LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordientiGiovanni Testori
a cura di Gianmario Lucini
- Giovanni Testori nasce a Milano nel 1923. Di famiglia profondamente cattolica, ebbe col cattolicesimo un rapporto che egli definì "ancestrale" e che caratterizzò la sua opera letteraria. Frequentò il liceo S. Carlo e si laureò nel 1947 all'Università Cattolica di Milano in Lettere e Filosofia, con una tesi sul surrealismo che gli fu restituita perché (evidentemente) "deviante" rispetto al clima culturale del tempo. La trasgressione, la polemica, se non la ribellione, sono comunque una costante del suo carattere e del suo modo di essere intellettuale, sino alla fine della sua vita. Tanto da fargli dire in una delle sue ultime interviste al S. Raffaele di Milano (dove morì il 13.03.1993) che in fin dei conti preferiva quasi l'era fascista alla democrazia, perché in quel tempo almeno il nemico da combattere aveva una sua "torva e volgare evidenza", mentre la democrazia aveva una "torva e volgare compiacenza". Questo parlare fuor dai denti ciò gli procurò certo parecchi nemici e, in se stesso, quel sentimento di ambivalenza verso la religione e la società, verso la sua stessa Milano, quel suo modo sofferto di vivere la cultura cristiana, che è forse la caratteristica più emblematica della sua scrittura tanto che possiamo considerarlo, dal punto di vista della sua "cattolicità", lo scrittore più complesso del secondo '900. Forse in Testori più che in ogni altro, possiamo riconoscere i tratti della "devianza" che un sociologo del nostro tempo ascriveva agli intellettuali. Testori fu soprattutto un critico d'arte e fra i letterati, a parte Vittorini, Bassani, Arbasino e pochi altri, non ebbe molte relazioni. Le sue posizioni "pubbliche" comunque, investono non solo gli aspetti letterari, ma gli aspetti sociali, la vita sociale e politica italiana (negli anni '60 e fino alla stagione del cosiddetto "riflusso", la presenza degli intellettuali nella vita pubblica era molto forte, molti furono "opinionisti" di fama popolare, ad esempio Pasolini, Moravia, Turoldo, ecc., e così anche Testori).
- La sua poesia dunque, caratterizzata da tematiche vissute alla luce della religione, risente dell'ambivalenza, della dialettica fra sensi e teologia, fra spirito e materia, fra amore-vita e dolore-morte, ed è dunque caratterizzata da profondi dubbi che egli non seppe risolvere sino alla fine. A differenza di un altro poeta, il Turoldo, nel quale la tematica della morte è da sempre conciliata, mentre la tematica del dolore viene affrontata nelle ultime opere e risolta in un atto di fede e compartecipazione cosmica, irrazionale, Testori non riesce a conciliare al sua teodicea. Mentre Turoldo, per stare nell'accostamento, si avvale di una lucidissima argomentazione nel quadro di un impianto di fede quasi mai vacillante, Testori usa il paradosso dell'argomentazione retorica, talvolta con estrema violenza come "Nel tuo sangue", proprio per provare la capacità di tenuta del messaggio cristiano (non a caso, il secolo che egli preferisce e che studia come critico d'arte, è il seicento). Egli potrebbe anche apparire, da questo punto di vista, profondamente ancorato a una forma mentis razionalista e intransigente, di matrice filosofica, che lo spinge a mettere tutto in discussione, sempre, senza mai fine. É infatti uno che scrive molto, sempre iperattivo, incapace di darsi requie, come sottolinea Giovanni Raboni nella prefazione del volume sul quale mi baserò per presentare la sua poesia (Opere, 2º vol., Bompiani, 1997): "Ma per Testori, ormai lo sappiamo, nessun approdo &endash; nessuna quiete &endash; è davvero possibile; e dove chiunque si sentirebbe arrivato e dunque, almeno per un poco, si fermerebbe, lui continua". Un poeta col fuoco in corpo, dunque, e, specie nella poesia sul corpo, Testori stabilisce un caposaldo delle sue tematiche. Ed è questa fedeltà ai sensi, alla materia, alla concretezza, in rapporto dialettico con il pensiero, l'ossessione di Dio, il senso della sofferenza e dell'amore, il terreno sul quale egli fornisce una singolare e sofferta testimonianza di indagine poetica e intellettuale. Lo scenario di tutta la sua opera poetica si caratterizza dunque per i forti contrasti, per una forte dialettica fra misticismo e materia, che egli cerca di elaborare "teoreticamente" (se così ci si può esprimere per una poetica), in una specie di misticismo della materia che possa conciliarlo con se stesso, sollevandolo dal peso di un'ansia opprimente, che egli mostra in modo lacerante e unico nella sua scrittura.
- L'opera
- La scelta che è stata fatta in questa presentazione, è quella di cercare di ricavare da poche opere del Testori (due soltanto: "I trionfi" - la prima opera di poesia - e "Nel tuo sangue", il testo forse più denso di tutta l'opera testoriana) gli elementi tipici della sua poesia. Esporre "tutta" l'opera poetica sarebbe infatti operazione troppo complessa e lunga, per le caratteristiche di una pagina sul Web e, d'altra parte gli ultimi testi, "Ossa mea" e "In exitu" esasperano talmente il deforme linguistico da apparire ideologici, noiosi, dal senso imperseguibile, come scrive Giuliano Manacorda nella sua ultima edizione (1996) della Storia della Letteratura italiana contemporanea (Editori Riuniti). I testi che ho trascritto in appendice, rappresentano anche dal punto di vista dello stile alcuni "campioni" della sua evoluzione, da uno stile aulico e da una cercata retorica, allo stile compiuto e trasparente, essenziale, di "Nel tuo sangue" certo l'opera migliore, a mio gusto, di Testori.
- "I Trionfi" è la prima opera poetica di Testori (già romanziere, scrittore di teatro, critico d'arte famoso). Fu elaborato fra il 1963 e il 1964 e pubblicato nel 1965. All'epoca in poeta aveva 42 anni. Ed è l'opera che dà la stura alla vena poetica di Testori. Usciranno, negli anno dal '65 al '73 le due "Suite per Francis Bacon", "Dies illa", "L'amore", "Per sempre", "Theo", "Alain", "A te", "Ragazzo di Taino", "Nel tuo sangue": circa 800 pagine di versi e quindi non poca cosa - soltanto "I trionfi" conta oltre 12.000 versi. É realistico quindi pensare che tutta questa produzione abbia radici in un passato più remoto, sostiene Giovanni Raboni nella nota introduttiva al secondo volume delle "Opere".
- Il poema dei "Trionfi" quindi scoraggia per la sua mole e per il suo linguaggio (il tipo di linguaggio, fatto di periodi talvolta interminabili, denso di allusioni e rimandi extratestuali e a una vasta "enciclopedia") provocatorio ed esasperante. Ma è qui il linguaggio, come in altre opere testoriane, (in modo particolare mi riferisco al teatro della "Triologia degli scarozzanti", del 1977), un elemento ipersegnico del testo, un elemento di connotazione e non denotativo, che sta lì a proporre senso e solo con una secondaria funzione di stile, che non è certo, questo stile, congruente con lo spirito della poetica testoriana. È dunque un elemento voluto di deformazione, un elemento di scandalo, un messaggio di rottura con la lingua del neorealismo, dell'ermetismo e delle stesse avanguardie, che paradossalmente usa per i suoi scopi proprio i rottami più contestati della tradizione letteraria: i morti per cantare il trionfo della materia e della vita, l'ossessione fobica della morte. Lo stesso Raboni dice: "L'attraversamento di questo grande blocco di poesia non è agevole &endash; non è agevole, voglio dire, se non ci si spinge con lo sguardo verso ciò che ci aspetta, verso il Testori che matura e che verrà". Continua ancora Raboni, che lo definisce un poema "così ostentatamente declaratorio, intimamente protonovecentesco": "E la lingua? Alta, concitata, tragica: la lingua di uno smisurato, ininterrotto coro interiore fra la dilatazione.deformazione espressionistica del parlato e un'aulicità violentemente, funebremente gigantografata", e più avanti ancora parla di "barocco sontuoso", di "provocatoria esplosione di eloquenza figurale e figurativa in tempi di afasia procurata e di carestia dell'immagine", abilmente mascherati da una "meticolosa e al tempo stesso impetuosa concretezza vocale dietro la quale Testori fa letteralmente scomparire la macchinosità dell'impianto, del monologo il paradosso-miracolo di una sintassi estremamente sostenuta, da oratoria classica, eppure tutta, dal primo all'ultimo fiato, come gridata a perdifiato".
- Strutturalmente il poema si presenta in tre parti, separate da due intermezzi ("La medusa" e "L'ultima processione di S. Carlo). È composto di versi liberi, caratterizzati da una prosodia aulica, una metrica molto aderente al racconto testuale (e dunque, in certi passaggi, un veloce e concitato alternarsi di versi o gruppi di versi brevi e brevissimi &endash; non di rado il bisillabo o il monosillabo tronco), che conferiscono alla scrittura un tono lirico-drammatico alto e, in un certo senso, anche teatrale (un monologo, un recitativo-fiume). Quasi con noncuranza, ma certo non senza intenzione e sguardo accorto, il curatore del volume che sto esaminando, Flavio Panzeri, scrive: "il poema [è] viaggio affascinato dalle suggestioni artistiche e musicali, in particolare da una vera e propria passione dello scrittore in quel periodo per i Carmina Burana del musicista tedesco Carl Orff": non sono poche davvero le affinità fra i toni delle due opere d'arte.
- Il titolo rimanda ovviamente all'opera omonima del Petrarca, ed alcuni critici hanno creduto di trovare un riferimento petrarchesco in Testori (che comunque io non vedo, né per il linguaggio né per il modo di trattare la materia poetica, e tantomeno come ripresa della concezione dell'amore di quelle composizioni, certo le più formali del poeta &endash; casomai vi vedo l'influsso ma nel senso di un capovolgimento della poetica del Petrarca, prima di tutto nel messaggio, ma non ho tempo di approfondirne qui le ragioni). E poi, insomma, volenti o nolenti siamo un po' tutti figli di Dante e Petrarca
- Il ritmo e la tensione emotiva ci rimanda piuttosto per alcuni aspetti al primo Rebora, per altri a Giorgio Caproni e, in questo caso, anche al monologo shakespeariano, autori questi che lo stesso Testori riconosce essergli vicini). Sotto l'aspetto particolare del "tono", molto musicale e sostenuto, ma nello stesso tempo così malinconico (Carlo Bo, con la sua attenta sensibilità, nota una "tenerezza" in questi versi, che emergerà poi in raccolte successive) oserei proporre come vicinanza il Baudelaire. E viene in mente anche l'espressionismo tedesco di una Lasker-Schuler, di un Ehrenstein, di un Trakl.
- Lo stile è caratterizzato da elementi fonoprosodici che sottolineano e accompagnano il contenuto del messaggio (anche da qui un rinforzo alla "aulicità" del linguaggio, individuata dal Raboni), ma nello stesso tempo però è da sottolineare anche l'impiego di certe espressioni minimali, dimesse, anche se sono esse stesse inserite un questa prosodia aulica. Spicca una forte isotopia di alcuni lessemi intorno a pochi principali significati-simboli che stanno a cuore al poeta, attorno ai quali si condensa tutto il testo (l'amore, la spiritualità e la luce, la materia inerte, il sangue e il corpo, la vita, la morte, ecc.), connotandolo fortemente e conferendo alla paradossale prolissità della scrittura coerenza e, anzi, compattezza sintetica (e questo rammenta una scrittura di tipo dialettico più che retorico).
- Scrive sempre il Panzeri, citando un elemento paratestuale allegato alla prima edizione del poema: "Le origini di questa prima ispirazione vanno ricercate nelle stesse radici culturali di Testori: il teilhardismo da una parte e dall'altra la particolare erudizione dell'Autore". È dunque l'immagine, quella dei pittori barocchi di cui lo scrittore si stava occupando in quegli anni, che entrano trascritte nel poema. E perché il barocco? Proprio, com'ebbe a dire il poeta stesso, per "questo spasimo, questo senso della morte, della tensione massima, lo scavalcamento dell'uomo, della struttura, per arrivare a dire quello che non si può dire". È il barocco della pittura a cui egli accenna, più che il barocco letterario.
- L'obiettivo è quindi "arrivare a dire quello che non si può dire": questa affermazione, peraltro solo indirettamente riferita al poema, ben si adatta però alla tensione che esso esprime, di una sintesi fra corporeità e spiritualità. Ancora, egli stesso indica questa lettura dialettica del suo poema, in un saggio critico del 1965: "È dunque questo fatto che m'ha indotto a preferire a chi, come il Cerano, poi sembrò cercare il correlativo del tono oratorio, splendido e franante, chi, come il Tanzio, sembrò cercare quello del tono fisico, materico, plebeo e ingombrante nuove figure, nuovi rottami, teste, mani, vene, ossa, 'tesori' indicibili della disperazione umana di quel tempo (e, perciò stesso, di tutti i tempi). Quasi poi a insistere sulla necessità, circa la lettura del testo, della partenza psicologica qui proposta, anziché le oggettivazioni tanziesche della peste, ho preferito puntare sui ritratti che, del Borromeo, il Tanzio è andato, via via, strutturando".
- Il poema non ebbe successo, guardato biecamente dal Montale, fuori "dagli imperanti re della poesia inNobelata, dai sobillanti intrighi dei sessantatreisti (finiti dove?). Registravano troppo il cuore; e i suoi disperati movimenti", come l'autore rileva in un accorato corsivo sul "Corriere della Sera". Letto oggi, a distanza di trentacinque anni lontani dal clima degli ostracismi incrociati dei quali fu bersaglio, appare una straordinaria creazione in cui lo stile, gli elementi aulici e quanto di "protonovecentesco" può esservi, non disturbano affatto, ma si rivelano invece un formidabile, primo tentativo di rivisitazione del linguaggio della poesia al di fuori degli sperimentalismi, nel tempo storico ma anche con un occhio alla tradizione e alla materia stessa del poetare, appunto, quella tragedia umana del seicento, la "disperazione umana di quel tempo (e, perciò stesso, di tutti i tempi)". Un elemento intertestuale che ha a mio avviso, come ho già sottolineato, anche una portata semantica pertinente alle intenzioni dell'autore, funzionale rispetto al progetto globale dell'opera e, dunque, essenziale all'opera stessa, al suo significato e messaggio.
- Questa dialettica di materia inerte, ma anche di esistenza sanguinante e pulsante dei "Trionfi" viene, nella raccolta "Nel tuo sangue" (Rizzoli, 1973) a scontrarsi con la dura riflessione sul dolore, una riflessione, anche teoretica e morale, incapace di trovare un punto di arrivo, un approdo qualsiasi, una conciliazione tra la vita e il dolore.
- Qui esplode in modo provocatorio fino all'oscenità (così sta scritto sulla quarta di copertina) l'amore del poeta per la figura e il simbolo del Cristo; amore così forte da portarlo all'invettiva, allo scontro, al litigio passionale, al simbolico strazio della figura di Lui e della propria. Ma a ben vedere, alla luce della concezione riabilitante della carne e dell'amore sensuale (che è anche spirituale) de i "Trionfi", questa oscenità scompare, poiché nel sistema di pensiero di Testori, diviene un mezzo legittimo di espressione di passione, come una qualsiasi preghiera. D'altra parte, il "Tu" che indica in Dio-Cristo, è sempre scritto in maiuscolo, anche nelle parole che lo contengono (come: vederTi, provarTi, gettarTi, ecc.) Il Testori, caratterizza queste poesie con una forma vocativa (invocativa, invettiva, interlocutoria) dove però l'Io del poeta incarna un Io più corale, societario dell'uomo del '900, angosciato e disperato per la "morte di Dio", con l'inevitabile conseguenza di problematiche sia teologiche (teodicea) che filosofiche (senso dell'esistenza, ricerca di una "salvezza") affrontate con una sensibilità ancorata al concreto, pregna di umanesimo istintivo e passionale, ferma all'enunciato spesso delirante, senza tentare mai spiegazioni. Uomo che però, nonostante questa infinita nostalgia di Dio, non riesce ad accettare ciò che concepisce come limite: la sofferenza, la degradazione, la sconfitta della carne e della gioia di fronte al dolore (naturale e indotto da altri uomini). Il discepolo-apostolo Giovanni e Giuda (Iscariota, il traditore) sono i termini estremi di questa caratteristica oscillazione della relazione dell'uomo moderno con la divinità. Un Io paradigmatico e incarnato dal poeta quasi come a difesa dell'uomo contro la violenza del divino, contro l'incomprensibilità delle sue logiche. Un Io dunque frammentato, dubbioso, disperato, ambivalente, tentato dalla sublimazione e dall'annientamento nella figura sanguinante del Cristo ma nello stesso tempo in posizione di rifiuto, ossessionato da questa mancanza di un "oggetto" stabile verso cui indirizzare la sua riflessione e la sua passione, perché proprio questo "oggetto" è sentito avversario, ostile. Il contenuto delle liriche richiama anche i testi biblici più problematici e più conflittuali verso Dio, come il libro di Giobbe o il Qohèlet, o episodi come la lotta di Giacobbe con l'Angelo. Come in quei poemi, anche in queste liriche troviamo infatti l'accusa esplicita verso un Dio che abbandona i suoi ("Ha visto come ogni amante lasciato / che niente più resta / quando chi ama da noi se n'è andato, / soprattutto se, invece di un maschio violento / o d'un angelo pio / è un falso, orribile Dio) dopo averli sedotti e chiamati da uno stato di innocenza a una macerazione dubbiosa e dolorista ("che ha distrutto la mia pace / sei stato Tu / la tua falsità), mentre invece colma di doni i nemici (Ti unisci / anche ai tuoi nemici. / La tua fame / non ha mai fine). E infine rinfaccia al Dio-Cristo l'aver egli stesso assunto sembianza di uomo, di avere con la sua passione degradato la carne e dato un perverso significato teoretico al dolore ("sei un Dio che per avermi / s'è fatto morte, sangue / viltà"; "Sei un angelo, / un animale divino, / una bestia sconfitta / da porcile"). Viene qui ribaltato al negativo, proprio un punto forte della retorica teologica (per la teologia infatti è appunto questa la dimostrazione più alta dell'amore di Dio per l'uomo, ossia l'incarnazione del Cristo). Non è qui solamente la parafrasi di una "Passio" in termini crudi, c'è anche un senso di rivolta per la scelta redentrice, quasi un disappunto che la storia della redenzione sia passata proprio attraverso questa scelta, vista come perdente, della sofferenza (perché così facendo il Cristo propone all'uomo un senso della sofferenza, una giustificazione antropologica che però è difficile da accettare e condividere, specie nel poeta che, in tutta la sua opera, celebra la passione, la vitalità dei sensi, il trionfo della carne e della materia &endash; oseremmo dire, dello Zarathustra). Ma nonostante le apparenze non arriviamo certo al blasfemo. In questo libro infatti Testori è poeta, teologo, ma anche pittore: le sue descrizioni "blasfeme" sono solamente la metafora pittorica dell'idea di incomprensibilità della fede cristiana. Rappresentano un tentativo di afferrare, sentire dal di dentro di questa fede il paradosso dell'amore che è anche il paradosso (in senso teologico) del patire del Cristo, il fraintendimento che porta a considerare questo amore una sorta di imbrigliamento, di condanna ("storia di redenzione e d'omertà"), l'incomprensibilità di un gesto affidato alla libera interpretazione dell'uomo senza l'assistenza di una parola certa e definitiva ("Ma tu non parli / non dici"). Ma il tentativo non ha successo, al di là degli slanci passionali che appaiono però più un proposito, un modo, una testa di ariete per sfondare l'ermetismo e la ieraticità di questo messaggio. Anche qui, ravvisiamo in questo approccio un elemento razionalistico e intellettualistico (il voler "com-prendere" a tutti i costi, il voler elaborare la realtà e non solo descriverla, significarla), laddove un Turoldo avrebbe usato l'irrazionalità della sapienza, l'abbandono, la speranza. Ma l'uomo moderno non è certo somigliante al sapiente Turoldo, ma all'iper-riflessivo Testori, e nel gioco introiettivo della poesia le parti si invertono: ci sembra molto più "comprensibile" l'invettiva e la passione testoriana della salda riflessione turoldiana. Con questo non si vuol certo dire che la scrittura di Testori sia intellettualistica (proprio lui!), ma solo sottolineare un elemento di iper-razionalità che comunque è significativo per gli effetti che ha sui suoi testi.
- Il libro è caratterizzato, fin dal titolo, da un forte significante: il sangue; è intriso di sangue che cola e s'aggruma, che grida e si ribella, che fugge via dall'uomo più che dal Cristo, un sangue che è eros e forza vitale che non trova un preciso significato ma oscilla sempre fra morte e vita, fra istinto e razionalità, fra grandezza e peccato, veicolo di vita e cosa immobile, secca, sprecata. Dunque il sangue sconfitto e misto ad arena, non il sangue vitale dei "Trionfi" La scena è quella tipica del teatro, una riflessione ad alta voce, drammatizzata, della vicenda ultima del Cristo sul Golgotha. Il richiamo al dramma, alla tragedia, al teatro è evidente. La tragedia forse è la sola forma che possa rappresentare, l'ineluttabilità della vicenda umana dal vivo, con una forte carica passionale ed emotiva.
- È un testo dal carattere estremamente unitario, come sottolinea Raboni nella nota già citata: "strutturato per abbaglianti lacerti o reliquie attorno a un nucleo di feroce, raccapricciante compattezza: la collutazione con il Dio ascondito &endash; un Dio non ancora accettato, non ancora dato per esistente e tanto meno per affidabile e tuttavia cercato con uno slancio, un'audacia, un tremore di struggente, primitiva purezza". Il linguaggio è profondamente diverso che nei "Trionfi", certo non aulico, a volte molto semplice, alieno anche dalle forme sintattiche più comuni in poesia, come l'inversione, senza particolare attenzione agli elementi fonoprosodici che comunque non mancano (l'unico elemento reiterante, volutamente osservato, è la rima, usata però come assonanza e senza schemi, spesso anche interna). Ci avviciniamo dunque al linguaggio funzionale, d'uso comune, ma sempre con un confine molto netto e molto marcato con questo linguaggio. Sarebbe impossibile, anche in quelle liriche o quelle strofe dove l'ipersegno poetico sembra debole, recitarle come si "parla" un linguaggio funzionale. E certamente, nonostante questo linguaggio meno alto, il tono si fa più asciutto, efficace, rapido, essenziale: oserei dire che, dal punto di vista stilistico, vi è un abisso con i "Trionfi", e ci consegna un Testori straordinariamente moderno, dallo stile pulito, mozartiano.
- Spero con questo, di aver fornito alcune coordinate sufficienti ad una ulteriore e ancor più proficua interpretazione personale delle opere di questo grande artista degli anni "caldi" dell'Italia contemporanea.
- Nota bilbiografica
- Gli studi critici su Testori sono tuttora non conclusi. Per questa nota, ci siamo avvalsi del 2º volume delle Opere (in 3 volumi, per i tipi di Bompiani), con le preziose indicazioni di Panzeri e Raboni, dell'edizione Rizzoli di "Nel tuo sangue" (1973) e del testo una intervista, forse l'ultima fatta a Testori da Elena Urgnani che è autrice fra l'altro della voce "Testori" in Dictionary of Literary Biography. Twentieth Century Italian Poetry, vol. 128, Columbia, NC: Bruccoli, Layman, 1993, pp. 326-332 (l'intervista è presente su Internet).
- Le opere di poesia di Giovanni Testori, quasi tutte raccolte nel volume Opere, per i tipi di Bompiani, sono le seguenti:
- I trionfi (1965)
- Suite per Francis Bacon I (1965)
- Suite per Francis Bacon II (1965)
- Dies Illa (1965 &endash; 67)
- L'amore (1968)
- Per sempre (1970)
- Theo (1970)
- Alain (1971)
- A te (1972-73)
- Ragazzo di Taino (1976)
- Nel tuo sangue (1973)
- Conversazione con la morte (atto unico in poesia &endash; 1978)
- Interrogatorio a Maria (atto unico in poesia &endash; 1979)
- Ossa mea, Mondadori, (1983)
- In exitu, Mondadori, (1988)
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- ©1999 Il club degli autori, Giovanni Testori
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it- Prima di scrivere, please, consulta le FAQ, è possibile che trovi la risposta
- http://www.club.it/notiziario/bacheca/faq.html
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