lo facevano dormire per tutta la notte e anche per la maggior parte
della giornata. Quando mi alzavo la mattina, non avevo più gli occhi cerchiati per il
sonno perso e durante il giorno riuscivo anche a fare le mie faccende di casa con una
certa tranquillità. Certamente, fra un figlio che dorme anche dieci ore per notte ed uno
che urla in continuazione, la scelta è facile, ma è anche vero che un bambino sempre
assonnato e rincoglionito ha meno occasione di apprendere, non partecipa appieno alla vita
che si svolge attorno a lui e questo è negativo, specialmente se il bambino in questione
ha necessità più degli altri di essere stimolato.
Mi sentivo schiacciata da questa situazione, anche perché la scoperta
dell'epilessia e l'istituzione della terapia per combatterla, non aveva di fatto
modificato il quadro generale di Tommaso. Il bambino continuava a non muoversi, a non
sorreggere la testa, a non vocalizzare. Non era migliorato affatto, anzi il torpore e la
sonnolenza costantemente presenti avevano inibito anche quelle piccole manifestazioni di
vitalità che aveva mostrato inizialmente, quei suoi sorrisi ed i suoi sguardi, così
dolci e comunicativi. L'epilessia, ai miei occhi, si stava dimostrando semplicemente un di
più, a cui si stava dando un'importanza eccessiva a scapito di tutto il resto.
Più di una volta ho avuto la tentazione di smetterla con quelle odiose medicine e
di buttare tutto nel secchio della spazzatura, ma l'epilessia è una brutta bestia ed io
mi spaventavo solo a sentirla nominare. Per di più la dottoressa che seguiva Tommy era
convinta che queste crisi fossero molto gravi e continuava a ripeterci che potevano far
molto danno al bambino, se non venivano curate nella maniera giusta. Ma quale danno, visto
che mi sembrava di aver vicino non più un essere umano, ma una specie di vegetale che
dormiva 24 ore su 24? (..)
Uno dei consigli più frequenti che ci veniva dato in quel periodo era:
"Perché non portate il bambino da uno specialista vero, uno di quelli che hanno un
nome ed una chiara reputazione di esperto in questo campo? Potrebbe darvi un parere
importante e rispondere alle vostre domande!"
In effetti poteva essere un'ottima soluzione anche perché la dottoressa che seguiva
Tommaso per l'epilessia pareva che si fosse fossilizzata solo su quella e non si
preoccupava affatto degli altri problemi. Così decidemmo di prendere un appuntamento con
un professore che aveva la fama di essere veramente il migliore, una specie di luminare.
Se le competenze di un medico si misurassero in rapporto al tempo che si impiega a
prendere un appuntamento con lui o all'ammontare della sua parcella, sono certa che questo
non lo avrebbe battuto nessuno. Dopo aver passato ore al telefono nel giorno stabilito per
gli appuntamenti, riuscii finalmente a fissarne uno, e non era neanche a breve scadenza.
E' superfluo descrivere con quale trepidazione vivemmo l'attesa di quella visita
medica: tutte le nostre ansie ed i nostri interrogativi venivano a galla e ci sembrava che
la nostra vita intera dipendesse dal responso che ci avrebbe dato quel professore. Eravamo
così pieni di aspettativa che facevamo tra noi congetture su quello che ci avrebbe detto
e ci rassicuravamo a vicenda ripetendoci che certamente ci avrebbe dato dei buoni consigli
per recuperare al massimo questo bambino e non avrebbe deluso le nostre speranze. Ci
eravamo talmente caricati emotivamente, nei giorni precedenti, che la mattina
dell'appuntamento eravamo come due scolaretti che devono sostenere un esame, emozionati e
con il cuore che batteva a mille all'ora. Mi era perfino venuto il tipico mal di pancia da
stress, che sempre mi accompagna nelle occasioni più importanti della vita.
Ricordo una scala buia, interminabile, che ci portò all'ultimo piano di un
palazzone rinascimentale. Poi una sala di attesa che doveva servire più ambulatori
contemporaneamente, arredata in modo essenziale ed impersonale, con sedie di legno
appoggiate alle pareti e nel mezzo un tavolino su cui erano buttate riviste vecchie di
qualche mese, quasi a significare che bisognava aver pazienza, che l'attesa poteva essere
anche lunga. Ed infatti le cose non sembravano mettersi per il meglio perché le sedie
erano quasi tutte occupate da un'umanità freddolosa e preoccupata.
Quella stanza mi ricordava l'ambulatorio del vecchio medico di famiglia, da cui mia
madre mi portava quando ero piccola. Non mi piaceva quella sensazione di gelido e di
asettico che mi dava l'ambiente, così come non mi piaceva quell'uomo con i capelli grigi
che, quando entravo, mi dava uno sculaccione e poi si rivolgeva sempre e solo a mia madre
e parlava con lei anche dei miei mali.(..) Era strano che i fantasmi di quando ero bambina
tornassero a visitare la mia mente proprio ora, ma quel senso di disagio che mi stava
prendendo, ora come allora, mi rendeva inquieta e mi faceva dimenare sulla sedia. Per un
attimo pensai che da quella porta non potesse uscire che lui. Era inevitabile, era tutto
troppo uguale , le sedie, le pareti bianche, anche quelle persone che aspettavano con noi
mi sembravano le stesse.
Poi per fortuna, la porta si aprì, interrompendo bruscamente il corso dei miei
pensieri. Comparve un signore di mezza età, con addosso un camice bianco. Era il
professore che stavamo aspettando. Non somigliava affatto al vecchio medico condotto,
anche se aveva, come lui, i capelli grigi e gli occhiali sul naso, ma quella strana
espressione sul volto.... quel sorriso così cordiale ed inequivocabilmente falso...Anche
l'ambulatorio era arredato in modo assolutamente spartano, con mobili in metallo di serie,
tutto laminato bianco ed alluminio, non un quadro alle pareti, né una tenda elle
finestre. Un obitorio.
E lui, che attore meraviglioso! Con il suo sorriso perennemente stampato sulle
labbra, come di uno che interpreta con grande professionalità una parte che gli è stata
assegnata, ma in modo del tutto distaccato, senza metterci nulla di sé. Non so perché,
forse mi ero autosuggestionata, ma l'istinto mi disse che non dovevo aspettarmi nulla di
buono da quella persona. Lì per lì mi venne anche voglia di andarmene, una voglia
irrazionale di fuggire da quella stanza dove non c'erano tracce di vita. Se almeno ci
fosse stato un libro sugli scaffali, un segno qualsiasi della presenza di una persona che
in quella stanza viveva, respirava, anche un posacenere pieno avrebbe avuto un
significato. Invece l'aria era sterile e nello stesso tempo troppo pesante, l'indifferenza
era palpabile e sconfinava quasi nell'ostilità. Ma riflettendo sul fatto che mi ci era
voluto più di un mese per riuscire a varcare quella porta arrivai alla conclusione che
non era il caso di farsi prendere da ridicole paturnie, quindi era meglio soprassedere a
quelle che probabilmente erano solo esternazioni della tensione nervosa che avevo
accumulato da giorni.
L'illustre professore, quando vide Tommaso, senza scollarsi dal viso il suo sorriso
affettato, lo distese sul lettino, gli tolse scarpe e calzini e cominciò ad osservare i
piedini. Guardava attentamente tutte le linee del piede e passava con un dito sulla
pianta, graffiandola e provocando un riflesso che portava il bambino a ritrarre le dita su
se stesse, come fossero piccoli artigli. Continuò più volte con questa specie di test,
poi fece fare qualche piccolo movimento a gambe e braccia. Osservò come Tommaso
scalciava, usando le gambe sempre nello stesso modo, come due leve azionate
meccanicamente, prima il piede, poi la gamba flessa, infine estesa.
Noi, dopo un "Buongiorno" iniziale eravamo rimasti ammutoliti, lui finora
non aveva aperto bocca e sembrava molto concentrato su queste manovre che stava compiendo
con le gambine di Tommy. Continuava però a sorridere e questo ci incoraggiava abbastanza,
anche se ad un certo punto mi venne il dubbio che avesse una paralisi facciale, perché
non cambiava mai espressione. Per un senso di rispetto e di educazione gli lasciammo fare
la sua visita senza interromperlo con le nostre domande, ma rimanendo nel contempo
abbastanza sconcertati dal modo con cui stava esaminando nostro figlio. Mi fece
l'impressione di trovarmi davanti ad un santone, più che ad un medico. Lo immaginai
vestito da guru, con un bel turbante in testa, nell'atto di "leggere" il piede a
mio figlio.
Certamente non fece una visita come ci saremmo legittimamente aspettati e non nel
senso tradizionale del termine. Guardò solo piccoli particolari, senza farci domande
specifiche sulla storia del bambino. Poi finalmente sentimmo il suono della sua voce. Ci
liquidò con pochissime e categoriche parole, una sentenza vera e propria:
"Questo bambino non camminerà mai, non avrà l'uso delle mani, non parlerà.
Probabilmente non ci vede né ci sente bene". ("Tu hai il cancro e morirai
domani" se avesse detto così non sarebbe stato lo stesso?)
Da quello che lui poteva constatare questo era un caso gravissimo, probabilmente
c'era una malformazione cerebrale che si sarebbe diagnosticata con esattezza solo con una
TAC, ma che comunque comprometteva irrimediabilmente le funzioni di Tommaso.( Come dire:
peggio di così si muore.)
Fu una sensazione fisica, una fitta acuta, una lacerazione così forte che mi fece
trattenere il respiro. Poi la vista si annebbiò e mi sentii vacillare, una vertigine, una
nausea improvvisa, infine, come già era accaduto quando avevo ricevuto dai medici delle
mazzate di questo tipo (era già successo in seguito alla visita del pediatra e della
neuropsichiatra infantile) dentro di me cominciò a montare una furia incontrollabile, si
scatenò una voglia improvvisa di saltargli al collo e stringerglielo così forte da
fargli uscire gli occhi dalle orbite.
" Non sono il tuo cane! Non puoi trattarmi così!" avrei voluto urlargli
in pieno viso, ma poi, proprio come un cane rabbioso avrei azzannato la carne flaccida,
affondando i denti con un sadico piacere. Mi vennero in mente tutte le offese più
colorite del mio dialetto, tutti gli epiteti più ingiuriosi del vocabolario. "No! -
era l'unica cosa logica che riuscivo a pensare - non è possibile che stia dicendo la
verità! Quest'uomo è un criminale, un pazzo furioso nocivo per il suo prossimo!"
Quale mai illuminazione divina lo ispirava, per dirci che non c'era nulla da fare? Come
poteva sapere quale sarebbe stata l'evoluzione di mio figlio solo guardandogli i piedi?
Se avessi portato Tommy da una chiromante e gli avessi fatto leggere la mano avrei
avuto le stesse probabilità di successo, con la differenza che la zingara, probabilmente
per non perdere il cliente, mi avrebbe dato un responso più favorevole mentre lui, che
era chiamato a fare una consulenza una tantum poteva permettersi anche il lusso di fare
predizioni funeste. E poi lui era "il professore", che dall'alto della sua
scienza infusa sparava cazzate da centomila lire l'una e continuava a sorridere con quella
faccia da imbecille che strappava ceffoni dalle mani.
Era arrogante e brutale. Nessuno gli chiedeva una partecipazione emotiva, né di
dirci una menzogna che sarebbe stata offensiva nei nostri confronti, ma a volte può
essere opportuna una verità attenuata nella sua crudezza, si deve valutare se sia giusto
o utile riferire chiaramente una diagnosi che nasconde dietro di sé una condanna
irrevocabile. Invece lui con tre parole ci aveva fatto crollare in testa il soffitto di
quella stanza, aveva cancellato dal nostro mondo ogni senso di sicurezza e di raziocinio.
Ci aveva scippato la voglia di vivere. Aveva annientato il nostro futuro di genitori
felici.
Le parole sono importanti. Le parole hanno un loro significato ben preciso e per
questo vanno misurate attentamente. Pensai a tutto il fiato che si spreca
sull'opportunità di dire la verità al malato e su come dirla. Certamente il nostro
professore non si occupava troppo di bioetica.
Aveva assolutizzato la medicina come scienza e professione, dimenticando il suo
aspetto di missione che non può essere separata dal grido della sofferenza umana.
Carlo ed io ci guardammo sconsolati. La ruga che aveva sulla fronte era
profondamente scavata e sulle tempie due vene azzurre pulsavano visibilmente. La mia furia
interiore, nell'impossibilità di esplodere come una granata, nell'incapacità di
esprimersi con parole adeguate ai miei pensieri (nei miei cromosomi c'è troppo rispetto
per gli altri e troppa buona educazione , purtroppo) si trasformò in una terribile voglia
di piangere e mi sarei presa a schiaffi perché ancora una volta riuscivo ad esternare il
mio senso di frustrazione e la mia rabbia solo con un gesto di debolezza psicologica.
Gli occhi mi si riempirono di nebbia e l'anima fu pervasa dalla palpitante tristezza
di chi ha scoperto un tradimento. Quel filo di speranza che ci accompagnava quando eravamo
entrati in quell'ambulatorio ora penzolava spezzato dall'uragano che ci aveva investiti e
noi, chini sotto la furia di quell'uragano, con le schiene incurvate per non soccombere
alla violenza del vento, uscivamo da quella stanza con addosso solo la consapevolezza di
essere assolutamente ed irrimediabilmente soli con il nostro fardello da portare, e che
avremmo dovuto sopportare la nostra solitudine per molto tempo.
- Daniela Nardini rosicada@tin.it
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