SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI
affermati, emergenti ed esordientiHome page di
Marcello Curti
- Marcello Curti ha fatto giornalismo da professionista per quarant'anni, risalendone il 'cursus honorum' da giovanissimo aspirante redattore a maturo direttore responsabile. Dopo il giornalismo scritto, ha fatto tre anni e mezzo di esperienza in quello parlato a Radio Uno della Rai. Ha trovato il tempo (spesso la notte...) di scrivere qualcosa che durasse un po' più di un giornale.
- Ha pubblicato cinque libri: «Ogni casa è la mia casa» (reportage di un viaggio in Israele); «Siamo fatti così» (fatti veri dell'Italia d'oggi); «Mai scendere dalla montagna» (fantapolitica italiana, prefazione di Ennio Ceccarini, copertina di Massimo Bucchi); «Sidonia» (romanzo); «Quando eravamo brava gente» (sedici racconti molto italiani, postfazione di Luigi Magni).
- Ha scritto molti racconti, sette volte vincendo premi.
- È nato a Roma e ci sopravvive solo perché si è trasferito in estrema periferia, essendo il centro della una volta 'caput mundi' diventato molto ... Kaputt.
- Continua a scrivere cercando, con fatica ma con ottimismo disperato, di non dimenticare gli ideali del passato, felice quando scopre, ancora oggi, tracce di umanità negli italiani.
- E per il futuro... Insciallah!
- Cammina, Fàtima, cammina
- In una nebbia fatta di sole atroce e di polvere si vedeva il posto di confine keniota. Gli occhi di Fàtima si fissarono come ipnotizzati sulla lunga sbarra abbassata: l'ultimo ostacolo, forse il più difficile. Ma dopo tanti altri ostacoli e dolori, a Fàtima sembrò che quella sbarra non avrebbe potuto fermarla: nel suo cuore c'era un urlo che l'avrebbe abbattuta, quella sbarra, quell'ultimo "no" prima del "sì" della salvezza.
- Le gambe di Fàtima erano dure, legnose, dolorose mentre si avvicinava alla sbarra e agli uomini sogghignanti e ostili dietro di esse. Per la fatica e i terrori e gli orrori dei giorni e delle notti della fuga ma anche per l'ingiustizia della inevitabile, odiosa umiliazione che l'aspettava: il chiedere umilmente, l'implorare, oltre al pagare, naturalmente. Le avevano raccontato com'erano i doganieri kenioti, orgogliosi crudelmente di un potere che avevano su questi esseri umani che chiedevano la grazia, la pietà di essere accolti nel loro "paradiso". Miserabile paradiso ma tale se alle spalle ci si lascia la morte e l'odio della guerra fra clan.
- Quando Fàtima arrivò alla sbarra (non riusciva a vedere che quella, come ossessionata) davanti a lei c'erano altri cinque profughi: un vecchio, due uomini, due ragazze.
- I kenioti davano un'occhiata distratta ai passaporti: non erano quelli che li interessavano. Guardavano piuttosto quello che c'era nelle mani dei profughi, oltre agli inutili pezzi di carta: il bacscisc. Quanto puoi pagare, miserabile vecchio?
- No, il vecchio porco somalo. A spintoni, una guardia cacciò il vecchio senza denaro. E perché gli altri miserabili capissero, gli mollò pure un gran calcio. Il vecchio cadde nella polvere fra le risate delle altre guardie.
- Poi toccò ai due uomini. Dalle loro mani, Fàtima vide passare in quelle dei doganieri grossi rotoli verdi. Fàtima ebbe un brivido: il suo rotolino di biglietti verdi era esiguo, una miseria. E se quelli...
- Le due ragazze erano carine. Una pagò. Forse non abbastanza perché una guardia, ghignando, cominciò a toccarla qua e là mentre le altre ridevano. Le loro battute gridate in suahili erano tutte variazioni oscene su "ragazze somale tutte sciarmutte": le somale, tutte puttane.
- La ragazza però reagì, gridava. Dalla baracca della dogana uscì un tipo grosso con qualche striscia colorata sulla manica.
- Ringhiò qualcosa che somigliava a "che succede, qui!?". Lasciò passare la ragazza che aveva pagato. Anche perché la sua attenzione era chiaramente attratta dall'altra ragazza, giovanissima e dallo sguardo terrorizzato. Il graduato tese verso di lei la mano grassoccia e sudata. Perfido, scivoloso, chiese:
- - Bacscisc?
- La ragazza, gli occhi spalancati lucidi di paura, scosse la testa, incapace di parlare.
- - No bacscisc? - sorrise mellifluo il capo guardia. Rideva prendendo per il braccio la ragazza e trascinandola nella baracca. Dopo pochi istanti, lamenti disperati eppure come rassegnati uscirono, soffocati, dalla baracca.
- Con il cuore pieno di orrore ma anche di un assurdo, disperato coraggio, Fàtima si avvicinò a una guardia, un giovane, con un viso - così le sembrò o sperò - meno cattivo degli altri.
- Gli mise quasi di prepotenza il sottile rotolo di dollari nella mano e passò oltre la sbarra.
- Le altre guardie erano distratte, tutte tese ad ascoltare con voluttà crudele i gemiti che sempre più fiochi venivano dalla baracca: un'altra, facile ma forse per questo ancora più eccitante, conquista del capo, un'altra di quelle sciarmutte di somale...
- Fàtima camminò con gambe pesanti come pietre, sentendo sulla nuca lo sguardo di quello a cui aveva dato i soldi. "O Dio, o Dio, ti prego, fa che non ci ripensi, che non gridi".
- Ogni passo un tempo senza tempo ma lunghissimo, senza fine, un'angoscia che per liberarsi doveva essere gridata, urlata e che, invece, Fàtima sapeva che non poteva esserlo, pena, forse, la morte. Ogni fibra del suo corpo duoleva atrocemente mentre, con la sola forza della paura, si allontanava, metro dopo metro, immensità dopo immensità dalla baracca delle guardie.
- Fu la sua nuca a dirle che poteva finalmente fermarsi: quando la pelle tesa del collo "sentì" che l'urlo, o il colpo, non sarebbe arrivato.
- C'era una grossa pietra sul bordo della strada. Fàtima, esausta, sfinita, prosciugata di ogni energia, cadde a sedere, assolutamente incapace di un solo altro passo.
- E fu il vuoto, dentro di lei, e una strana disperazione.
- "Ce l'hai fatta" tentava di dirsi, ma le parole erano senza consolazione, come dette da un estraneo a un estraneo. Forse perché passare il confine non era il traguardo finale. Tante cose ignote ancora l'aspettavano e questo ignoto, questo suo destino, questo futuro ancora immerso nel buio le davano ora un senso d'angoscia più pericoloso di quello che aveva provato nella fuga perché, fuggendo, era sorretta dalla forza di non avere nulla da perdere. E adesso questa forza non la sentiva più: l'immensa, disumana stanchezza della fuga che aveva addosso, o meglio dentro, prendeva possesso della sua volontà, la schiacciava.
- Fàtima si piegò in avanti, le braccia attorno alle ginocchia.
- Una enorme e, lo sentiva, pericolosa voglia di piangere, di lasciarsi andare, di dire "basta, basta, basta"...
- Ma ecco, improvviso, per la prima volta, quel colpo, sordo nel suo ventre eppure sonoro, squillante, gioioso nel suo cuore, inebriante nel suo cervello. E ancora un altro, e un altro: la sua creatura, suo figlio, che all'improvviso "diceva", nel solo modo che poteva, "mamma, sono qui. Sono vivo. Siamo vivi. Viviamo, mamma ti prego"...
- E allora Fàtima pianse a lungo. Ma sorrideva nelle lacrime che scendevano sul suo viso. Perché adesso sapeva cosa c'era nel suo futuro. Ed era qualcosa che nessuno avrebbe potuto toglierle.
- E si alzò, si asciugò le lacrime e guardò con occhi chiari pieni di luce laggiù, verso l'orizzonte, verso le cose e le persone che avrebbe conosciuto. Verso la vita che l'attendeva.
- Si avviò.
- Cammina, Fàtima, cammina. Cammina ancora. C'è ancora tanta strada da fare.
- Tenendo le mani delicatamente poggiate sul ventre colmo e vibrante di vita, Fàtima camminava. E sapeva che adesso nessuno, mai - Mai - avrebbe potuto sconfiggerla.
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