Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Lenio Vallati Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso di Scrittura Creativa Lella Razza
«Yasmin»
Stava iniziando il nuovo anno scolastico. Appena entrato in classe, cercai subito di accaparrarmi il compagno migliore che mi sarebbe stato accanto durante tutta la seconda elementare. La bambina dai capelli castani, carina, che avevo visto all'ingresso, stava già seduta in prima fila accanto a Luca. Io non ero come lui. Luca era alto, biondo, snello, io invece ero troppo basso, tozzo, con due braccia robuste che avevano il solo pregio di farmi rispettare da tutti. Ma ero un bambino buono, non avrei fatto del male a una mosca. Cercai di individuare allora un compagno intelligente, che mi sarebbe stato utile nel caso avessi avuto qualche difficoltà nello studio. Purtroppo i miei compagni della prima elementare li avevo persi quasi tutti. Ero stato bocciato. Quello alto con gli occhiali dava l'aria di essere un piccolo genio matematico. Niente. Aveva già trovato un compagno. Allora mi sedetti nella fila di fondo e aspettai che fosse il caso, o la provvidenza a scegliere per me. Erano entrati quasi tutti e mi trovavo ancora solo. Sembrava che nessuno mi volesse, quando ad un tratto sentii come un sibilo alle mie spalle: «Posso?». «Certo» risposi senza voltarmi. Come avrei potuto impedire a chiunque di prendere posto vicino a me? Poi la vidi: capelli nerissimi, occhi azzurri, la pelle olivastra. Non mi riuscì di chiederle come si chiamava. Almeno non per quel mio primo giorno di scuola. Non che non mi piacesse, tutt'altro. A volte, però, quando siamo accanto a persone di razza diversa dalla nostra siamo presi da una titubanza eccessiva come se rimanessimo attanagliati da ciò che non si conosce. Fu lei che al terzo, quarto giorno di scuola, non ricordo bene, mi chiese come mi chiamavo. «Enrico» risposi, aggiungendo subito dopo, quasi a scusarmi «non è un bel nome». «È bellissimo, invece» mi rispose. «E tu?» ebbi la forza di chiederle. «Yasmin». Non avevo mai sentito un nome così bello. Più che un nome sembrava un sussurro, un battito d'ali, il profumo di un fiore. «Significa fiordaliso, in arabo» mi precisò lei. Da quel giorno cominciammo a parlare sempre più spesso. Le chiesi dove abitava, perché era venuta a vivere in Italia, se aveva nostalgia della sua terra lontana. Un giorno tirò fuori dallo zaino un cartoccio che emanava uno strano profumo. «Ne vuoi?» mi chiese. Io risposi subito di no, un po' per timidezza e anche perché temevo che ciò che mi offriva non mi piacesse. Ci rimase male al mio rifiuto, come se non mi fidassi di lei. Così la mattina seguente fui io a chiederle «Me ne dai un po'?». Non era male, anche se non riuscii a decifrare cosa contenesse. Mia madre mi dava sempre due fette di pane con burro e marmellata a colazione. Ne offrii a Yasmin. «Buono» mi disse convinta. Diversamente dall'anno precedente, a scuola andavo abbastanza bene. Seguivo con attenzione le lezioni e riuscivo a prendere ottimi voti, soprattutto in matematica. Talvolta sorprendevo Yasmin nell'atto di copiare. Io all'inizio fingevo di arrabbiarmi, ma poi la lasciavo fare. «Stà attenta,» le dicevo «anche per questo ci vuole intelligenza. Fà qualche passaggio in più, cancella ad arte qualche numero, altrimenti la maestra ci annulla il compito a tutti e due». Se mi chiedeva qualche spiegazione facevo del mio meglio per aiutarla. Man mano che i giorni passavano mi accorgevo però che tra me e gli altri miei compagni si era eretto una specie di muro. Mai che mi chiamassero per giocare a pallone con loro, addirittura non mi rivolgevano più la parola se non vi erano costretti. Quando, durante l'ora di ricreazione, io e Yasmin ci scambiavamo la merenda e parlavamo insieme delle cose più varie, li sentivo passare accanto come se facessero finta di non vedermi e parlottavano tra di loro a voce bassa. Io cercavo di carpire loro qualche parola, ma riuscivo a interpretare di quel sommesso brusio solo l'ultima, Ôaraba'. I miei pomeriggi li trascorrevo sempre da solo a studiare. Non che me ne importasse molto. Successe all'improvviso che mi ammalai. Una mattina di dicembre mia madre mi annunciò che avevo quaranta di febbre. «Non puoi andare a scuola in queste condizioni». «Ma come...» protestai io. Poi ricaddi stanco sulle lenzuola sudate. Mi toccai la fronte. Bruciavo. Yasmin resterà sola stamani, pensavo. Stetti quasi una settimana a casa malato. Al mio rientro mi sarei aspettato rallegramenti da parte dei miei compagni, pacche sulla schiena per la ritrovata guarigione! Niente. Nessuno mi rivolse la parola. Era come se non esistessi. Andai di corsa nell'ultima fila. Yasmin non c'era. Chiesi notizie di lei ai miei compagni, alla maestra, alla custode, ma nessuno mi seppe dire nulla. In segreteria venni a sapere che mancava da scuola da diversi giorni. Sapevo all'incirca dove abitava. Un po' fuori mano, dove tra alti ciuffi di erba incolta si ergevano come giganti enormi blocchi di cemento armato. All'ultimo piano un cognome conosciuto, il suo. Venne ad aprirmi suo padre. Per niente intimidito gli chiesi se potevo parlare con la figlia. Finalmente, Yasmine! «Cosa ti è successo? Perché non vai più a scuola? Sei malata?». «No» mi rispose lei «non voglio più entrare in quella classe. Mi prendono in giro, mi chiamano sporca araba...». «Da quando?». «Da quando ti sei ammalato. Mi hanno pure messo le mani addosso...» mi disse tra le lacrime. «Devi tornare, Yasmin,» le dissi deciso «lo devi fare». «No» insistè lei. Ma io non mi detti per vinto. «Devi tornare a scuola, Yasmin» le ripetei ancora. «Non voglio che mi prendano in giro, che offendano la mia gente» «Devi tornare, Yasmin. Devi farlo». «Per quale motivo?». Non riuscivo neppure io a trovarne. Le avrei voluto rispondere che forse aveva ragione lei, che faceva bene a starsene protetta nella sua casa, ma non mi detti per vinto. «Fallo per me, Yasmin. Ho bisogno di te». Il mattino seguente nessuno, come sospettavo, osò darle noia o prenderla in giro. Capii che finché stava con me era protetta. Nell'intervallo mi avvicinai alla cattedra. Con una voce che non mi riconoscevo dissi , rivolto alla classe:- «Badate bene, chiunque di voi molesta Yasmin dovrà vedersela con me, intesi?». Le mie braccia poderose dovevano essere molto convincenti. No, non ero bello come Luca, ma possedevo una dote che valeva cento volte la sua bellezza. Tutti i miei compagni annuirono, e annuì anche la maestra che fino ad allora aveva tollerato fin troppo quella situazione. Di lì a qualche giorno mi invitarono a far parte della nuova squadra di baseball. Una domenica venni invitato addirittura ad un compleanno. Prima di andarci pretesi ed ottenni che ci fosse anche Yasmin. Come ero cresciuto! Mi sentivo decisamente migliore dell'anno precedente, avevo fatto progressi in molte materie ma soprattutto avevo imparato la cosa più importante, il rispetto per il prossimo. Tutti ne abbiamo diritto, indipendentemente dal colore della pelle o dalla fede religiosa. Adesso Yasmin è un fiordaliso appena sbocciato. Ha sedici anni, un sacco di amici e sorride felice alla vita. Frequentiamo entrambi la seconda superiore ed è ancora la mia compagna di banco. A volte le chiedo se si rammenta di quando voleva abbandonare la scuola. Lei mi guarda con aria sorpresa, sgrana quei suoi profondi occhi azzurri e mi risponde ridendo: «Quando è successo? Non ricordo!».
Lenio Vallati
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Lella Razza 2007
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Ins. 01-04-2008