LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
I grandi poeti contemporanei
Cesare Pavese Poesie
- Poesie tratte da:
- La terra e la morte
- Terra rossa terra nera,
- tu vieni dal mare,
- dal verde riarso,
- dove sono parole
- antiche e fatica sanguigna
- e gerani tra i sassi &endash;
- non sai quanto porti
- di mare parole e fatica,
- tu ricca come un ricordo,
- come la brulla campagna,
- tu dura e dolcissima
- parola, antica per sangue
- raccolto negli occhi;
- giovane, come un frutto
- che è ricordo e stagione &endash;
- il tuo fiato riposa
- sotto il cielo d'agosto,
- le olive del tuo sguardo
- addolciscono il mare,
- e tu vivi rivivi
- senza stupire, certa
- come la terra, buia
- come la terra, frantoio
- di stagioni e di sogni
- che alla luna si scopre
- antichissimo, come
- le mani di tua madre,
- la conca del braciere.
- 27 ottobre 1945
- Tu sei come una terra
- che nessuno ha mai detto.
- Tu non attendi nulla
- se non la parola
- che sgorgherà dal fondo
- come un frutto tra i rami.
- C'è un vento che ti giunge.
- Cose secche e rimorte
- t'ingombrano e vanno nel vento.
- Membra e parole antiche.
- Tu tremi nell'estate.
- 29 ottobre 1945
- Hai viso di pietra scolpita,
- sangue di terra dura,
- sei venuta dal mare.
- Tutto accogli e scruti
- e respingi da te
- come il mare. Nel cuore
- hai silenzio, hai parole
- inghiottite. Sei buia.
- Per te l'alba è silenzio.
- E sei come le voci
- della terra &endash; l'urto
- della secchia nel pozzo,
- la canzone del fuoco,
- il tonfo di una mela;
- le parole rassegnate
- e cupe sulle soglie,
- il grido del bimbo &endash; le cose
- che non passano mai.
- Tu non muti. Sei buia.
- Sei la cantina chiusa,
- dal battuto di terra,
- dov'è entrato una volta
- ch'era scalzo il bambino,
- e ci ripensa sempre.
- Sei la camera buia
- cui si ripensa sempre,
- come il cortile antico
- dove s'apriva l'alba.
- 5 novembre 1945
- Tu non sai le colline
- dove si è sparso il sangue.
- Tutti quanti fuggimmo
- tutti quanti gettammo
- l'arma e il nome. Una donna
- ci guardava fuggire.
- Uno solo di noi
- si fermò a pugno chiuso,
- vide il cielo vuoto,
- chinò il capo e morì
- sotto il muro, tacendo.
- Ora è un cencio di sangue
- e il suo nome. Una donna
- ci aspetta alle colline.
- 9 novembre 1945
- Sempre vieni dal mare
- e ne hai la voce roca,
- sempre hai occhi segreti
- d'acqua viva tra i rovi,
- e fronte bassa, come
- cielo basso di nubi.
- Ogni volta rivivi
- come una cosa antica
- e selvaggia, che il cuore
- già sapeva e si serra.
- Ogni volta è uno strappo,
- ogni volta è la morte.
- Noi sempre combattemmo.
- Chi si risolve all'urto
- ha gustato la morte
- e la porta nel sangue.
- Come buoni nemici
- che non s'odiano più
- noi abbiamo una stessa
- voce, una stessa pena
- e viviamo affrontati
- sotto povero cielo.
- Tra noi non insidie,
- non inutili cose &endash;
- combatteremo sempre.
- Combatteremo ancora,
- combatteremo sempre,
- perché cerchiamo il sonno
- della morte affiancati,
- e abbiamo voce roca
- fronte bassa e selvaggia
- e un identico cielo.
- Fummo fatti per questo.
- Se tu od io cede all'urto,
- segue una notte lunga
- che non è pace o tregua
- e non è morte vera.
- Tu non sei più. Le braccia
- si dibattono invano.
- Fin che ci trema il cuore.
- Hanno dette un tuo nome.
- Ricomincia la morte.
- Cosa ignota e selvaggia
- sei rinata dal mare.
- 19-20 novembre 1945
- Poesie tratte da: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
- (11 marzo - 11 aprile '50)
- Hai un sangue, un respiro.
- Sei fatta di carne
- di capelli di sguardi
- anche tu. Terra e piante,
- cielo di marzo, luce,
- vibrano e ti somigliano &endash;
- il tuo riso e il tuo passo
- come acque che sussultano &endash;
- la tua ruga fra gli occhi
- come nubi raccolte &endash;
- il tuo tenero corpo
- una zolla nel sole.
- Hai un sangue, un respiro.
- Vivi su questa terra.
- Ne conosci i sapori
- le stagioni i risvegli,
- hai giocato nel sole,
- hai parlato con noi.
- Acqua chiara, virgulto
- primaverile, terra,
- germogliante silenzio,
- tu hai giocato bambina
- sotto un cielo diverso,
- ne hai negli occhi il silenzio,
- una nube, che sgorga
- come polla dal fondo.
- Ora ridi e sussulti
- sopra questo silenzio.
- Dolce frutto che vivi
- sotto il cielo chiaro,
- che respiri e vivi
- questa nostra stagione,
- nel tuo chiuso silenzio
- è la tua forza. Come
- erba viva nell'aria
- rabbrividisci e ridi,
- ma tu, tu sei terra.
- Sei radice feroce.
- Sei la terra che aspetta.
- 21 marzo 1950
- Verrà la morte e avrà i tuoi occhi &endash;
- questa morte che ci accompagna
- dal mattino alla sera, insonne,
- sorda, come un vecchio rimorso
- o un vizio assurdo. I tuoi occhi
- saranno una vana parola,
- un grido taciuto, un silenzio.
- Così li vedi ogni mattina
- quando su te sola ti pieghi
- nello specchio. O cara speranza,
- quel giorno sapremo anche noi
- che sei la vita e sei il nulla.
- Per tutti la morte ha uno sguardo.
- Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
- Sarà come smettere un vizio,
- come vedere nello specchio
- riemergere un viso morto,
- come ascoltare un labbro chiuso.
- Scenderemo nel gorgo muti.
- 22 marzo 1950
- You, wind of March
- Sei la vita e la morte.
- Sei venuta di marzo
- sulla terra nuda &endash;
- il tuo brivido dura.
- Sangue di primavera
- &endash; anemone o nube &endash;
- il tuo passo leggero
- ha violato la terra.
- Ricomincia il dolore.
- Il tuo passo leggero
- ha riaperto il dolore.
- Era fredda la terra
- sotto povero cielo,
- era immobile e chiusa
- in un torpido sogno,
- come chi più non soffre.
- Anche il gelo era dolce
- dentro il cuore profondo.
- Tra la vita e la morte
- la speranza taceva.
- Ora ha una voce e un sangue
- ogni cosa che vive.
- Ora la terra e il cielo
- sono un brivido forte,
- la speranza li torce,
- li sconvolge il mattino,
- li sommerge il tuo passo,
- il tuo fiato d'aurora.
- Sangue di primavera,
- tutta la terra trema
- di un antico tremore.
- Hai riaperto il dolore.
- Sei la vita e la morte.
- Sopra la terra nuda
- sei passata leggera
- come rondine o nube,
- e il torrente del cuore
- si è ridestato e irrompe
- e si specchia nel cielo
- e rispecchia le cose &endash;
- e le cose, nel cielo e nel cuore
- soffrono e si contorcono
- nell'attesa di te.
- È il mattino, è l'aurora,
- sangue di primavera,
- tu hai violato la terra.
- La speranza si torce,
- e ti attende ti chiama.
- Sei la vita e la morte.
- Il tuo passo è leggero.
- 25 marzo 1950
- The night you slept
- Anche la notte ti somiglia,
- la notte remota che piange
- muta, dentro il cuore profondo,
- e le stelle passano stanche.
- Una guancia tocca una guancia &endash;
- è un brivido freddo, qualcuno
- si dibatte e t'implora, solo,
- sperduto in te, nella tua febbre.
- La notte soffre e anela l'alba,
- povero cuore che sussulti.
- O viso chiuso, buia angoscia,
- febbre che rattristi le stelle,
- c'è chi come te attende l'alba
- scrutando il tuo viso in silenzio.
- Sei distesa sotto la notte
- come un chiuso orizzonte morto.
- Povero cuore che sussulti,
- un giorno lontano eri l'alba.
- 4 aprile 1950
- The cats will know
- Ancora cadrà la pioggia
- sui tuoi dolci selciati,
- una pioggia leggera
- come un alito o un passo.
- Ancora la brezza e l'alba
- fioriranno leggere
- come sotto il tuo passo,
- quando tu rientrerai.
- Tra fiori e davanzali
- i gatti lo sapranno.
- Ci saranno altri giorni,
- si saranno altre voci.
- Sorriderai da sola.
- I gatti lo sapranno.
- Udrai parole antiche,
- parole stanche e vane
- come i costumi smessi
- delle feste di ieri.
- Farai gesti anche tu.
- Risponderai parole &endash;
- viso di primavera,
- farai gesti anche tu.
- I gatti lo sapranno,
- viso di primavera;
- e la pioggia leggera,
- l'alba color giacinto,
- che dilaniano il cuore
- di chi più non ti spera,
- sono il triste sorriso
- che sorridi da sola.
- Ci saranno altri giorni,
- altre voci e risvegli.
- Soffieremo nell'alba,
- viso di primavera.
- 10 aprile 1950
- Poesie tratte da: Antenati
- I mari del Sud
- (a Monti)
- Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
- in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
- mio cugino è un gigante vestito di bianco,
- che si muove pacato, abbronzato nel volto,
- taciturno. Tacere è la nostra virtù.
- Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
- &endash; un grand'uomo tra idioti o un povero folle &endash;
- per insegnare ai suoi tanto silenzio.
- Mio cugino ha parlato stasera.
- Mi ha chiesto
- se salivo con lui: dalla vetta si scorge
- nelle notti serene il riflesso del faro
- lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino "
- mi ha detto " ma hai ragione.
- La vita va vissuta
- lontano dal paese: si profitta e si gode
- e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
- si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
- Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
- ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
- di questo stesso colle, è scabro tanto
- che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
- non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
- con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
- usare ai contadini un poco stanchi.
- Vent'anni è stato in giro per il mondo.
- Se n'andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne
- e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
- da donne, come in favola, talvolta;
- ma gli uomini, giù gravi, lo scordarono.
- Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
- con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
- e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
- ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
- che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
- circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
- nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
- il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
- Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
- che, se non era morto, morirebbe.
- Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
- Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
- quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
- che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
- e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
- spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
- a un rivale e son stato picchiato,
- quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
- altri squassi del sangue dinanzi a rivali
- più elusivi: i pensieri ed i sogni.
- La città mi ha insegnato infinite paure:
- una folla, una strada mi han fatto tremare,
- un pensiero talvolta, spiato su un viso.
- Sento ancora negli occhi la luce beffarda
- dai lampioni a migliaia sul gran scalpiccío.
- Mio cugino è tornato, finita la guerra,
- gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
- I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
- se li è mangiati tutti e torna in giro.
- I disperati muoiono così".
- Mio cugino ha una faccia recisa.
- Comprò un pianterreno
- nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
- con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
- e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
- Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
- e lui girò tutte le Langhe fumando.
- S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
- esile e bionda come le straniere
- che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
- Ma uscí ancora da solo. Vestito di bianco,
- con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
- al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
- contattava i cavalli. Spiegò poi a me,
- quando fallí il disegno, che il suo piano
- era stato di togliere tutte le bestie alla valle
- e obbligare la gente a comprargli i motori.
- "Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
- sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
- che qui buoi e persone son tutta una razza".
- Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
- sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
- Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
- scrivo sul manifesto: &endash; Santo Stefano
- è sempre stato il primo nelle feste
- della valle del Belbo &endash; e che la dicano
- quei di Canelli". Poi riprende l'erta.
- Un profumo di terra e vento ci avvolge nel buio,
- qualche lume in distanza: cascine, automobili
- che si sentono appena; e io penso alla forza
- che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
- alle terre lontane, al silenzio che dura.
- Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
- Dice asciutto che è stato in quel lungo e in quell'altro
- e pensa ai suoi motori.
- Solo un sogno
- gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
- da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
- e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
- ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
- e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
- Me ne accenna talvolta.
- Ma quando gli dico
- ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
- sulle isole più belle della terra,
- al ricordo sorride e risponde che il sole
- si levava che il giorno era vecchio per loro.
- Antenati
- Stupefatto del mondo mi giunge un'età
- che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo.
- Ascoltare i discorsi di uomini e donne
- non sapendo rispondere, è poca allegria.
- Ma anche questa è passata: non sono più solo
- e, se non so rispondere, so farne a meno.
- Ho trovato compagni trovando me stesso.
- Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto
- sempre in uomini saldi, signori di sé,
- e nessuno sapeva rispondere e tutti eran calmi.
- Due cognati hanno aperto un negozio &endash; la prima fortuna
- della nostra famiglia &endash; e l'estraneo era serio,
- calcolante, spietato, meschino: una
- donna.
- L'altro, il nostro, in negozio leggeva romanzi
- &endash; in paese era molto &endash; e i clienti che entravano
- si sentivan rispondere a brevi parole
- che lo zucchero no, che il solfato
- neppure,
- che era tutto esaurito. È accaduto più tardi
- che quest'ultimo ha dato una mano al cognato fallito.
- A pensar questa gente mi sento più forte
- che a guardare lo specchio gonfiando le spalle
- e atteggiando le labbra a un sorriso solenne.
- È vissuto un mio nonno, remoto nei tempi,
- che si fece truffare da un suo contadino
- e allora zappò lui le vigne &endash; d'estate &endash;
- per vedere un lavoro ben fatto. Così
- sono sempre vissuto e ho sempre tenuto
- una faccia sicura e pagato di mano.
- E le donne non contano nella famiglia.
- Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
- e ci mettono al mondo e non dicono nulla
- e non contano nulla e non le ricordiamo.
- Ogni donna c'infonde nel sangue qualcosa di nuovo,
- ma s'annullano tutte nell'opera e noi,
- rinnovati così, siamo i soli a durare.
- Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
- &endash; noi, gli uomini, i padri &endash; qualcuno si è ucciso,
- ma una sola vergogna non ci ha mai toccato,
- non saremo mai donne, mai ombre a nessuno.
- Ho trovato una terra trovando i compagni,
- una terra cattiva, dov'è un privilegio
- non far nulla, pensando al futuro.
- Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei;
- noi sappiamo schiantarci, ma il sogno più grande
- dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi.
- Siamo nati per girovagare su quelle colline,
- senza donne, e le mani tenercele dietro la schiena.
- Il dio-caprone
- La campagna è un paese di verdi misteri
- al ragazzo, che viene d'estate. La capra, che morde
- certi fiori, le gonfia la pancia e bisogna che corra.
- Quando l'uomo ha goduto con qualche ragazza
- &endash; hanno peli là sotto &endash; il bambino le gonfia la pancia.
- Pascolando le capre, si fanno bravate e sogghigni,
- ma al crepuscolo ognuno comincia a guardarsi alle spalle.
- I ragazzi conoscono quando è passata la biscia
- dalla striscia sinuosa che resta per terra.
- Ma nessuno conosce se passa la biscia
- dentro l'erba. Ci sono le capre che vanno a fermarsi
- sulla biscia, nell'erba, e che godono a farsi succhiare.
- Le ragazze anche godono, a farsi toccare.
- Al levar della luna le capre non stanno piú chete,
- ma bisogna raccoglierle e spingerle a casa,
- altrimenti si drizza il caprone. Saltando nel prato
- sventra tutte le capre e scompare. Ragazze in calore
- dentro i boschi ci vengono sole, di notte,
- e il caprone, se belano stese nell'erba, le corre a trovare.
- Ma, che spunti la luna: si drizza e le sventra.
- E le cagne, che abbaiano sotto la luna,
- è perché hanno sentito il caprone che salta
- sulle cime dei colli e annusato l'odore del sangue.
- E le bestie si scuotano dentro le stalle.
- Solamente i cagnacci piú forti dàn morsi alla corda
- e qualcuno si libera e corre a seguire il caprone,
- che li spruzza e ubriaca di un sangue piú rosso del fuoco,
- e poi ballano tutti, tenendosi ritti e ululando alla luna.
- Quando, a giorno, il cagnaccio ritorna spelato e ringhioso,
- i villani gli dànno la cagna a pedate di dietro.
- E alla figlia, che gira di sera, e ai, che tornano
- quand'è buio, smarrita una capra, gli fiaccano il collo.
- Riempion donne, i villani, e faticano senza rispetto.
- Vanno in giro di giorno e di notte e non hanno paura
- di zappare anche sotto la luna o di accendere un fuoco
- di gramigne nel buio. Per questo, la terra
- è cosí bella verde e, zappata, ha il colore,
- sotto l'alba, dei volti bruciati. Si va alla vendemmia
- e si mangia e si canta; si va a spannocchiare
- e si balla e si beve. Si sente ragazze che ridono,
- ché qualcuno ricorda il caprone. Su, in cima, nei boschi,
- tra le ripe sassose, i villani l'han visto
- che cercava la capra e picchiava zuccate nei tronchi.
- Perché, quando una bestia non sa lavorare
- e si tiene soltanto da monta, gli piace distruggere.
- Poesie tratte da: Dopo
- Incontro
- Queste dure colline che han fatto il mio corpo
- e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
- di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
- L'ho incontrata, una sera: una macchia piú chiara
- sotto le stelle ambigue, nella foschía d'estate.
- Era intorno il sentore di queste colline
- piú profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò
- come uscisse da queste colline, una voce più netta
- e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
- Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
- definita, immutabile, come un ricordo.
- Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
- ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
- Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
- mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
- dell'infanzia vissuta tra queste colline,
- tanto è giovane. È come il mattino, Mi accenna negli occhi
- tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
- E ha negli occhi un proposito fermo: la luce piú netta
- che abbia avuto mai l'alba su queste colline.
- L'ho creata dal fondo di tutte le cose
- che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
- Mattino
- La finestra socchiusa contiene un volto
- sopra il campo del mare. I capelli vaghi
- accompagnano il tenero ritmo del mare.
- Non ci sono ricordi su questo viso.
- Solo un'ombra fuggevole, come di nube.
- L'ombra è umida e dolce come la sabbia
- di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
- Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
- che è la voce del mare fatta ricordo.
- Nel crepuscolo l'acqua molle dell'alba
- che s'imbeve di luce, rischiara il viso.
- Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
- sotto il sole: una luce salsa l'impregna
- e un sapore di frutto marino vivo.
- Non esiste ricordo su questo viso.
- Non esiste parola che lo contenga
- o accomuni alle cose passate. Ieri,
- dalla breve finestra è svanito come
- svanirà tra un istante, senza tristezza
- né parole umane, sul campo del mare.
- Estate
- C'è un giardino chiaro, fra mura basse,
- di erba secca e di luce, che cuoce adagio
- la sua terra. È una luce che sa di mare.
- Tu respiri quell'erba. Tocchi i capelli
- e ne scuoti il ricordo.
- Ho veduto cadere
- molti frutti, dolci, su un'erba che so,
- con un tonfo. Cosí trasalisci tu pure
- al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
- come intorno accadesse un prodigio d'aria
- e il prodigio sei tu. C'è un sapore uguale
- nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
- Ascolti.
- La parole che ascolti ti toccano appena.
- Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
- che ti finge alle spalle la luce del mare.
- Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
- con un tonfo, e ne stilla una pena antica
- come il succo dei frutti caduti allora.
- Notturno
- La collina è notturna, nel cielo chiaro.
- Vi s'inquadra il tuo capo, che muove appena
- e accompagna quel cielo. Sei come una nube
- intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
- la stranezza di un cielo che non è il tuo.
- La collina di terra e di foglie chiude
- con la massa nera il tuo vivo guardare,
- la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
- tra le coste lontane. Sembri giocare
- alla grande collina e al chiarore del cielo:
- per piacermi ripeti lo sfondo antico
- e lo rendi più puro.
- Ma vivi altrove.
- Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
- Le parole che dici non hanno riscontro
- con la scabra tristezza di questo cielo.
- Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
- impigliata una notte fra i rami antichi.
- La puttana contadina
- La muraglia di fronte che accieca il cortile
- ha sovente un riflesso di sole bambino
- che ricorda la stalla. E la camera sfatta
- e deserta al mattino quando il corpo si sveglia,
- sa l'odore del primo profumo inesperto.
- Fino il corpo, intrecciato al lenzuolo, è lo stesso
- dei primi anni, che il cuore balzava scoprendo.
- Ci si sveglia deserte al richiamo inoltrato
- del mattino e riemerge nella greve penombra
- l'abbandono di un altro risveglio: la talla
- dell'infanzia e la greve stanchezza del sole
- caloroso sugli usci indolenti. Un profumo
- impregnava leggero il sudore consueto
- dei capelli, e le bestie annusavano. Il corpo
- si godeva furtivo la carezza del sole
- insinuante e pacata come fosse un contatto.
- L'abbandono del letto attutisce le membra
- stese giovani e tozze, come ancora bambine.
- La bambina inesperta annusava il sentore
- del tabacco e del fieno e tremava al contatto
- fuggitivo dell'uomo: le piaceva giocare.
- Qualche volta giocava distesa con l'uomo
- dentro il fieno, ma l'uomo non fiutava i capelli:
- le cercava nel fieno le membra contratte,
- le fiaccava, schiacciandole come fosse suo padre.
- Il profumo eran fiori pestati sui sassi.
- Molte volte ritorna nel lento risveglio
- quel disfatto sapore di fiori lontani
- e di stalla e di sole. Non c'è uomo che sappia
- la sottile carezza di quell'acre ricordo.
- Non c'è uomo che veda oltre il corpo disteso
- quell'infanzia trascorsa nell'ansia inesperta.
- Tratta da: Città di Campagna
- Paternità
- Fantasia della donna che balla, e del vecchio
- che è suo padre e una volta l'aveva nel sangue
- e l'ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
- Lei s'affretta per giungere in tempo a svestirsi,
- e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
- le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
- delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
- Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
- con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
- Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
- e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
- che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
- saran padri, e la donna è per tutti una sola.
- È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
- prende il buio davanti alla giovane viva.
- Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
- che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
- Questo sangue, che scorre le membra diritte
- della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
- e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
- lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
- C'è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
- che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
- fuma il padre e l'attende che ritorni, vestita.
- Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
- e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
- Tratta da: Maternità
- Maternità
- Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
- poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
- uno pensa che i figli han la stessa statura.
- Dalle membra del padre (la donna non conta)
- debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
- come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
- alle membra del padre non manca una briciola
- né uno scatto: si sono staccati da lui
- camminandogli accanto.
- La donna c'è stata,
- una donna di solido corpo, che ha sparso
- su ogni figlio del sangue e sul terzo c'è morta.
- Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
- che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
- annientandosi in loro. La donna era giovane
- e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
- prender parte alla vita. È così che la donna
- c'è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
- I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
- che quell'uomo conosce. Nessuno di loro
- sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
- che a suo tempo era piena e saziava quell'uomo.
- Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all'orlo del fiume
- e tuffarsi, quell'uomo non ritrova piú il guizzo
- delle membra di lei dentro l'acqua, e la gioia
- dei due corpi sommersi. Non ritrova piú i figli
- se li guarda per strada e confronta con sé.
- Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
- vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
- s'è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
- Poesie tratte da: Paternità
- Mito
- Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
- senza pena, col morto sorriso dell'uomo
- che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
- arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
- non saprà più dov'erano le spiagge d'un tempo.
- Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate,
- e negli occhi tumultuano ancora splendori
- come ieri, e all'orecchio i fragori del sole
- fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
- La montagna non tocca piú il cielo; le nubi
- non s'ammassano piú come frutti; nell'acqua
- non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
- pensieroso si piega, dove un dio respirava.
- Il gran sole è finito, e l'odore di terra,
- e la libera strada, colorata di gente
- che ignorava la morte. Non si muore d'estate.
- Se qualcuno spariva, c'era il giovane dio
- che viveva per tutti e ignorava la morte.
- Su di lui la tristezza era un'ombra di nube.
- Il suo passo stupiva la terra.
- Ora pesa
- la stanchezza su tutte le membra dell'uomo,
- senza pena, la calma stanchezza dell'alba
- che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
- non conoscono il giovane, che un tempo bastava
- le guardasse. Né il mare dell'aria rivive
- al respiro. Si piegano le labbra dell'uomo
- rassegnate, a sorridere davanti alla terra.
- Lo steddazzu
- L'uomo solo si leva che il mare è ancor buio
- e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
- sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
- e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
- può accadere. Perfino la pipa tra i denti
- pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquío.
- L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
- e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
- tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
- Non c'è cosa piú amara che l'alba di un giorno
- in cui nulla accadrà. Non c'è cosa piú amara
- che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
- una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
- Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
- a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
- vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
- dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
- è spietata, per chi non aspetta piú nulla.
- Val la pena che il sole si levi dal mare
- e la lunga giornata cominci? Domani
- tornerà alba tiepida con la diafana luce
- e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
- L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
- Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
- l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.
- L'istinto
- L'uomo vecchio, deluso di tutte le cose,
- dalla soglia di casa nel tiepido sole
- guarda il cane e la cagna sfogarel'istinto.
- Sulla bocca sdentata si rincorrono mosche.
- La sua donna gli è morta da tempo. Anche lei
- come tutte le cagne non voleva saperne,
- ma ci aveva l'istinto. L'uomo vecchio annusava
- &endash; non ancora sdentato &endash;, la notte veniva,
- si mettevano a letto. Era bello l'istinto.
- Quel che gli piace nel cane è la gran libertà.
- Dal mattino alla sera gironzola in strada;
- e un po' mangia, un po' dorme, un po' monta le cagne:
- non aspetta nemmeno la notte. Ragiona,
- come fiuta, e gli odori che sente son suoi.
- L'uomo vecchio ricorda una volta di giorno
- che l'ha fatta da cane in un campo di grano.
- Non sa più con che cagna, ma ricorda il gran sole
- e il sudore e la voglia di non smettere mai.
- Era come in un letto. Se tornassero gli anni,
- lo vorrebbe far sempre in un campo di grano.
- Scende in strada una donna e si ferma a guardare;
- passa il prete e si volta. Sulla pubblica piazza
- si può fare di tutto. Persino la donna,
- che ha ritegno a voltarsi per l'uomo, si ferma.
- Solamente un ragazzo non tollera il gioco
- e fa piover sassi. L'uomo vecchio si sdegna.
- Cesare Pavese
- Per leggere l'articolo di Olivia Trioschi
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