Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Simona Vassetti

Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Club dei poeti sezione narrativa

Fughe nel silenzio
 
Il trillo del telefono squarciò il silenzio, rompendo l'equilibrio nella stanza. Lui era lì: seduto in poltrona, davanti la finestra, lontano dall'apparecchio che, inconsapevole, continuò a squillare.
Lui desiderava il silenzio. Gli sfuggì un'imprecazione. Poi si accese una sigaretta e spirali di fumo riempirono la sua visuale. Il telefono, intanto, squillò per l'ultima volta, poi, stanco, si arrese. Era solo una breve pausa.
Lui aveva deciso: non avrebbe risposto.
Sapeva che il telefono avrebbe continuato il martirio; era certo che lei non si sarebbe arresa. Voleva finirla, desiderava che la loro storia finisse.
La cicca fumata dall'aria mentre lui, immobile, era già stufo di godersi quel silenzio. Il suo abbandono.
Era noia: il suono di quella parola si era concretizzata. Lui era la noia. Non provava nulla, spesso, sempre più spesso.
Era così da tempo, ma non poteva rimproverarsi: aveva cercato di reagire. Le aveva detto sì. Lo aveva fatto perché era bella, sensibile e molto dolce. Il suo corpo lo emozionò, il sorriso lo coinvolse, la sua pazienza servì ad incoraggiarlo. Non era precisamente amore, ma era già tanto, già molto. Moltissimo per lui. Purtroppo.
Ed aveva detto sì a quella storia nata per caso. In un momento di immatura euforia le aveva permesso di dividere l'appartamento.
La sigaretta gli finì tra le dita mentre i suoi pensieri erano lontani.
 
Il telefono ricominciò a squillare: lei non era tipo da arrendersi. Doveva avere sempre l'ultima parola.
Questa volta ne aveva ben ragione. Ma lui non voleva ascoltare. Sarebbero state frasi studiate, che avrebbero cercato di ferire. Lui era già tanto lontano da lei e dalle sue offese ma temeva, comunque, di perdere i ricordi: il profumo della sua pelle, la sua ingenuità bambina, il fragore della sua risata.
Le mancava.
Un vuoto improvviso lo colse accecandolo: non poteva tornare indietro. Quell'assenza sarebbe stata una perdita di odori, come fragranze di bosco, e di sapori densi e cremosi.
Cercò di chiudere gli occhi e di dimenticare. Era impossibile. Sentiva il sapore delle labbra di lei sulle sue. Lentamente abbassò la mano per trovare il sesso, che accarezzò piano. Poi, all'improvviso, seppur eccitato, si fermò: sentì le gote avvamparsi e provò imbarazzo.
Improvvisamente.
Proprio in quell'istante suonò il telefono. Il trillo lo sorprese nello stomaco e lo fece titubare. Esitò un attimo: lui non avrebbe voluto rispondere. Non avrebbe dovuto. Perché così aveva deciso. Sollevò il ricevitore. «Pronto». Era certo che la sua voce squillante l'avrebbe aggredito ed invece niente.
Provò un immediato senso di vuoto: totale, pieno, incondizionato.
Si allontanò dal ricevitore, mentre perle di sudore si fecero rivoli sulle sue guance, lasciando qualcuno ancora in linea. Si avvicinò alla poltrona, si aggrappò al bracciolo per reggersi: il vuoto, la noia, il silenzio.
Tutto.
Niente.
Il tutto ed il niente lì, in quell'istante, o per sempre. Ebbe paura. Venne assalito da un terribile senso di angoscia: si avvicinò alla finestra e stremato la aprì.
Respirò tutta l'aria di cui fu capace, ma era ancora poco.
Volse lo sguardo al ricevitore abbandonato: non aveva dimenticato. Non poteva, non avrebbe potuto. Fu allora che decise. Incoerente perché impaurito da ciò che aveva sempre deriso: la solitudine.
Lui era solo, questo lo sapeva, l'aveva sempre saputo. Ma ciò non contava. Prima, almeno.
Questa muta confessione davanti allo specchio dell'anima, lo fece tornare sulla sua decisione. A passi lenti e pesanti si avvicinò al telefono, sollevò il ricevitore e restò deluso. Dall'altra parte della linea il segnale di occupato rappresentava l'unico elemento che aveva presuntuosamente escluso: la sorpresa.
Ripose il ricevitore e si sedette nuovamente in poltrona: la sua era calma apparente.
Ma era sufficientemente maturo da comprendere che sarebbero stati inutili degli isterismi.
La realtà che viveva l'aveva creata lui.
Il suo stato ottimale era vegetare, sopravvivere per non dare spiegazioni, per non ricevere delusioni.
L'ultima un attimo fa.
Imprecò di nuovo, a mezza voce, per non lasciarsi andare.
Aveva deciso: non avrebbe più risposto. Ma questa bugia la raccontò a se stesso, perché temeva che lei non avrebbe più chiamato.
Si era illuso che a lei potesse mancare.
Ma poi, si chiese, cosa le sarebbe mancato di lui: niente, si rispose, proprio niente.
Invece lei gli mancava totalmente.
Il bambino consapevole del divieto volle disubbidire nuovamente: la mano scivolò in basso, una seconda volta, e cominciò a muoversi. Cominciò piano, poi aumentò il ritmo fino ad esplodere in un mugolio sofferto.
Riversò il capo, la mano oltre il bracciolo penzoloni, la mente lontana da quelle quattro mura.
Intorno il silenzio.
Gli occhi socchiusi: sulle labbra secche crebbe il desiderio di una sigaretta, ma non si mosse.
Fu in quel momento che, liberato dai pensieri, squillò il telefono: spalancò gli occhi e scattò sull'attenti.
Ma era stordito, confuso, indeciso. Soprattutto impaurito. Quanti squilli erano suonati, pensò, lui non li aveva contati, ma sarebbero finiti. Doveva rispondere prima che terminasse di suonare, prima che lei si arrendesse.
Era sicuro fosse lei.
Non si accorse dei suoi passi, giunse lì davanti all'apparecchio bianco, sollevò il ricevitore e nuovamente disse «Pronto».
Il suo viso mutò immediatamente, la bocca si contrasse e gli occhi si riempirono di lacrime.
I brividi sulla pelle madida di sudore, la sua mano aggrappata al filo.
Dall'altra parte nessuna voce.
Solo un rumore che dapprima non riconobbe, poi avvicinando la cornetta all'orecchio potè distinguere: era il rumore del mare. L'infrangersi delle onde sulla riva, il monotono ma riposante rollio, continuo, instancabile.
Ma nessuna voce… e neanche il silenzio.
Si sentì morire: un dolore acuto, forte nello stomaco, una fitta pungente nella testa e l'assenza assoluta di reazione vocale.
Era lei… ne era sicuro.
Ma non capiva perché non gli parlava; ma proprio questo, forse, era lo scopo del suo muto interlocutore.
Pianse.
Si accorse che stava piangendo ascoltando la voce del mare. In quel suono non poteva cullarsi.
Era la sola punizione che aveva meritato. Ma lui la riteneva ingiusta.
Troppo crudele per lui, anche per la sua indifferenza, per la sua accidia, per il suo irriducibile cinismo.
Troppo per lui. Troppo al di là, al di sopra delle sue aspettative.
Il rumore era sempre più forte, come se qualcuno avesse dimenticato l'apparecchio in linea. Ma non era un caso.
Lei non sbagliava mai una mossa: sapeva giocare a scacchi. Sapeva accettare gli attacchi, ma soprattutto sapeva scagliarli.
E questo era un scacco matto.
Non aveva scampo.
Lo capì e fu allora che si arrese.
«…parlami, Carla, ti prego».

 

Classifica Concorso Club Poeti 1999 sezione narrativa
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inserito il 24novembre 1998