- Se
una notte d'inverno in Valle Santo Giacomo un
viaggiatore.....
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Caro amico
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se nella tarda primavera del 1788, cercate di
ricordare, fu esattamente la sera di venerdì 30
maggio, Vi trovavate per caso a cenare alla Locanda
dei doganieri a Montespluga, sarete certamente stato
tra i commensali del giovane poeta tedesco Wolfgang
von Goethe che, attraverso lo Spluga ed i territori
grigioni, rientrava in Germania dopo un viaggio ed una
permanenza in Italia durati due anni.
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Il 30 maggio era stata una giornata insolitamente
calda per l'epoca; ricordate come ancora scintillavano
i ghiacciai ? e come lo spettacolo impressionò
fortemente il poeta ? Sono quasi certo che Voi
eravate tra gli ospiti quella sera, dal momento che
so che tra i cavallanti e le osterie della Valle Santo
Giacomo avete per anni cercato l'ispirazione per
comporre le vostre opere arcadiche e pastorali, andate
a ruba, immagino, se, consentitemi di dirlo con
bonaria ironia, perfino a Venezia non se ne trova
copia. E certo, sorrido, da Voi che da anni vivete con
moglie e ben cinque figlie, avrebbe rischiato una
buona dose di legnate il poeta se avesse voluto
guastare anche quella cena con sciocche affermazioni,
che anche recentemente ha ribadito, come quella che:
"l'eterno femminile ci conduce verso l'alto". Ma ben
altre sono le eresie di cui dovrò
parlarvi.
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La storia documenta come certa al tavolo della
comitiva tedesca la presenza dell'Illustrissimo Signor
Commissario grigione di Chiavenna, il Conte Ercole
Salis, dell'allora Capo della Valle Santo Giacomo, il
Ministrale Antonio Guanella e di un nutrito gruppo di
notabili; non escludo vi fosse, anzi lo considero
certo, anche vostro cugino, il Cavaliere Bernardo
Falcinelli, che doveva essere, anche se mie
approfondite ricerche non sono pervenute a chiarirne i
motivi, un personaggio di rilievo in Valle; lo deduco
da prove indirette: la presenza di Bernardo viene
indicata da diversi storici quasi come prova
dell'importanza dell'evento riferito. La sua
partecipazione come garante ad un rogito stipulato
dall'abate Foppoli nel 1871, la sua comparsa alla
festa di inaugurazione della cappella di San Filippo a
Chiavenna l'anno precedente. A conferma della
serietà e dell'importanza della scuola fondata
a Sondrio nel 1750 dei monaci di Disentis, uno storico
cita tra gli alunni Bernardo, come "testimonial" di
rilievo. Non sono sicuro invece della presenza al
tavolo dei viaggiatori dell'abate Foppoli, illustre
letterato vissuto per tredici anni in quel periodo a
Campodolcino; l'abate, geniale, vulcanico, forse anche
un poco millantatore, avrebbe certamente riferito
della sua conoscenza con il Goethe.
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Goethe era sbarcato la sera precedente alla Riva
di Novate; il lago di Como e il fiume Adda erano
all'epoca navigabili, con piccole imbarcazioni, fino a
quel punto. Aveva poi raggiunto Chiavenna per poi
risalire la Valle Santo Giacomo, affrontare lo
spaventoso passaggio del Cardinello, fino alla piana
del Suretta dove ( lo descrivo qui con alcuni miei
versi, successivamente attribuiti ad un Professore
bolognese che villeggiò tra questi monti
):
- perdevasi
un piano, brullo tra calve rupi,
- quasi
un anfiteatro, ove elementi un giorno
- lottarono
e secoli.
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Anch'io, molti anni prima, percorsi, era la prima
volta, la Valle. E il viaggio avvenne, come Vi
riferirò, in circostanze davvero più
drammatiche di quelle del faticoso ma tranquillo
passaggio del poeta. Perché ora voglio giungere
al punto centrale della mia vicenda.
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Se ve lo chiedessero Voi potreste, a ragione,
riferire che sono nato a Venezia 64 anni fa, che mai
conobbi mio padre, personaggio forse ignoto anche alla
mia stessa Santa mamma, e che a Venezia, prima di
essere accolto all'Accademia della pittura, dove ebbe
inizio la mia carriera artistica, oggi non priva di
fama, a Venezia, dicevo, svolsi nella giovinezza i
lavori più umili, dallo sguattero, al
barcaiolo, fino al mestiere dello svuotacessi. Della
mia prima infanzia, ed è doloroso, ho
pochissimi ricordi ed anche mia madre quando domandavo
si mostrava stranamente reticente. A 25 anni venni
ospitato per alcuni mesi presso la Casa dei pazzi alle
Fondamenta nuove di Venezia a seguito, secondo mia
madre, di una violenta ed improvvisa febbre cerebrale
ma, a mio parere, in quella Casa, più custodito
che curato, venni internato per opera di qualche
delatore o qualche spia, personaggi che all'epoca
nella Serenissima Repubblica pullulavano in ogni calle
e dietro ogni colonna di piazza San Marco. Dopo di
allora secondo molti non sarei più stato la
stessa persona. Mi si incontrava a girovagare svagato,
sempre intento a rimuginare strane leggende.
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Come quella antica che narra del viandante che,
percorrendo un sentiero lungo il muro di cinta di una
nobile villa, vide pendervi una catena d'argento;
incuriosito volle aggrapparvisi e in tal modo
azionò una diabolica macchina: la catena,
attraverso oscuri cunicoli, passaggi, e lunghi
sotterranei, agì su una botola che, dopo molti
anni ed a molta distanza da quel luogo, si aprì
ai piedi del viandante inghiottendolo e precipitandolo
direttamente verso l'inferno.
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Ma qualcosa di simile accadde anche a me. La
catena fu il lucido battente di una porta che azionai
per errore una mattina in una calle di Venezia; mi
aprì una giovane donna, si chiamava Lucrezia,
che da quel giorno conobbi ed iniziai a frequentare.
Lucrezia era la figlia di un mercante tedesco,
più precisamente grigione, originario di Coira,
che trascorreva lunghi periodi a Venezia per affari.
Nacque un grandissimo amore fatto di incontri
clandestini e di lunghi silenzi da parte di Lucrezia.
La fanciulla e la sua famiglia avevano da qualche
anno aderito, e con convinzione, all'eresia luterana
che vuole venga rifiutata l'autorità del Papa e
della nostra Romana Chiesa e che consegna al fedele ed
a fanatici predicanti una fede fatta di arbitrarie
interpretazioni della Bibbia; "devolution" definiscono
beffardamente i riformati inglesi questo diritto di
prelevare ciò che si vuole dalla Bibbia,
passato dalla Santa Sede di Roma ad ogni piccolo
monarca. Anche Lucrezia dalla Bibbia non si separava
mai. Un giorno Lucrezia mi comunicò che presto
insieme al padre sarebbe rientrata a Coira e disse
che, con il consenso dei genitori, avrebbe finalmente
acconsentito a sposarmi. Ma questa notizia, che
avrebbe dovuto rendermi il più felice degli
uomini, mi gettò invece in una profonda
angoscia, dal momento che la condizione irrinunciabile
che mi veniva posta era quella che, prima del
matrimonio, abbandonassi la Fede dei Padri e aderissi
alla religione riformata. Avrei dovuto cessare di
essere un "papista", e Voi sapete con quale spregio
venisse dagli eretici pronunziata questa parola,
cessare di obbedire "all'uomo che, vestito di bianco",
regna nella Roma corrotta e ladrona; insomma per avere
Lucrezia avrei dovuto aderire all'eresia.
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Voi, caro amico, siete il più adatto a
comprendere la drammaticità della mia
situazione, Voi che vivete in quella Valle che sta al
confine non solo tra le nazioni, ma tra la Chiesa di
Roma e la riforma, tra la Verità e
l'eresia.
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Nei giorni successivi la ragazza ed il padre
lasciarono Venezia per ritornare nella loro casa di
Coira. Coira era all'epoca quasi interamente una
città "riformata", da anni la celebrazione
della messa vi veniva proibita e il Vescovo di Santa
Romana Chiesa viveva come un recluso e privo di
autorità dentro il proprio palazzo.
Iniziò per me un periodo di tormenti, incerto
su quale decisione prendere. Giunsi ad odiare
Lucrezia, pur continuando a desiderarla, e mi sentivo
in quei momenti come quei prigionieri delle epoche
antiche condannati ad essere legati ancora vivi ad un
morto. Finché dopo qualche mese, per sottrarmi
al supplizio, decisi che avrei accondisceso alle
condizioni dell'amata: avrei perso l'anima per sposare
Lucrezia. Qualche tempo dopo ebbi occasione di sapere
che dei nobili veneziani, guidati dall'ambasciatore
del Doge presso la Svizzera, si sarebbero recati a
Ginevra, passando per Coira, in missione presso i Reti
e chiesi di potermi unire a loro nel
viaggio.
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Partiti il 14 novembre da Venezia, avremmo dovuto
attraversare le Alpi superando il valico dell'Albula,
ma giunti ai piedi di quel passaggio, le imponenti
nevicate di quei giorni ci costrinsero a ridiscendere
la Bregaglia e a soggiornare alcuni giorni a
Chiavenna. Quando il tempo divenne più mite
decidemmo di proseguire per Coira valicando lo Spluga,
percorrendo la Valle Santo Giacomo. Eravamo partiti da
Venezia in quattro: l'ambasciatore, il suo segretario,
un nobile veneziano addetto agli affari militari ed io
stesso. A Chiavenna un abitante di quella valle, la
Valle Santo Giacomo, esperto dei luoghi, si
offrì di guidarci nel viaggio. Il tratto che da
Chiavenna conduce a Campodolcino non presenta grandi
difficoltà per i viaggiatori ma, a causa delle
forti nevicate, ci accingemmo a percorrerlo a piedi,
perché troppo ostacolo avrebbero incontrato i
cavalli nella neve già alta.
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Ma ascolta il punto principale della mia storia.
Devi sapere che Lucrezia, tra gli altri ambigui
influssi che aveva potuto esercitare su di me, mi
aveva mesi prima regalato il libro dei racconti di uno
scrittore tedesco, un certo Hoffmann; in uno di
questi racconti Hoffmann narra di un monaco,
dall'animo tormentato e dal carattere incline all'ira
ed alla sensualità, che incontra un giorno il
proprio Doppio, cioè il proprio Sosia ( tutti
al mondo ne avrebbero uno ) e come questo incontro lo
conduca verso la completa rovina. Perché devi
sapere che, secondo antiche tradizioni dei popoli
nordici, ciascuno di noi ha, in qualche parte del
mondo, un Doppio, un Altro Se stesso, perché
quest'espressione bisogna usare anche se reca offesa
alla logica, insomma un Sosia; e, fatto più
inquietante, e che molti ancor'oggi prendono sul
serio, che l'incontro con il proprio Doppio
rappresenta il funesto e sicuro presagio della propria
morte. Oggi comprendo con quanta e giusta lungimiranza
il Santo Uffizio avesse posto le opere di codesto
Hoffmann nell'Indice dei libri proibiti, ma allora
l'idea aveva esercitato una forte suggestione su di
me.
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Perché questo doveva accadermi. Dopo breve
tempo trascorso in compagnia del uomo che si era
offerto di farci da guida, notai con sgomento
impressionanti caratteri di somiglianza tra me e il
nostro nuovo compagno. L'uomo era certo più
anziano di me, intorno ai cinquant'anni, con una
corta barba, che io allora non portavo, e con un volto
affilato che poteva, quando lo fissavo, darmi
l'illusione di osservare me stesso invecchiato dentro
uno specchio. Anche l'ambasciatore notò ridendo
la straordinaria somiglianza e mi chiese
grossolanamente se mia madre avesse per caso
frequentato in passato quelle valli.
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Facendoci largo tra imponenti masse di neve, dopo
un intera giornata di cammino, giungemmo a
Campodolcino dove, ospiti dell'abate Foppoli, amico
dall'ambasciatore, soggiornammo anche il giorno
successivo in attesa che le condizioni del tempo
migliorassero. In quella giornata, vincendo
l'inquietudine che la straordinaria somiglianza con il
personaggio mi suscitava, rimasi a lungo seduto nella
taverna a parlare con la nostra guida. Abitante di
quelle valli, aveva molto viaggiato e conosceva bene
Venezia e, fatto strano, conosceva particolari della
città che, se non a me solo, a pochi credevo
potessero essere noti.
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Quella notte fui colto da violenti accessi di
febbre e la mattina successiva, quando l'ambasciatore
decise di riprendere il viaggio, la nostra guida
rifiutò di condurre anche me che ero troppo
debilitato. Il piccolo gruppo partì da
Campodolcino: i tre veneziani e Giovanni, che
così si chiamava il mio Sosia (a questo punto
posso ben definirlo così), s'incamminarono
verso il difficile passaggio del monte Cardinello che
conduce al successivo gioco dello Spluga. Il primo
tratto tra Campodolcino ed il villaggio di Isola
è solo in lieve ascesa e non presenta
difficoltà. Verso mezzogiorno uno spaventoso
boato attraversò tutta la Valle; un rumore ben
noto ai valligiani: quello di una immensa massa di
neve che doveva essersi staccata dai pendii della
montagna. Il giorno successivo il primo dei corpi dei
miei compagni, quello dell'addetto militare, venne
riportato in paese; tutti erano stati travolti
dall'imponente slavina. Dopo due giorni tutti e
quattro i viaggiatori riposavano nella cripta della
Chiesa di Campodolcino.
- Ma,
mentre a me ed ad altri erano ben noti i tre
veneziani, nessuno disse di poter riconoscere colui
che aveva detto di chiamarsi Giovanni e di essere un
abitante ed un'esperta guida dei luoghi. Tuttavia un
uomo con questo nome, dopo una breve ricerca condotta
dall'Abate, risultò inscritto nei registri
della parrocchia; un nome ed un cognome per la
verità molto diffusi nella zona. Il Giovanni
registrato negli archivi parrocchiali risultava morto
da oltre vent'anni e la data della sua nascita era
indicata , mio caro amico lo avrete già
sospettato, nel mio stesso giorno, mese ed
anno.
-
Non raggiunsi mai Coira. Rientrai a Venezia, non
rividi mai più Lucrezia e ritornai alle
pratiche della mia fede. Ma da allora in quella Valle,
giudicatemi pure pazzo, sono convinto di essere nato,
e sotto quella terra coperta di neve ho già
dato disposizione di essere sepolto.
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Tra le bizzarre teorie verso le quali Lucrezia
aveva cercato di farmi suo compagno, mi colpì
quella di un luterano tedesco, davvero il peggiore,
certo Jacob Bhme, considerato eretico dagli
eretici stessi, che aveva scritto che Dio creò
il mondo "per meglio conoscersi"; un gesto, la
creazione, del tutto arbitrario, che avrebbe potuto
anche non essere, e che Dio creò il mondo e
l'uomo "perché si sentiva troppo solo".
Orribile eresia. Ma poi penso a mio padre che mi
generò per errore, ma poi fini con l'amarmi.
Poiché oggi ritengo più probabile che il
mio Sosia fosse in realtà il mio sconosciuto
padre e la comune data di nascita solo un errore, di
pochi e trascurabili anni nell'infinito numero dei
secoli, e frequente nei disordinati registri di quelle
povere parrocchie di montagna.
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