LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
I grandi poeti contemporanei
Eugenio Montale
- Spesso il male di vivere ho incontrato
- Spesso il male di vivere ho incontrato:
- era il rivo strozzato che gorgoglia,
- era l'incartocciarsi della foglia
- riarsa, era il cavallo stramazzato.
- Bene non seppi; fuori del prodigio
- che schiude la divina Indifferenza:
- era la statua nella sonnolenza
- del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
- Forse un mattino andando in un'aria di vetro
- Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
- arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
- il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
- di me, con un terrore di ubriaco.
- Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
- alberi case colli per l'inganno consueto.
- Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
- tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
- Arsenio
- I turbini sollevano la polvere
- sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
- deserti, ove i cavalli incappucciati
- annusano la terra, fermi innanzi
- ai vetri luccicanti degli alberghi.
- Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
- in questo giorno
- or piovorno ora acceso, in cui par scatti
- a sconvolgerne l'ore
- uguali, strette in trama, un ritornello
- di castagnette.
- E' il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
- Discendi all'orizzonte che sovrasta
- una tromba di piombo, alta sui gorghi,
- più d'essi vagabonda: salso nembo
- vorticante, soffiato dal ribelle
- elemento alle nubi; fa che il passo
- su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
- il viluppo dell'alghe: quell'istante
- è forse, molto atteso, che ti scampi
- dal finire il tuo viaggio, anello d'una
- catena, immoto andare, oh troppo noto
- delirio, Arsenio, d'immobilità...
- Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
- dei violini, spento quando rotola
- il tuono con un fremer di lamiera
- percossa; la tempesta è dolce quando
- sgorga bianca la stella di Canicola
- nel cielo azzurro e lunge par la sera
- ch'è prossima: se il fulmine la incide
- dirama come un albero prezioso
- entro la luce che s'arrosa: e il timpano
- degli tzigani è il rombo silenzioso
- Discendi in mezzo al buio che precipita
- e muta il mezzogiorno in una notte
- di globi accesi, dondolanti a riva, -
- e fuori, dove un'ombra sola tiene
- mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
- l'acetilene -
- finché goccia trepido
- il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
- tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
- le tende molli, un fruscio immenso rade
- la terra, giù s'afflosciano stridendo
- le lanterne di carta sulle strade.
- Così sperso tra i vimini e le stuoie
- grondanti, giunco tu che le radici
- con sé trascina, viscide, non mai
- svelte, tremi di vita e ti protendi
- a un vuoto risonante di lamenti
- soffocati, la tesa ti ringhiotte
- dell'onda antica che ti volge; e ancora
- tutto che ti riprende, strada portico
- mura specchi ti figge in una sola
- ghiacciata moltitudine di morti,
- e se un gesto ti sfiora, una parola
- ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
- nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
- vita strozzata per te sorta, e il vento
- la porta con la cenere degli astri.
- Da "Le Occasioni"
- Verso Vienna
- Il convento barocco
- di schiuma e di biscotto
- adombrava uno scorcio d'acque lente
- e tavole imbandite, qua e là sparse
- di foglie e zenzero.
- Emerse un nuotatore, sgrondò sotto
- una nube di moscerini,
- chiese del nostro viaggio,
- parlò a lungo del suo d'oltre confine.
- Additò il ponte in faccia che si passa
- (informò) con un solo di pedaggio.
- Salutò con la mano, sprofondò,
- fu la corrente stessa...
- Ed al suo posto,
- battistrada balzò da una rimessa
- un bassotto festoso che latrava,
- fraterna unica voce dentro l'afa.
- A Liuba che parte
- Non il grillo ma il gatto
- del focolare
- or ti consiglia, splendido
- lare della dispersa tua famiglia.
- La casa che tu rechi
- con te ravvolta, gabbia o cappelliera?
- sovrasta i ciechi tempi come il flutto
- arca leggera - e basta al tuo riscatto.
- Non recidere, forbice, quel volto
- Non recidere, forbice, quel volto,
- solo nella memoria che si sfolla,
- non far del grande suo viso in ascolto
- la mia nebbia di sempre.
- Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
- E l'acacia ferita da sé scrolla
- il guscio di cicala
- nella prima belletta di Novembre.
- NUOVE STANZE
- Poi che gli ultimi fili di tabacco
- al tuo gesto si spengono nel piatto
- di cristallo, al soffitto lenta sale
- la spirale del fumo
- che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
- guardano stupefatti; e nuovi anelli
- la seguono, più mobili di quelli
- delle tua dita.
- La morgana che in cielo liberava
- torri e ponti è sparita
- al primo soffio; s'apre la finestra
- non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,
- altro stormo si muove: una tregenda
- d'uomini che non sa questo tuo incenso,
- nella scacchiera di cui puoi tu sola
- comporre il senso.
- Il mio dubbio d'un tempo era se forse
- tu stessa ignori il giuoco che si svolge
- sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
- follìa di morte non si placa a poco
- prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
- ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
- cortine che per te fomenta il dio
- del caso, quando assiste.
- Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
- tocco la Martinella ed impaura
- le sagome d'avorio in una luce
- spettrale di nevaio. Ma resiste
- e vince il premio della solitaria
- veglia chi può con te allo specchio ustorio
- che accieca le pedine opporre i tuoi
- occhi d'acciaio.
- DA "LA BUFERA E ALTRO"
- La Bufera
- La bufera che sgronda sulle foglie
- dure della magnolia i lunghi tuoni
- marzolini e la grandine,
- (i suoni di cristallo nel tuo nido
- notturno ti sorprendono, dell'oro
- che s'è spento sui mogani, sul taglio
- dei libri rilegati, brucia ancora
- una grana di zucchero nel guscio
- delle tue palpebre)
- il lampo che candisce
- alberi e muro e li sorprende in quella
- eternità d'istante - marmo manna
- e distruzione - ch'entro te scolpita
- porti per tua condanna e che ti lega
- più che l'amore a me, strana sorella, -
- e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
- dei tamburelli sulla fossa fuia,
- lo scalpicciare del fandango, e sopra
- qualche gesto che annaspa...
- Come quando
- ti rivolgesti e con la mano, sgombra
- la fronte dalla nube dei capelli,
- mi salutasti - per entrar nel buio.
- L'Arca
- La tempesta di primavera ha sconvolto
- l'ombrello del salice,
- al turbine d'aprile
- s'è impigliato nell'orto il vello d'oro
- che nasconde i miei morti,
- i miei cani fidati, le mie vecchie
- serve - quanti da allora
- (quando il salce era biondo e io ne stroncavo
- le anella con la fionda) son calati,
- vivi, nel trabocchetto. La tempesta
- certo li riunirà sotto quel tetto
- di prima, ma lontano, più lontano
- di questa terra folgorata dove
- bollono calce e sangue nell'impronta
- del piede umano. Fuma il ramaiolo
- in cucina, un suo tondo di riflessi
- accentra i volti ossuti, i musi aguzzi
- e li protegge in fondo la magnolia
- se un soffio ve la getta. La tempesta
- primaverile scuote d'un latrato
- di fedeltà la mia arca, o perduti.
- Sulla colonna più alta
- Moschea di Damasco
- Dovrà posarsi lassù
- il Cristo giustiziere
- per dire la sua parola.
- Tra il pietrisco dei sette greti, insieme
- s'umilieranno corvi e capinere,
- ortiche e girasoli.
- Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice:
- scura, l'ali ingrommate, stronche dai
- geli dell'Antilibano; e ancora
- il tuo lampo mutava in vischio i neri
- diademi degli sterpi, la Colonna
- sillabava la Legge per te sola.
- L'Anguilla
- L'anguilla, la sirena
- dei mari freddi che lascia il Baltico
- per giungere ai nostri mari,
- ai nostri estuari, ai fiumi
- che risale in profondo, sotto la piena avversa,
- di ramo in ramo e poi
- di capello in capello, assottigliati,
- sempre più addentro, sempre più nel cuore
- del macigno, filtrando
- tra gorielli di melma finché un giorno
- una luce scoccata dai castagni
- ne accende il guizzo in pozze d'acquamorta,
- nei fossi che declinano
- dai balzi d'Appennino alla Romagna;
- l'anguilla, torcia, frusta,
- freccia d'Amore in terra
- che solo i nostri botri o i disseccati
- ruscelli pirenaici riconducono
- a paradisi di fecondazione;
- l'anima verde che cerca
- vita là dove solo
- morde l'arsura e la desolazione,
- la scintilla che dice
- tutto comincia quando tutto pare
- incarbonirsi, bronco seppellito;
- l'iride breve, gemella
- di quella che incastonano i tuoi cigli
- e fai brillare intatta in mezzo ai figli
- dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
- non crederla sorella?
- Da "Satura"
- Xenia I
- Avevamo studiato per l'aldilà
- un fischio, un segno di riconoscimento.
- Mi provo a modularlo nella speranza
- che tutti siamo già morti senza saperlo.
- Non ho mai capito se io fossi
- il tuo cane fedele e incimurrito
- o tu lo fossi per me.
- Per gli altri no, eri un insetto miope
- smarrito nel blabla
- dell'alta società. Erano ingenui
- quei furbi e non sapevano
- di essere loro il tuo zimbello:
- di esser visti anche al buio e smascherati
- da un tuo senso infallibile, dal tuo
- radar di pipistrello.
- La Storia
- La storia non si snoda
- come una catena
- di anelli ininterrotta.
- In ogni caso
- molti anelli non tengono.
- La storia non contiene
- il prima e il dopo,
- nulla che in lei borbotti
- a lento fuoco.
- La storia non è prodotta
- da chi la pensa e neppure
- da chi l'ignora. La storia
- non si fa strada, si ostina,
- detesta il poco a paco, non procede
- né recede, si sposta di binario
- e la sua direzione
- non è nell'orario.
- La storia non giustifica
- e non deplora,
- la storia non è intrinseca
- perché è fuori.
- La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
- La storia non è magistra
- di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
- a farla più vera e più giusta.
- La storia non è poi
- la devastante ruspa che si dice.
- Lascia sottopassaggi, cripte, buche
- e nascondigli. C'è chi sopravvive.
- La storia è anche benevola: distrugge
- quanto più può: se esagerasse, certo
- sarebbe meglio, ma la storia è a corto
- di notizie, non compie tutte le sue vendette.
- La storia gratta il fondo
- come una rete a strascico
- con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
- Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
- d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
- Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
- Gli altri, nel sacco, si credono
- più liberi di lui.
- La belle dame sans merci
- Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano
- le briciole di pale che io gettavo
- sul tuo balcone perché tu sentissi
- anche chiusa nel sonno le loro strida.
- Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e due
- e il nostro breakfast gela tra cataste
- per me di libri inutili e per te di reliquie
- che non so: calendari, astucci, fiale e creme.
- Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora, stagliato
- sui fondali di calce del mattino;
- ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il suo fuoco
- soffocato è il bagliore dell'accendino
- Morgana
- Non so immaginare come la tua giovinezza
- si sia prolungata
- di tanto tempo (e quale!).
- Mi avevano accusato
- di abbandonare il branco
- quasi ch'io mi sentissi
- illustre, ex gregis o che diavolo altro.
- Invece avevo detto soltanto revenons
- à nos moutons (non pecore però)
- ma la torma pensò
- che la sventura di appartenere a un multiplo
- fosse indizio di un'anima distorta
- e di un cuore senza pietà.
- Ahimè figlia adorata, vera mia
- Regina della Notte, mia Cordelia,
- mia Brunilde, mia rondine alle prime luci,
- mia baby-sitter se il cervello vàgoli,
- mia spada e scudo,
- ahimè come si perdono le piste
- tracciate al nostro passo
- dai Mani che ci vegliarono, i più efferati
- che mai fossero a guardia di due umani.
- Hanno detto hanno scritto che ci mancò la fede.
- Forse ne abbiamo avuto un surrogato.
- La fede è un'altra. Così fu detto ma
- non è detto che il detto sia sicuro.
- Forse sarebbe bastata quella della Catastrofe,
- ma non per te che uscivi per ritornarvi
dal grembo degli Dei.
- ©1999 Il club degli autori, Eugenio Montale
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
- Prima di scrivere, please, consulta le FAQ, è possibile che trovi la risposta
- http://www.club.it/notiziario/bacheca/faq.html
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