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- Il verde e il ferro
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- I figli di Babilonia sono morti.
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- Ho visto Tarek oggi, in ospedale
- circondato da camici bianchi e neri,
- sporgeva solo gli occhi dal lenzuolo,
spenti
- stento a riconoscerlo così
minuscolo,
- gli ho portato le arance, così vicine al
sole
- tanto per ricordare i calci al
pallone.
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- I figli di Babilonia sono morti.
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- L'acqua è poca e cattiva
- da quando i diavoletti nascosti dietro le
stelle
- l'hanno toccata con le unghie;
- Tarek non mi ascolta mai molto,
- meglio aver sete che berla, gli dicevo
- ed ora non ci sono medicine per lui, solo sogni
lontani.
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- I figli di Babilonia sono morti.
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- A scuola ci arrangiamo
- ci prestiamo penne e quaderni,
- ho fatto vedere il mio a Tarek,
- un disegno di un delfino che vola alto nel
cielo
- azzurro, con le ali di argento triste;
- non capisco, lo voleva strappare.
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- I figli di Babilonia sono morti.
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- La mamma piange spesso
- perché non abbiamo molto da
mangiare,
- ma io sono forte, riuscirò a finire la
scuola
- e da grande, ci sarò io a pensare a
lei;
- io e Tarek avremo una barca
- e milioni di pesci per dimenticare la
fame.
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- I figli di Babilonia sono morti.
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- Il cielo è diventato verde
stanotte.
- I folletti della foresta sono
arrabbiati,
- forse loro non ci vedono, siamo piccoli qua
sotto,
- in verità, le nuvole vomitano schegge di
ferro;
- meglio non dirlo a Tarek,
- potrebbe aver paura.
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- Domani non porterò le arance a
Tarek,
- mi hanno detto che l'ospedale non c'è
più.
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- Vespro di
Torano
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- Mi piace ascoltarvi,
- vi ho cercato per questo,
- al fresco dei muri di pietra
- nella brezza della sera
- che sale umida dal torrente
- giù in basso,
- fra queste montagne
- nere di faggi e castagni,
- ferite dai tagli del marmo,
- grondanti lacrime e terrore
- di quel tempo lontano
- annegato nell'intolleranza,
- che io non ho vissuto,
- ma che ribolle di continuo
- nelle mie vene.
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- Osservo le vostre storie
- intrise di fame e paura
- quando l'aria sapeva di barbarie,
- le canne dei fucili puntate
- sui petti di donne e bambini,
- le nuvole tetre di carne bruciata,
- i ragazzi appesi ai rami degli alberi,
- l'adolescenza perduta in pochi attimi
- fra le stoppie riarse
- imbracciando il moschetto;
- i massacri
- a S. Anna, al Forno, a Castelpoggio, a
Vinca...
- in questa terra dura e ostile
- gravida di nervi vivi,
- sventrata dal diluvio dell'odio.
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- Se tendi l'orecchio
- li puoi sentire salire su dalla valle,
- il lugubre scalpiccio
- degli scarponi ferrati dei Tedeschi
- ed il frusciare infido delle camicie
nere;
- ogni ramo, ogni pietra, ogni pozza
d'acqua
- invasi dal livore fetido,
- e sembra che dai tetti
- un fiume rovente di sangue
- si riversi nei vicoli antichi.
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- E adesso,
- che senso può avere
- il perdono
- di tanta disperazione?
- E voi,
- che ne volete cancellare la memoria,
- e glorificate il denaro dei potenti,
- oggi come allora,
- mi fate ancor più schifo.
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- Valerio, agosto '98
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