Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Simona Vassetti

Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa

 
 
Fragole proibite
 
Ho sempre amato sfidare l'impossibile.
Ho amato.
Sempre.
 
In fondo non desideravo niente di particolare: un uomo che mi amasse, che mi desse la sicurezza che non avevo mai raggiunto prima.
Volevo solo qualcuno che mi amasse.
Qualcuno.
 
Poi l'incontrai: io ero giovane, inesperta, troppo, per poter capire che sarei caduta tra le sue braccia. Ignara me ne sarei innamorata. Io, sua inconsapevole schiava.
Lui il mio primo uomo.
L'unico.
Nessun confronto.
Troppo poco per poter affermare di conoscere la vita...
 
Ci conoscemmo in un locale dove lavoravo come cameriera, dovevo pur mantenermi in quella città; gli servivo la cena, gli sorridevo come facevo con gli altri, per gentilezza; lui cominciò a tornare spesso, poi, sempre più spesso.
 
Era gentile con me, io ingenua, dopo il lavoro o nelle pause chiacchieravo con lui che, prima velatamente, poi sempre più spudoratamente, mi corteggiò.
Era il primo corteggiamento della mia vita.
L'unico.
Era molto gratificante per me.
Lui riuscì ad avermi dopo un mese: la prima volta mi accarezzò sussurrandomi di non aver paura.
Io non ne ebbi.
Mi insegnò tutto, con pazienza, poi dopo due mesi di convivenza nel suo monolocale mi volle parlare..
Ricordo la pioggia incessante di quella sera di febbraio: avevo finito tardi di lavorare.
Era serata di paga. Fine settimana.
Mi strinse con forza, e mi fece male: ma non era ancora niente.
In auto, si impossessò della mia borsa, riversò il contenuto sulle mie gambe e prese quel mazzetto di banconote strette dall'elastico. Io lo guardai confusa poi gli dissi che se aveva bisogno di denaro poteva chiedermelo.
Mi colse di sorpresa mollandomi uno schiaffo. Provai un dolore forte all'altezza dello stomaco, ma fu solo una breve pausa.
Azzerai tutto quello che avevo vissuto con lui. In quell'istante.
Stranamente, a dispetto della mia ingenuità, avevo compreso.
Tutto.
 
Seguirono molte serate di pioggia: lo sapeva bene la mia pelle, bagnata fradicia, in attesa di clienti sulla provinciale.
Le lezioni erano terminate, si cominciava a fare pratica: e dovevo farla bene, altrimenti botte.
 
L'unica cosa che non riuscivo a perdonargli era che lui avesse già deciso tutto, forse da quei primi caffè, dai miei primi sorrisi.
Ma io, purtroppo, l'amavo. Ancora.
E questo mi rendeva schiava. Anzi, puttana.
 
Trascorsero anni, in quella condizione: la ragazza che serviva al caffè, che sorrideva ingenua, non esisteva più.
Il mio corpo, esile ma ben fatto, si era trasformato.
La pelle avvizzita, opaca, smagrita. Eppure avevo solo trent'anni.
In fondo volevo solo amare qualcuno. E l'avevo avuto.
Ma desideravo anche qualcuno che mi amasse. E forse questo era troppo.
Forse.
 
Lui lo vedevo poco, soltanto quando veniva a riscuotere il guadagno, il suo sulla mia pelle.
Ma era colpa mia. Qualche volta gli permettevo ancora di accarezzarmi, di stringermi e di possedermi.
Lo facevo in nome di quell'oramai inutile senso di legame che portavo dentro, come cicatrice o come marchio.
Lui il mio primo uomo.
Dopo l'amore con dolcezza, scostavo i suoi capelli dalla fronte, rincorrendo con i polpastrelli le rughe. Lui aveva dieci anni più di me. Erano tutti lì, sulla fronte.
Gli sussurravo di farmi smettere, gli chiedevo, spesso, a mezza voce, se mi avesse mai amato.
Se solo avesse risposto.
Non rispose.
Mai.
Poi ritornavo su quella maledetta strada. E lo odiavo.
Cominciavo a farlo.
Passavano gli anni, i mesi, i giorni ed erano tutti uguali. A volte il vento caldo fissava sulle mie labbra il sapore dell'asfalto secco, che stringeva la gola.
Altre volte scambiavo due parole con la piccola nigeriana dallo sguardo dolce e triste.
Molto spesso cacciavo giù le lacrime che volevano salire su. Prepotentemente.
Sempre più.
Volevo finirla, desideravo andare via da lui e ricominciare.
L'avevo già fatto una volta.
Mi sembravano trascorsi secoli.
Avrei dovuto avere solo un po' di coraggio, ce l'avrei potuta fare.
Dovevo crederci.
 
In fondo ora non desideravo niente di particolare: soltanto un po' di pace, la serenità che non avevo mai raggiunto prima.
Volevo solo qualcuno che mi amasse. Ma questo era prima.
Di lui.
 
Dovevo solo pensare come.
Mi risposi che era facile: in fondo avrei potuto scappare da sempre, lui non mi controllava, forse, non lo aveva mai fatto.
Con me non potevo portare nulla.
In fondo con nulla ero arrivata.
Quella mattina il sole faceva capolino tra le nuvole e prometteva un po' di sole.
Ero serena, mi sentivo forte. Ero decisa perché avevo deciso.
Scaricai il primo cliente mattutino, che profumava di dopobarba e caffelatte. Mi allontanai dal mio posto e feci un po' di strada.
L'asfalto era ancora bagnato della pioggia notturna e le scarpe si inzaccheravano nella melma di rifiuti che calpestavo.
Giunsi al primo distributore. Mi sentivo febbricitante; entrai a bere un tè caldo. Attendevo l'autobus che portava in città.
Mentre ero seduta nel bar della piccola stazione lo vidi entrare nello spiazzo e parcheggiare. Sollevò un enorme polverone e scese bestemmiando, la cicca tra le labbra.
Provai un forte senso di angoscia, anzi era terrore quello che provavo.
Capii soltanto che dovevo sparire, mi sollevai e corsi verso la toilette.
Mi nascosi.
 
Chiusa nella toilette compresi che non potevo fuggire: mi avrebbe ritrovato.
E poi no, mi rispondevo, non poteva più trovarmi: se soltanto fossi potuta andar via.
Spiai dalla fessura della porta: stava parlando con il barista. Era concitato, nervoso.
Mi stava cercando. Ne ero sicura.
Lo vidi uscire dal bar, fu allora che mi feci più ardita.
Sgattaiolai e mi feci piccola dietro il bancone: fu allora che mi sentii afferrare: era il barista, un giovane magro dai capelli unti.
«Ti ricordi?» mi chiese e capii immediatamente. Era stato un mio cliente, non lo ascoltavo, le sue parole mi giungevano estranee, non ne comprendevo il senso. «...per me eri Tiziana» riuscii a cogliere.
Gli sorrisi. Volevo che non mi tenesse per la camicia, cercai allora di liberarmi della presa quando mi disse: «Cercava una ragazza bruna, i capelli corti... come i tuoi».
Descrissi una smorfia di terrore che ritrovai nello specchio del bancone di fronte a me.
Lui mi sorrise con un ghigno malefico.
Ero in trappola: rischiavo di essere scoperta, tradita da questo misero stronzo. Non avevo alternative: dovevo assecondarlo.
«Cosa vuoi?» gli chiesi, ma la domanda era superflua. Gli vedevo il desiderio sbavare dalle labbra umide e livide.
Mi trascinò nel retrobottega esaurendo l'approccio in una prestazione rapida, convulsa, infantile.
Doveva avere circa la mia età, ma avrei potuto insegnargli molto.
Troppo.
Mi allontanai da lui strattonandolo, ancora inebetito e preso dai suoi umori, e fuggii.
L'autobus stava per partire e non potevo perderlo: riuscii a far riaprire le porte, ad entrare e crollare sulla prima poltrona libera in fondo.
Non avevo avuto il tempo di controllare se lui fosse ancora nei paraggi, mi sentivo al sicuro.
Ero al sicuro.
Pagai il biglietto, cambiai poltrona e mi addormentai.
Fu un sonno profondo in cui rievocai le mie aspettativa.
I sogni infantili recavano la domanda ricorrente tra piccoli coetanei: «Cosa vuoi fare da grande?».
E nel sogno ero ballerina, poi attrice, bella, ricca e poi dottoressa e poi ancora maestra.
Ma ero mamma, ero moglie, ero una donna felice e soddisfatta della propria vita.
 
In fondo non desideravo niente di particolare: un uomo che mi amasse, che mi desse la sicurezza che non avevo mai raggiunto prima.
Volevo solo qualcuno che mi amasse.
Qualcuno.
 
Mi svegliai di soprassalto: probabilmente un fosso aveva fatto sobbalzare la corriera. O forse l'incubo.
Ma l'incubo era quello che avevo vissuto. Era il passato recente - ancora - vivo sotto la pelle, forse per sempre.
Non ero diventata nulla di ciò che desideravo.
Non avevo avuto nessuno che mi avesse amato.
Nessuno.
Non avevo costruito nulla di buono nella mia vita.
Pur fuggendo.
Nulla.
 
Ero arrivata: scesi dall'autobus e cominciai a percorrere il viale del paese sotto il sole.
Dalla stazione fino a casa non incrociai nessuno.
Era sabato, pensai, le poche anime erano distribuite tra i campi, la chiesa e la piazza.
Mi apparve all'improvviso: la casa era davanti i miei occhi.
La cara vecchia mamma era nell'orto, una croce di legno indicava il punto preciso dove riposavano le sue ossa, chissà se lei aveva trovato la pace.
Andai sul retro: il vento o qualche gatto randagio avevano giocherellato con la croce che pendeva su un lato, sprofondando nel terreno incolto, confinante con la terra del vicino: un'antica staccionata di legno segnava la divisione.
Così riaffiorò il ricordo, nitido, struggente: la siepe piena di spine mi graffiava le carni, quando cercavo di attraversarla per arrivare al cespuglio di fragole.
Mi sbucciavo le ginocchia, mi graffiavo le cosce nude pur di raggiungerle. Ma appena colte le fragole, il sapore riempiva il palato inebriando l'anima, ed io dimenticavo il dolore.
Mi ero sentita forte: avevo ottenuto ciò che volevo senza crearmi problemi, semplicemente prendendolo.
Avevo creduto fosse facile ottenere ciò che si desidera.
Ma erano sogni. Illusioni bambine.
 
Ora, a trent'anni avevo imparato a perdere. Mio malgrado.
Scese inattesa una lacrima, poi un'altra.
Il pianto seguì silenzioso, infinito.
Ma ero lì, e con me vivo il ricordo, inalterato il sapore.
Perché erano fragole.
Fragole proibite.

 

Classifica Concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa
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inserito il 24novembre 1998