Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Chiara Deregibus
Con questo racconto ha vinto il terzo premio ex aequo al concorso
Fonopoli - Parole in movimento 2003, sezione narrativa

Un inverno
 
 
Il portone fu il primo ad accoglierlo. Non era cambiato. Era verde smeraldo. Inconfondibile. Decise di entrare. Si immerse. Trattenne il respiro. Notò che il giardino era ordinato, proprio come l'aveva lasciato quel giorno, e ciò gli aprì il cuore e i polmoni.
Il sentiero conduceva all'entrata principale. Ne conosceva tutte le rughe. Quante corse, le ginocchia portavano ancora i segni della battaglia. Senza pensarci accarezzò il gomito, lì, sotto la giacca, tra le pieghe ancora assonnate e distratte della camicia. Una cicatrice. Il ricordo visse in quell'istante davanti a lui.
Un bambino con la spada di cartone più simile ad una sciabola fronteggiava un nemico invisibile molto temibile. Nonostante ciò stava per batterlo. Ma il terreno, insidioso, premiò l'avversario e fece inciampare l'altro che assaggiò il triste prezzo della sconfitta e l'umiliazione di cadere davanti al vincitore.
L'immagine così vivida, svanì risucchiata dall'ombra dell'enorme cipresso situato ad ovest rispetto all'imponente casa padronale. L'eco prima di sparire per sempre si smorzò e divenne frase: "Ti voglio bene. È passato molto tempo. Potrai perdonarmi?"
Una simile grazia non poteva essere perorata senza conoscere l'esatto valore. Un gesto responsabile era la sintesi di un percorso sofferto. Solo ora era certo che il distacco era stato necessario. Aveva sofferto.
Lei aveva condiviso in silenzio. Con dignità aveva riservato le lacrime alla solitudine della sua camera. Il giorno della sua partenza lo salutò dalla finestra, gli mandò un bacio freddo perché filtrato dai vetri. Ritornò al presente.
Il momento stava arrivando. Il sentiero polveroso stava annunciando il suo arrivo. Il passo era composto. Il respiro danzava.
La pesante porta trafisse l'oscurità nella quale versava la casa.
Un senso di vertigine lo scosse. Tutto era avvolto dal buio.
Era impossibile distinguere. Gli occhi non riuscivano nel compito che la mente continuava a imporre. Quel volere rimase sospeso, incompiuto.
Lentamente serpeggiò un'idea. Tutto poteva essere cambiato. Sarebbe stato capace di reggere ad un trauma simile? No.
Il tempo scandito dai rintocchi sordi della pendola, non sarebbero riusciti a scalfire quel luogo. Era indistruttibile e chi vi abitava era invincibile. Certo gli oggetti cambiavano, l'usura ne decretava la fine, essi venivano sostituiti da altri, ma gli uomini, no. Ebbe un'incertezza. Amaramente constatò che sono più fragili se la fiamma che li consuma è la passione. L'amore. Il ricordo. Un senso di nausea si diffuse rapidamente nel corpo.
Lo sguardo vacillò nel vuoto, cercò tra i contrasti più bui un appiglio ma le mani restarono paralizzate.
Era un fantoccio dai fili legati. un formicolio lo fece sobbalzare. Le scosse prima dolci si facevano nervose.
Capì di essere l'epicentro del terremoto. Vibrazioni ravvicinate insistevano, premevano sulle tempie. L'ambiente mutava.
Le pareti, ora le vedeva, trasudavano tutta la sua storia, il suo vissuto, colavano come vernice fresca dal soffitto e scivolavano giù sul pavimento paludoso. Un'enorme goccia cadde sulla fronte. Era atterrito. Un urlo restò congelato in quella assenza di tempo. Sentì la sua corsa. Il calore avvolgente. Passò sul naso e in quell'attimo si spezzò in due fiotti traditori. Quando poté urlare inghiottì il liquido. Penetrava nell'intimo.
Decise di abbandonarsi alla musica. Guardò le mani che lentamente prendevano una colorazione rossastra.
Ora il suo essere si era fuso con ciò che era stato. I ricordi non potevano più nuocere perché erano divenuti parte del suo essere. Silenzio.
Svenne. Una carezza lo svegliò. Riconobbe ad occhi chiusi sua madre.
Finalmente era a casa.

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 Ins. 17-01-2004