Camillo Sbarbaro: La semplice confessione d'un modo spoglio di esistere
Tratto da "Pianissimo" 1914/1954 ed. Neri Pozza, Venezia 1954
- Taci, anima stanca di godere
- e di soffrire (all'uno e all'altro vai
- rassegnata).
- Nessuna voce tua odo se ascolto:
- non di rimpianto per la miserabile
- giovinezza, non d'ira o di speranza,
- e neppure di tedio.
- Giaci come
- il corpo, ammutolita, tutta piena
- d'una rassegnazione disperata.
- Non ci stupiremmo,
- non è vero, mia anima, se il cuore
- si fermasse, sospeso se ci fosse
- il fiato...
- Invece camminiamo,
- camminiamo io e te come sonnambuli.
- E gli alberi son alberi, le case
- sono case, le donne
- che passano son donne, e tutto è quello
- che è, soltanto quel che è.
- La vicenda di gioia e di dolore
- non ci tocca. Perduto ha la voce
- la sirena del mondo, e il mondo è un grande
- deserto.
- Nel deserto
- io guardo con asciutti occhi me stesso.
- Talor, mentre cammino solo al sole
- e guardo coi miei occhi chiari il mondo
- ove tutto m'appar come fraterno,
- l'aria la luce il fil d'erba l'insetto,
- un improvviso gelo al cor mi coglie.
- Un cieco mi par d'essere, seduto
- sopra la sponda d'un immenso fiume.
- Scorrono sotto l'acque vorticose,
- ma non le vede lui: il poco sole
- ei si prende beato. E se gli giunge
- talora mormorio d'acque, lo crede
- ronzio d'orecchi illusi.
- Perché a me par, vivendo questa mia
- povera vita, un'altra rasentarne
- come nel sonno, e che quel sonno sia
- la mia vita presente.
- Come uno smarrimento allor mi coglie,
- uno sgomento pueril.
- Mi seggo
- tutto solo sul ciglio della strada,
- guardo il misero mio angusto mondo
- e carezzo con man che trema l'erba.
- Mi desto dal leggero sonno solo
- nel cuore della notte.
- Tace intorno
- la casa come vuota e laggiù brilla
- silenzioso coi suoi lumi un porto.
- Ma sì freddi e remoti son quei lumi
- e sì grande è il silenzio nella casa
- che mi levo sui gomiti in ascolto.
- Improvviso terrore mi sospende
- il fiato e allarga nella notte gli occhi:
- separata dal resto della casa
- separata dal resto della terra
- è la mia vita ed io son solo al mondo.
- Poi il ricordo delle vie consuete
- e dei nomi e dei volti quotidiani
- riemerge dal sonno,
- e di me sorridendo mi riadagio.
- Ma, svanita col sonno la paura,
- un gelo in fondo all'anima mi resta.
- Ch'io cammino fra gli uomini guardando
- attentamente coi miei occhi ognuno,
- curioso di lor ma come estraneo.
- Ed alcuno non ho nelle cui mani
- metter le mani con fiducia piena
- e col quale di me dimenticarmi.
- Tal che se l'acque e gli alberi non fossero
- e tutto il mondo muto delle cose
- che accompagna il mio viver sulla terra,
- io penso che morrei di solitudine.
- Or questo camminare fra gli estranei
- questo vuoto d'intorno m'impaura
- e la certezza che sarà per sempre.
- Ma restan gli occhi crudelmente asciutti.
- Esco dalla lussuria.
- M'incammino
- per lastrici sonori nella notte.
- Non ho rimorso o turbamento. Sono
- solo tranquillo immensamente.
- Pure
- qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
- fuori di me.
- Ché la città mi pare
- sia fatta immensamente vasta e vuota,
- una città di pietra che nessuno
- abiti, dove la Necessità
- sola conduca i carri e suoni l'ore.
- A queste vie simmetriche e deserte
- a queste case mute sono simile.
- Partecipo alla loro indifferenza,
- alla loro immobilità.
- Mi pare
- d'esser sordo ed opaco come loro,
- d'esser fatto di pietra come loro.
- Ché il mio padre e la mia sorella sono
- lontani, come morti da tanti anni,
- come sepolti già nella memoria.
- Il nome dell'amico è un nome vano.
- Tra me ed essi s'è interposto il mio
- peccato come immobile macigno.
- E se sapessi che il mio padre è morto,
- al qual pensando mi piangeva il cuore
- di essere lontano ora che i giorni
- della vita comune son contati,
- se mi dicesser che mio padre è morto,
- sento bene che adesso non potrei piangere.
- Son come posto fuori della vita,
- una macchina io stesso che obbedisce,
- come il carro e la strada necessario.
- Ma non riesco a dolermene.
- Cammino
- per lastrici sonori nella notte.
- Non, Vita, perché tu sei nella notte
- la rapida fiammata, e non per questi
- aspetti della terra e il cielo in cui
- la mia tristezza orribile si placa:
- ma, Vita, per le tue rose le quali
- o non sono sbocciate ancora o già
- disfannosi, pel tuo Desiderio
- che lascia come al bimbo della favola
- nella man ratta solo delle mosche,
- per l'odio che portiamo ognuno al noi
- del giorno prima, per l'indifferenza
- di tutto ai nostri sogni più divini,
- per non potere vivere che l'attimo
- al modo della pecora che bruca
- pel mondo questo o quello cespo d'erba
- e ad esso s'interessa unicamente,
- pel rimorso che sta in fondo ad ogni
- vita, d'averla inutilmente spesa,
- come la feccia in fondo del bicchiere,
- per la felicità grande di piangere,
- per la tristezza eterna dell'Amore,
- per non sapere e l'infinito buio...
- per tutto questo amaro t'amo, Vita.
- Adesso che placata è la lussuria
- sono rimasto con i sensi vuoti,
- neppur desideroso di morire.
- Ignoro se ci sia nel mondo ancora
- chi pensi a me e se mio padre viva.
- Evito di pensarci solamente.
- Ché ogni pensiero di dolore adesso
- mi sembrerebbe suscitato ad arte.
- Sento d'esser passato oltre quel limite
- nel qual si è tanto umani per soffrire,
- e che quel bene non m'è più dovuto,
- perché soffrire della colpa è un bene.
- Mi lascio accarezzare dalla brezza,
- illuminare dai fanali, spingere
- dalla gente che passa, incurioso
- come nave senz'ancora né vela
- che abbandona la sua carcassa all'onda.
- Ed aspetto così, senza pensiero
- e senza desiderio, che di nuovo
- per la vicenda eterna delle cose
- la volontà di vivere ritorni.
- Svegliandomi il mattino, a volte provo
- sì acuta ripugnanza a ritornare
- in vita, che di cuore farei patto
- in quell'istante stesso di morire.
- Il risveglio m'è allora un alto nascere;
- ché la mente lavata dall'oblio
- e ritornata vergine nel sonno
- s'affaccia all'esistenza curiosa.
- Ma tosto a lei l'esperienza emerge
- come terra scemando la marea.
- E così chiara allora le si scopre
- l'irragionevolezza della vita,
- che si rifiuta a vivere, vorrebbe
- ributtarsi nel limbo dal quale esce.
- Io sono in quel momento come chi
- si risvegli sull'orlo d'un burrone,
- e con le mani disperatamente
- d'arretrare si forzi ma non possa.
- Come il burrone m'empie di terrore
- la disperata luce del mattino.
- Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
- come in sonno tra gli uomini mi muovo.
- Di chi m'urta col braccio non m'accorgo,
- e se ogni cosa guardo acutamente
- quasi sempre non vedo ciò che guardo.
- Stizza mi prende contro chi mi toglie
- a me stesso. Ogni voce m'importuna.
- Amo solo la voce delle cose.
- M'irrita tutto ciò che è necessario
- e consueto, tutto ciò che è vita,
- com'irrita il fuscello la lumaca
- e com'essa in me stesso mi ritiro.
- Ché la vita che basta agli altri uomini
- non basterebbe a me.
- E veramente
- se un altro mondo non avessi, mio,
- nel quale dalla vita rifugiarmi,
- se oltre me miserie e le tristezze
- e le necessità e le consuetudini
- a me stesso non rimanessi io stesso,
- oh come non esistere vorrei!
- Ma un'impressione strana m'accompagna
- sempre in ogni mio passo e mi conforta:
- mi pare di passar come per caso
- da questo mondo...
- Padre che muori tutti i giorni un poco,
- e ti scema la mente e più non vedi
- con allargati occhi che i tuoi figli
- e di te non t'accorgi e non rimpiangi,
- se penso la fortezza con la quale
- hai vissuto, il disprezzo c'hai portato
- a tutto ciò che è piccolo e meschino,
- sotto la rude scorza
- l'istintiva poesia della tua anima,
- il bene c'hai voluto alla tua madre
- alla sorella ingrata, a nostra madre
- morta,
- tutta la vita tua sacrificata,
- e poi ti guardo così come sei,
- io mi torco in silenzio le mie mani.
- Contro l'indifferenza della vita
- vedo inutile anch'essa la virtù,
- e provo forte come non ho mai
- il senso della nostra solitudine.
- Io voglio confessarmi a tutti, padre,
- che ridi se mi vedi e tremi quando
- d'una qualche attenzion ti faccio segno,
- di quanto fui vigliacco verso te.
- Benché il ricordo mi si alleggerisca,
- che più giusto sarebbe mi pesasse
- inconfessato sempre sopra il cuore.
- E vivremo così in compagnia
- dei maggiori fratelli, i fiumi e i boschi,
- pacificati con la nostra sorte.
- Perché ciò sia, sorella, io faccio patto
- che il mio dolore duri quanto me,
- anzi di giorno in giorno mi s'accresca.
- Questo il sogno che faccio ad occhi aperti.
- Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
- come la zolla a primavera.
- Io torno.
- I miei occhi con nuovi. Tutto quello
- che vedo è come non veduto mai;
- e le cose più vili e consuete,
- tutto m'intenerisce e mi dà gioia.
- In te mi lavo come dentro un'acqua
- dove si scordi tutto di se stesso.
- La mia miseria lascio dietro a me
- come la biscia la sua vecchia pelle.
- Io non sono più io, io sono un altro.
- Io sono liberato di me stesso.
- Terra, tu sei per me piena di grazia.
- Finché vicino a te mi sentirò
- così bambino, fin che la mia pena
- in te si scioglierà come la nuvola
- nel sole,
- io non maledirò d'esser nato.
- Io mi sono seduto qui per terra
- con le due mani aperte sopra l'erba,
- guardandomi amorosamente intorno.
- E mentre così guardo, mi si bagna
- di calde dolci lacrime la faccia.
- Inverno 1912
- A volte sulla sponda della via
- preso da un infinito scoramento
- mi seggo; e dove vado mi domando,
- perché cammino. E penso la mia morte
- e mi vedo già steso nella bara
- troppo stretta fantoccio inanimato...
- Quant'albe nasceranno ancora al mondo
- dopo di noi!
- Di ciò che abbiam sofferto
- di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
- non rimarrà il più piccolo ricordo.
- Le generazioni passan come
- onde di fiume...
- Una mortale pesantezza il cuore
- m'opprime.
- Inerte vorrei esser fatto
- come qualche antichissima rovina
- e guardare succedersi le ore,
- e gli uomini mutare i passi, i cieli
- all'alba colorirsi, scolorirsi
- a sera...
Da "Rimanenze" "All'insegna del pesce d'oro", ed. Scheiwiller, Milano, 1955
- Voze, che sciacqui al sole la miseria
- delle tue poche case, ammonticchiate
- come pecore contro l'acquazzone;
- e come stipo di riposti lini
- sai di spigo, di sale come rete;
- - nell'ombra dei tuoi vichi zampa il gallo
- presuntuoso; gioca sulla soglia
- il piccolo, con dietro il buio e il freddo
- della cucina dove su ramaglie
- una vecchia si china ad attizzare;
- sulle terrazze splende il granoturco
- o rosseggia la sorba; nel coltivi
- strappati all'avarizia della roccia
- i muretti s'ingobbano, si sbriciola
- la zolla, cresce storto e nano il fico -
- in te, Voze, m'imbatto nel bambino
- che fui, nel triste bimbo che cercava
- in terra mele mézze per becchime
- buttate, tratto dall'oscuro sangue
- a mordere ai rifiuti;
- nel cattivo celato dietro l'uscio
- che godeva d'udirsi per la casa
- chiamare da colei che lo crebbe
- - e si torceva presso lui non visto,
- la povera, le mani e supplicava
- che s'andasse con pertiche alla gora.
- Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza
- guasta,
- più nessuno lo cerchi per la casa
- vuota,
- come in madre in te possa rifugiarsi.
- Se l'occhio che restò duro per l'uomo
- s'inteneriva ai volti della terra,
- nella casa di allora che inchiodato
- reca sull'uscio il ferro di cavallo
- portafortuna,
- sérbagli sopra i tetti la finestra
- che beve al lapislazzulo laggiù
- del mare, si disseta
- alla polla perenne dell'ulivo,
- Voze, soave nome che si scioglie
- in bocca...
1921
- Donna ferma sul canto della via,
- che dagli occhi non mostri di vedere,
- non importuni con la voce, stai
- nella strada dorata come pietra
- sorda;
- fossi la marionetta che s'affloscia
- al muro, l'occhio vacuo, le braccia
- penzoloni!
- e se viva
- sei, t'impuntassi innanzi a ognuno, muta
- che indica col dito nero il buco
- della bocca...
- Senza paura non ti guardo, tanto
- mi rassomigli; non viva, non morta;
- donna ferma sul canto della via.
1922
- Scarsa lingua di terra che orla il mare,
- chiude la schiena arida dei monti;
- scavata da improvvisi fiumi; morsa
- dal sale come anello d'ancoraggio;
- percossa dalla fersa; combattuta
- dai venti che ti recano dal largo
- l'alghe e le procellarie
- - ara di pietra sei, tra cielo e mare
- levata, dove brucia la canicola
- aromi di selvagge erbe.
- Liguria,
- l'immagine di te sempre nel cuore,
- mia terra, porterò, come chi parte
- il rozzo scapolare che gli appese
- lagrimando la madre.
- Ovunque fui
- nelle contrade grasse dove l'erba
- simula il mare; nelle dolci terre
- dove si sfa di tenerezza il cielo
- su gli attoniti occhi dei canali
- e van femmine molli bilanciando
- secchi d'oro sull'omero - dovunque,
- mi trapassò di gioia il tuo pensato
- aspetto.
- Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni
- svolto che mi scopriva nuova terra,
- in me balzava il cuore di Caboto
- il dì che dal malcerto legno scorse
- sul mare pieno di meraviglioso
- nascere il Capo.
- Bocconi mi buttai sui tuoi fonti,
- con l'anima e i ginocchi proni, a bere.
- Comunicai di te con la farina
- della spiga che ti inazzurra i colli,
- dimenata e stampata sulla madia,
- condita dall'olivo lento, fatta
- sapida dal basilico che cresce
- nella tegghia e profuma le tue case.
- Nei porti delle tue città cercai,
- nei fungai delle tue case, l'amore,
- nelle fessure dei tuoi vichi.
- Bevvi
- alla frasca ove sosta il carrettiere,
- nella cantina mucida, dal gotto
- massiccio, nel cristallo
- tolto dalla credenza, il tuo vin aspro
- - per mangiare di te, bere di te,
- mescolare alla tua vita la mia
- caduca.
- Marchio d'amore nella carne, varia
- come il tuo cielo ebbi da te l'anima,
- Liguria, che hai d'inverno
- cieli teneri come a primavera.
- Brilla tra i fili della pioggia il sole,
- bella che ridi
- e d'improvviso in lagrime ti sciogli.
- Da pause di tepido ingannate,
- s'aprono violette frettolose
- sulle prode che non profumeranno.
- Le petraie ventose dei tuoi monti,
- l'ossame dei tuoi greti;
- il tuo mare se vi trascina il sole
- lo strascico che abbaglia o vi saltella
- una manciata fredda di zecchini
- le notti che si chiamano le barche;
- i tuoi docili clivi, tocchi d'ombra
- dall'oliveto pallido, canizie
- benedicente a questa atroce terra:
- - aspri o soavi, effimeri od eterni,
- sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti
- che s'affacciano al mio cuore deserto.
- Io pagano al tuo nume sacrerei,
- Liguria, se campassi della rete,
- rosse triglie nell'alga boccheggianti;
- o la spalliera di limoni al sole,
- avessi l'orto; il testo di garofani,
- non altro avessi:
- i beni che tu doni ti offrirei.
- L'ultimo remo, vecchio marinaio
- t'appenderei.
- Ché non giovano, a dir di te, parole:
- il grido del gabbiano nella schiuma
- la collera del mare sugli scogli
- è il solo canto che s'accorda a te.
- Fossi al tuo sole zolla che germoglia
- il filuzzo dell'erba. Fossi pino
- abbrancato al tuo tufo, cui nel crine
- passa la mano ruvida aquilone.
- Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.
1922
da "Scampoli" ed. Vallecchi, Firenze, 1960
- 11
- Accesi tutti in una volta i fiammiferi Minerva per
- immergere lo sguardo annoiato nel lampo azzurrognolo,
- zolfino, tutto oro.
- L'ufficio mi fu intorno, allarmato per lo spreco.
- M'aspettavo mi tastassero il polso.
Camillo Sbarbaro
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