Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Rino Passigato
Ha pubblicato il libro
Rino Passigato - Lo scapolo

 

 
 
 
 
 
 
 
Collana I salici (narrativa)
 
15x21 - pp. 144 - Euro 11,50
 
ISBN 88-8356-901-6

Pubblicazione realizzata con il contributo de
IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista
nel concorso letterario «J. Prévert» 2004

Prefazione
Incipit 


Prefazione
Un sommesso diario esistenziale che fa della memoria, nostalgica per il bel tempo passato, una sorta di rassegnazione consapevole davanti alla realtà: la consapevolezza che in fondo le cose sono andate come era giusto che andassero.
Nel raccontare la propria vita tornano alla mente i ricordi della famiglia, la figura della madre e del padre, la sorella Marina e il fratello Fausto, e poi la vecchia casa di campagna con quel muro scrostato sapientemente occultato dal padre con una rigogliosa pianta d'edera per nascondere i danni del tempo; per non dimenticare i giochi e i disastri combinati giocando in quell'amata casa nonostante le ristrettezze e le privazioni con "due letti per tre figli" che a turno dovevano rinunciare alla comodità e poi l'immagine ancora viva di quella vecchia "vasca di ferro smaltato" dove fare il bagno era scoprire la vita.
Ecco allora che si dipanano le vicende della storia d'una famiglia con i periodi di felicità che sempre si alternano ai momenti dolorosi e alle amarezze: dalla gravidanza di Marina con la conseguente fuga e poi l'immancabile ritorno e dopo qualche anno il matrimonio con un "buon partito", alle cattive compagnie frequentate dal fratello Fausto e la paura dei genitori che "finisca male", dalle vacanze "passate sempre in paese a soffrire il caldo bestiale" a causa della mancanza di soldi, al primo lavoro e i colleghi in fabbrica, alle amicizie femminili del protagonista a partire da Anna, donna simpatica e dagli occhi verdi, a Rosanna, brava ragazza che rimarrà sempre un'amica con cui condividere le intimità ma senza una convivenza di fatto, e infine a ricordar le passeggiate al fiume nei pomeriggi d'estate e le tanto amate gite in moto nei fine settimana.
E poi tutto cambia quando il padre deve trasferirsi a Milano e dopo poco tempo anche la famiglia lo seguirà: il dispiacere nel dover lasciare la propria casa, gli amici in paese, i luoghi della gioventù e trovarsi a fare i conti con la vita di città, per di più una metropoli come Milano, dove tutto appare assai differente e così lontano dal proprio modo d'essere. Emergono le difficoltà del protagonista ad ambientarsi in un mondo estraneo dove dominano i sacrifici, il lavoro, la vita alienante e noiosa che non fanno altro che portare in superficie la nostalgia del paese natìo, il dolce ricordo delle prime ragazze, le scorribande per le campagne con la moto tra strade polverose e tutto ciò che appartiene a quel mondo abbandonato a malavoglia.
E infine, dopo il ritorno nella propria casa di paese, non restano che i "cari ricordi": la poltrona dove il padre si sedeva a leggere il giornale, la camera con i letti, il cassettone e le lenzuola ricamate della madre.
Oggetti che fanno rivivere le immagini d'un tempo e gelosamente conservati dal protagonista: i frammenti d'una vita che si ricompongono in un affettuoso album di fotografie magari ingiallite ma pur sempre affascinanti.
 

 

 

Massimiliano Del Duca


Lo scapolo
La mia famiglia

 
 
Con non poca nostalgia mi tornano alla memoria quegli anni. Allora c'eravamo tutti: i miei due fratelli, Marina e Fausto, mamma e papà ancora giovani. Vivevamo in una casa di campagna. Mi viene da sorridere al ricordo della nostra cameretta. Possedevamo solo due letti singoli ed eravamo in tre a doverci dormire. Si faceva a turno per avere un letto tutto per sé. Non è poi che quello che dormiva da solo se la passasse da nababbo; come minimo veniva fatto bersaglio del tiro al cuscino da parte degli altri due.
Una sera, era il mio turno di dormire sul letto singolo, sennonché lo trovai già occupato da mia sorella. Vi garantisco che rimasi di stucco. Non avevo il coraggio e tantomeno la forza di cacciarla; difatti lei era più grande di me di quattro anni e ne aveva sette più di Fausto.
Corsi da mamma, perché venisse a mettere le cose a posto. Purtroppo le donne ne sanno una più del diavolo, e quando mamma si presentò sulla porta, Marina venne a sussurrarle delle parole all'orecchio. Mamma assentì e subito la scusò dicendo che aveva mal di pancia. Un giro di parole, che mia sorella tirava spesso in ballo per far sapere che aveva le sue cose. Tanto ormai sia io che Fausto sapevamo benissimo che si trattava di una scusa.
Ricordo il giorno che, giocando a rincorrersi, lei urtò contro la pianta di fiori di mamma: il pavimento s'imbrattò di terra e radici. Accorse subito mamma con gli occhi fuori dalla testa. Marina si mise a piangere ed a tenersi il grembo e prima che la vecchia aprisse bocca, la bugiarda si scusò:
«Sono stati loro due a corrermi dietro. Li avevo pur avvisati che oggi non ero in giornata. Sono indisposta, ho mal di pancia.»
E avanti a ruffianate su questo tono, fino a che, mamma si scagliò contro di noi con un finimondo d'improperi:
«Sbarazzini, scavezzacolli che non siete altro.» E se non fossimo stati svelti a darcela subito a gambe levate, ci sarebbe arrivato addosso più di un colpo di scopa.
Erano anni felici quelli: quasi non avevamo il tempio di mangiare tanto eravamo presi nei giochi. L'unica nota poco lieta erano le ore di scuola; erano qualcosa di terribile. Fausto ed io frequentavamo le elementari. I momenti più brutti li ho passati quando mi presentavo a scuola senza avere fatto i compiti. Da un momento all'altro mi aspettavo che la maestra mi dicesse di mostrarle il quaderno. Se girava gli occhi dalla mia parte, mi sentivo addosso i brividi caldo-freddi. Mi vedevo il quaderno aperto e lei davanti autoritaria e severa.
«Dov'è il tema? Per castigo scrivi cento volte "A casa devo fare i compiti..."»
Per fortuna mi capitò una volta sola di essere colto in fragrante. Divenni di tutti i colori, rimasi come un ebete, senza parole e senza forze. Dopo alcuni istanti riuscii a biascicare:
«Sono stato male.»
«Per questa volta passi.»
Bisogna tener presente che la signorina aveva una santa venerazione per la mia famiglia. Faceva il filo a Vincenzo, figlio di una sorella di mia madre. Fu così che la feci franca fino a che lui non si fidanzò ufficialmente con la figlia del droghiere, una sbarbina, fornita d'una carrozzeria non indifferente. Dopo, dovetti rigare dritto e guai se non avessi fatto i compiti.
Papà, allora, aveva un solo difetto; gli piacevano le donne più giovani. Non che facesse grandi cose, solo che quando s'imbatteva in una ragazza la circuiva con mille moine.
Capitò un giorno che una, alla quale lui aveva promesso chissà che cosa, venne a casa nostra. Guarda caso proprio in quel momento lui non c'era! C'eravamo tutti noi, i suoi tre figli e la mamma. Senza tanti preamboli, quella si fece avanti, si presentò e chiese di nostro padre. Mamma, che già aveva subodorato di che cosa si trattava, mise subito le mani avanti:
«Questi sono i suoi figli.»
Non l'avesse mai detto! Quella diventò di tutti i colori e sbottò senza nessun ritegno:
«Quel porco di un filibustiere, mi aveva dato a bere che era scapolo! Ed io, cretina, a crederci. Sia quel che si vuole, adesso l'aspetto.»
Noi ragazzi c'eravamo raggruppati in un angolo dell'ingresso, seri, compassati, ascoltavamo senza quasi capire quello che la donna diceva. Mamma le sbarrava il passo davanti alla porta e per nostra fortuna non perse la calma, anzi, cercò di fare dello spirito.
«E che cosa dovrei dire io, che sono cornuta?»
«Cornuta un corno! Fino a quel punto non se l'è presa la libertà il suo bel marito!»
«Allora se c'è stata appena qualche carezza o qualche bacio; cosa vuole pretendere da lui?»
«Non creda che gliela lasci passare liscia dopo che mi ha promesso che mi avrebbe sposata. Sapesse quante volte è venuto a cercarmi! Quando volte ha cenato in casa di mia madre!»
Ecco dove andava a finire papà, quando arrivava tardi. Lui aveva sempre la scusa pronta:
«In ufficio per lavoro, fino a quest'ora sono stato. Non ho neanche più fame.»
Quella intanto non la finiva più di parlare e di agitarsi. Meno male che mamma, per tutto quel tempo, rimase impassibile. Non rispose più alle ciance della donna. Io ero stato colpito dal fatto che era una bella donna; papà aveva veramente dei buoni gusti. Ogni cosa finì per il meglio. L'intrusa, visto che nessuno più le dava retta, se ne andò per i fatti suoi e non si fece più vedere.
 

 
Tobi
 
 
La casa, che abitavamo, era vecchia di chissà quanti secoli. I muri esterni erano tutti scrostati, gli scuri, usurati dagli anni, pencolavano malandati sugli stipiti: se li osservavi attentamente pareva che da un momento all'altro ti dovessero cadere addosso.
Per nascondere le brutture, che stavano sul retro dell'edificio, papà vi aveva fatto arrampicare una pianta d'edera. Il muro si presentava così in maniera accettabile, per non dire, che tutto tappezzato di verde, era carino; ma l'edera cresceva, aggrappandosi alle travi esterne del tetto, facendo capolino alle finestre. Io mi divertivo un mondo a chiudere gli scuri di botto ed a contare le punte dei rami fatte prigioniere; a volte erano due soltanto, a volte erano cinque o sei. Un giorno riuscii a catturarne più di dieci. Stetti là a contarle soddisfatto, sennonché, quando ripetei l'operazione, con mio sommo rammarico, alcune si spezzarono.
Penso che la suppellettile più singolare di tutta l'abitazione fosse la vasca da bagno; una tinozza lunga e larga di ferro smaltato. Mamma la riempiva d'acqua calda e ci ficcava dentro tutti e tre. Furono le prime volte che vidi Marina nuda e mi feci meraviglia che non avesse il pisello. Con il tempo poi, le crebbero due pomelli rotondi sul petto.
«Perché sei fatta diversamente da noi due?», ebbi il coraggio di chiederle una volta. Lei diventò rossa per la vergogna e da quel giorno volle fare il bagno da sola. Sicché nel mascone di ferro ci ritrovammo solamente noi due maschietti. Non ci parve vero: cominciammo a giocare, sbattendo i piedi e tirandoci addosso l'acqua con le mani; la maggior parte naturalmente andava a cadere sul pavimento o schizzava sui muri.
Un giorno avevamo quasi vuotato la vasca e pur tuttavia continuavamo con i nostri lanci. Mamma ci venne a prendere con gli stivali e da quella volta non ci lasciò più da soli nel mascone. Lei stessa ci insaponava, svelta svelta ci sciacquava e ci tirava fuori.
Malgrado la rapidità di mamma nel lavarci, trovavamo il tempo per giocare con Tobi, il cane di Marina. Le poche volte che saltava nella vasca, io lo prendevo per la coda, Fausto per una gamba e giù sotto acqua. Povero cane! Poco mancava che soffocasse! Appena riusciva a tirar fuori la tesa, abbaiava e ringhiava a più non poso. Allora accorreva anche papà:
«Cosa state combinando? Ma la annegate quella bestiola,» diceva e lo portava con sé.
Quanto ci divertimmo con Tobi in quel periodo! Lo scagliavamo contro i passeri, a volte gli buttavamo addosso il gatto. Allora salvati dagli abbaii sguaiati e dalle unghiate e colpi di coda, che venivano sferrati da entrambe le parti.
Quando il poveretto non ne poteva più, si appisolava sotto il tavolo; noi eravamo pronti a legargli un barattolo di latta sulla coda. Spaventato, quello si metteva a correre, trascinandosi dietro il barattolo con un fracasso madornale. Noi lo seguivamo, ghignando a più non posso, fino a che si perdeva in lontananza. Come al solito sbucava fuori chissà da dove papà.
«Volete lasciarlo in pace quel povero diavolo!», ci diceva con un vocione burbero da fare paura, tanto che io mi mettevo a tremare e Fausto sgattaiolava in cortile e, come se la cosa non lo riguardasse, si metteva a giocare con i sassi o con i rami del salice, che cresceva sull'orlo del vicino fossato. Io rimanevo senza parole, aspettando la gragnola finale. Lui continuava:
«Se dovesse capitare ancora una volta una cosa del genere, non lo vedrete più il vostro Tobi!»
Intanto, Marina, intenta ad accudire a qualche faccenda domestica, s'era affacciata sulla scena per dire anche lei la sua:
«Ancora con quella bestiola ve la siete presa. È così bravo ed intelligente Tobi!»
«Dovresti un po' badare tu al tuo cane,» ribatteva prontamente papà. E così si quietavano le cose e noi due piccoli potevamo tornare ai nostri giochi.

 
 
Marina
 
 
 
I mesi e gli anni passavano e Marina si faceva sempre più graziosa e per alcuni versi anche simpatica. Quello che trovavo poco carino in lei era il suo rapporto con i giovanotti. Non gliene andava mai bene uno: "Quello ha il fiato acido..." commentava spesso. Ed era ormai più che adolescente.
«Arturo è un vero fusto,» replicavo io.
«Ma va... Proprio Arturo, con quel fare sdolcinato e melenso. A volte quando parla, non sembra neanche un uomo.»
Insomma, non ce n'era uno che le andasse a genio. O meglio, uno c'era: il figlio dell'ingegner Tosi, di buona famiglia e per di più ricco. Che sorrisi e che occhiate gli apriva, quando lo incontrava per strada! Era fermamente convinta che potesse essere il partito che faceva per lei. Un giorno trovò il modo d'invitarlo alla partita di hockey a rotelle, sport per il quale lui andava matto, anzi per essere più precisi ci giocava con la squadra ragazzi. Anche al cinema chiese che l'accompagnasse un'altra volta; ma quello aveva sempre la scusa pronta per non andare assieme a lei. Penso che mia sorella stesse sbagliando proprio tutto.
Difettucci a parte, io con mia sorella mi trovavo un mondo. Avevamo sempre un sacco di cose da raccontarci. A studiare ci dividevamo sempre lo stesso tavolo ed il tempo per lo più lo passavamo discorrendo.
«Sai perché domenica gli zii non sono venuti?», mi chiese lei un giorno.
«Forse perché non se la sentivano di fare trenta e più chilometri con la loro FIAT vecchia e scassata,» le risposi.
«Il motivo per cui non si sono fatti vivi non ti passa neanche per l'anticamera del cervello.»
«Allora dimmelo tu;» ribattei incuriosito.
«Lo zio non aveva i pantaloni nuovi stirati e, quello che più conta, non voleva lasciare il cane a casa, da solo.»
«Pensa un po' te! Non hanno figli e non hanno altro a cui pensare quei due.»
Molto spesso lei mi parlava di moda: cose si fa a distinguere un buon modello da uno modesto, e così via... Ogni giorno attaccava discorso ed io le andavo dietro. Non so proprio come abbia fatto quell'anno a superare gli esami di maturità magistrale.
La scena più spiacevole, cui assistetti in quegli anni accadde la volta che lei mi piantò in asso per allontanarsi con Giacomo. Era il giorno della festa del paese, ci trovavamo al luna park. Gareggiavamo al tiro a segno, comportandoci proprio come due pivelli: su dieci tiri neanche un centro o giù di lì. Lei rideva e si divertiva. Dopo un poco si avvicinò Giacomo, uno spaccone di uno da non potersi dire. Si mise a tirare di fianco a noi ed a parlare con mia sorella. Ad un certo punto non ho mai saputo come, né perché:
«Franco, io vado,» mi disse lei e mi lasciò con tanto di naso. Ingelosito li seguii a distanza. Girarono per una stradina laterale, arrivarono fuori del paese. Io non li perdevo d'occhio un istante. Saltarono un fossato, s'inoltrarono in un boschetto di acacie. Mi appostai dietro ad un cespuglio, vidi Giacomo slacciarsi i calzoni e tirar fuori un affarone lungo e grosso. Tramai. Avrei voluto chiamare aiuto. Loro si abbassarono. Non potei più vedere nulla. Mogio, mogio, tornai sui miei passi. Non volli sapere quanto Marina s'intrattenne con quel bellimbusto, né se era la prima volta che gli dava tanta confidenza.
Qualche giorno dopo, m'azzardai a chiederle:
«Sei fidanzata con Giacomo?»
«No, è solo un amico.»
«Allora prendi la piccola?»
«Perché mi fai queste domande?», mi rispose seccata.
«Perché a frequentare gli uomini non si sa mai come vada a finire!»
Lei, risentita più che mai, ribatté:
«Per chi mi prendi? Sono una ragazza seria in fin dei conti.»
Il trillo del telefono venne a distrarre i nostri discorsi. Mamma si affacciò sulla porta:
«Marina, ti vogliono.»
Allungai le orecchie, dalla risposta di mia sorella immaginai tutto il dialogo:
«Perché non sei uscita ieri sera?»
«In macchina con i ragazzi di sera... La mamma non vuole!», fu la risposta di Marina, che mi arrivò chiara alle orecchie.
"La santarella", pensai. Marina intanto, messa giù la cornetta, era tornata a stirare.
«Era lo stronzo di Giacomo?», le chiesi.
«Perché, come fai a saperlo?»
«Telefona un sacco di volte, quanto tu non ci sei.»
«Insomma, occupati degli affari tuoi,» mi rispose e s'avviò con la biancheria tra le braccia alla volta della camera. Mamma, che dopo la telefonata s'era fermata con noi, intervenne:
«Franco, cerca di essere gentile con tua sorella. Non trattarla in quel modo. Da quando le è andata male con Ferdi è giù, tanto giù che mi preoccupa.»
«Una malattia ci va a fare per quel mangia a ufo di Ferdi. Uno sbruffone del genere non lo vorrei per tutto l'oro del mondo,» commentai e subito tacqui perché mia sorella era tornata. Ci lanciò uno sguardo stonato e diede un calcione al micio, accucciato davanti al tavolo. Quel giorno non te ne andava bene una, Marina! Forse avevi sperato che la telefonata fosse di Ferdi; ma lui non fa parte di quella compagnia.
Pensate un po' fino a che punto mia sorella era cotta di lui. Qualche domenica prima era stata un quarto d'ora e forse più, a far da palo per attendere che il suo bel Ferdi uscisse dal bar. Pareva un ebete; immobile davanti alla scalinata, mentre io scalciavo e la pregavo che venisse a casa. Macché! Ferma, impassibile ai miei strattoni ed alle mie suppliche. Quando quello è uscito non sapeva più in che posizione mettersi. Povera Marina! Quasi non l'ha guardata. Appena un "ciao" masticato col ghigno duro ed è tirato diritto.
E pensare che filavano così bene e d'accordo assieme. Chissà perché lui l'ha lasciata! Era così carina mia sorella e brava come donna di casa! Era un pezzo di gnocca poi! Da leccarsi le dita. Due tette ed un culo! Quando andava in bagno, correvo a sbirciarla per il buco della serratura.
Nella sala s'era fatto silenzio; Marina continuava a stirare con un cipiglio da prendere a schiaffi. Quando si comportava in quel modo, mi diventava antipatica fuori dei modi. Di certo mamma provava dei sentimenti simili ai miei, tant'è che per togliersela da sotto gli occhi, andò nella camera a spolverare i mobili. Almeno così si è giustificata. Io senza fare parola di sorta, mi sono rifugiata sotto il bersò di glicine ad inseguire i voli delle farfalle. Lei rimase sola con il gatto, il ferro da stiro ed il suo cipiglio da schiaffi.


 
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Ins. 04-07-2005