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LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
I grandi poeti del '900
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Patrizia Valduga

a cura di Gianmario Lucini

Patrizia Valduga
 
É nata a Castelfranco Veneto nel 1953 e vive a Milano. Ha tradotto i sonetti di John Donne e da Mallarmé, Kantor, Valery, Crebillon, Moliére, Céline, Cocteau.
 
Patrizia Valduga si distingue fra i poeti contemporanei, per la particolarità della sua ricerca sul linguaggio, come avverte Luigi Baldacci in una sua nota introduttiva a Medicamenta e altri medicamenta (1989). Scrive Baldacci: "La Valduga ... ha fatto sua la crisi di linguaggio della poesia moderna. Non è un poeta in crisi, ma un poeta che parla con la crisi, servendosene. E nessuno ha colto, come lei, la situazione di impossibilità che ha lasciato dietro di lei il discorso di Montale: non perché fosse impossibile dire meglio, dire di più, ma perché è ormai impossibile dire qualcosa con quelle parole. In questa camera carceraria ... sono ammessi ancora dei giochi; ma il più importante non è quello erotico: è quello di chi si diverte a ritagliare il linguaggio degli altri, a lavorare di forbicine e colla. ... non so trovare o vedere, oggi, un linguaggio poetico che sia più linguaggio di questo". Baldacci intravede in questo uso del linguaggio la metafora di uno strazio: "questa capacità di canto e di strazio è solo delle donne, o meglio della poesia femminile (che è una categoria aperta a tutti), e poiché Patrizia Valduga possiede al massimo grado questa capacità &endash; nel senso che ... strazia il proprio canto, lacera il patrimonio di parole che le è venuto in eredità dalla tradizione &endash; ecco che questa poesia è per me qualcosa che, nell'accezione che abbiamo detto, sopravanza ogni contemporaneo".
I caratteri di questo linguaggio, così ben delineati dalla nota di Baldacci, appaiono una costante in tutta l'opera (il cui "corpus" ormai comincia diventare notevole, se si tiene conto anche delle traduzioni) della Valduga.
In questa "presentazione" preferiamo però, invece di prendere in considerazione l'evoluzione dello stile della poetessa, soffermarci sull'ultima sua pubblicazione, ossia Cento quartine e altre storie d'amore", Einaudi, 1997 (e sulle Quartine in perticolare) ed aggiungere solo alcuni esempi del suo stile precedente, in appendice (ho scritto "preferiamo" perché in queste note attingo largamente a una corrispondenza con Daniela Manzini per posta elettronica, contenente alcune osservazioni che mi sembra importante riferire).
 
In Cento quartine, "Il discorso poetico è tenuto dalla donna, ma l'uomo vi entra, lo rompe di continuo, con l'ausilio tipografico delle virgolette. Prima ancora dei corpi, sono le frasi ad attorcigliarsi l'una con l'altra: gli atti carnali equivalgono agli atti di parola; e viceversa. ...é un linguaggio osceno, corpolalico - che non comunica il godimento ma lo produce, fa il godimento della coppia. E' esso stesso, per usare una bella immagine della Valduga, "il desiderio che non trova pace / e va peregrinando sul tuo corpo". E' una lingua in cui l' espressione è l'azione vera e propria." (Luciano Gramigna, recensione sul Corriere della Sera).
Questa ultima opera, pur proseguendo nei suoi contenuti temi già affrontati, mostra una maturità di stile mai prima eguagliata dove quel "lavorare di forbicine e di colla" "servendosi di materiale da riporto" sembra raggiungere un equilibrio invidiabile fra linguaggio letterario e linguaggio parlato, provocando un effetto, anche estetico, di grande interesse. Gli elementi fonoprosodici abbondano e creano rimandi continui di senso. L'uso di espressioni del parlato con rimandi a elementi più letterari, crea significati a volte ironici, a volte amari, spesso in contrasto, in antinomia, sì che sarebbe di grande interesse soltanto questo elemento, non solo per la sua potenzialità nel vivacizzare lo stile e lo stesso linguaggio, ma anche come creazione aggiuntiva di senso, come surplus di senso che nel semplice aspetto numerico del testo non sono detti. Siamo qui di fronte non solo a una poetessa interessante per i contenuti, ma anche a una vera e propria artigiana del testo, nel senso ovviamente più alto che qualcuno usò nel definire J.S. Bach un "artigiano della musica".
Se passiamo all'esame dei contenuti, possiamo notare che l'autrice sembra sostenere la tesi una distanza insanabile fra maschio e femmina. Nell'orizzonte temporale di una sola notte, i personaggi si chiudono in una diade narcisistica che si esibisce senza ritegno (specie quello maschile) e che si gioca su due registri: un registro femminile teso a costruire una stabilità, una vicenda processuale nel tempo, un linguaggio nel quale tutto l'essere comunichi, mente e corpo; accorto, riflessivo, attento ai simbolismi, alle sensazioni interiori, a mai perdere di vista un dialogo mente-corpo, pur esprimendosi certo senza pudore e senza veli:
 
3
Ho paura di te: sei così bello!
Non affogarmi in notti tanto nere
se prima non mi apri nel cervello
la porta che resiste del piacere.
 
8.
Ora lo sai: ho bisogno di parole.
Devi imparare a amarmi a modo mio.
E' la mente malata che lo vuole:
parla, ti prego! parla, Cristoddio!
 
35.
Terra alla terra, vieni su di me:
voglio il tuo vomere nella mia terra,
fiorire ancora traboccando e
offrire il fiore a te, mio cielo in terra.
 
88.
Càlati giù, o notte dell'amore,
fammi dimenticare la mia vita,
accoglimi nel seno del tuo cuore,
liberami dal mondo e dalla vita!
 
e un registro maschile che si focalizza esclusivamente su un piacere più ginnico che amoroso, dove il protagonista sembra soltanto preoccuparsi per la propria immagine di "maschio", e usa un linguaggio denso di schemi e meccanicismi, dove la fantasia è talmente bloccata e difesa da richiedere, per eccitarsi, la reiterazione dell'oscenità; ed è assente, pragmatico, banale, chiuso in una visione scissa della sessualità, allusivo alla bestialità e alla somaticità:
 
2.
"Tu mandali a dormire i tuoi pensieri,
devi ascoltare i sensi solamente;
sarà un combattimento di guerrieri:
combatterà il tuo corpo e non la mente."
 
44.
"Non muoverti. Sta' ferma. Ho detto; ferma!
Che senta la tua fica fino in fondo
Bocciolo mio, ti innaffierò di sperma
Finché avrà fine il tempo e fine il mondo."
 
47.
"Allora che l'hai fatta? sei venuta?
e come sei venuta? Dimmi". Prego?
"Se ti è piaciuto molto sei perduta."
Non lo posso negare e non lo nego.
 
71.
Perché anche il piacere è come un peso
e la mente che è qui mi va anche via?
Su, spiegamelo tu. "Per chi mi hai preso?
Per un docente di filosofia?"
 
73.
"Mucchi di mondi, grappoli di stelle...
sfoggio di universo mica per noi..
Stiamo vicini... pelle contro pelle...
e poi, mia vita, salvati se puoi!"
 
Gli amanti incontrandosi nell'atto sessuale, non riescono a comunicare su quest'atto o anche solo a parlare, a comunicare tout court, riducendo inesorabilmente il simbolismo della sessualità a un rituale quasi di sopravvivenza, schematico, corredato dalle "abilità" necessarie al caso per essere efficienti amatori.
 
45
Da nervi vene valvole ventricoli
da tendini da nervi e cartilagini
papille nervi costole clavicole...
In spasmi da ogni poro mi esce l'anima.
 
49.
Dal mio martirio viene questa pace,
questa pienezza dalla tua rapina...
A tutto ciò che non ha nome e tace
sento l'anima mia farsi vicina.
 
E l'incontro avviene e può soltanto avvenire nel luogo dell'osceno, del triviale. La sola comunicazione possibile, il solo registro, è questo. Ma quando la protagonista tenta un dire che vada nella direzione di una profondità di sentimenti, allora il colloquio si interrompe con una frase banale o una freddura da parte del "lui", con evidente intento autodifensivo (immagine dunque, di un maschio eterno adolescente). Il senso dell'incomunicabile traspare da ogni poro in questo canto all'apparenza solo sanguigno, ma in realtà anche disperato ("lacerato", direbbe Baldacci)
Il tempo dell'amore è un tempo vissuto di fretta, il breve tempo dell'amplesso; fuor da esso il tempo non ha senso se non come scansione di futuri e passati incontri amorosi. Sarebbe come dire che l'amplesso, strumento dell'intesa amorosa, diventa il senso di tutto, il solo riferimento, il solo aspetto comprensibile nella relazione.
 
100.
"Vuoi che tutto finisca e niente duri?
che ognuno vada a fare i fatti suoi?
stacco il telefono, chiudo gli scuri:
e che la notte ricominci! Vuoi?"
 
Scrive Daniela Manzini: "La formula legata alla mortalità dell'uomo è l'incipit di una quartina festosa, ma ben si adatta alla linea "luttuosa" dell'autrice di Donna di dolori, il che poi in ultimo segna che la vena di Patrizia Valduga è in continua evoluzione, mantenendo però sempre sottesi e presenti gli elementi che contraddistinguono la sua creatività: una linea sottile e pressocché invisibile collega le tombe, i sarcofaghi, e il tenebroso elevato a sublime della precedente raccolta, a Cento quartine". Giudizio acuto e condivisibile, perché sottolinea lo spirito di "meccanicità" vs/ "simbolicità" che caratterizza questa raccolta.
Davvero il maschio esce da questo libro piuttosto malconcio, con una implicita pesante accusa di rozzezza d'animo, se non di schizofrenia. Ma anche la femmina non ne esce poi così bene perché, se pur è colei che mostra ricchezza di sentimento e di pensiero in tutto questo gran movimento di meccanismi sessuali, se pur mostra consapevolezza dei limiti della scena, in verità non fa poi molto per cambiare il verso e il senso dell'evento, ma accetta le regole imposte e rientra in una sua dimensione (che urta il maschio e lo fa sentire in colpa) che è senza dubbio ricca: ed è qui che si ritrova sola. Una dimensione ricca e perdente, una sconfitta del sentimento che ribadisce implicitamente l'accusa alla figura maschile di brutalità e insensibilità. Il narcisismo qui non è neppure di coppia, ma individuale: due mondi opposti che si scambiano commercialmente dei prodotti con una certa equità, ma nulla più. Il gioco soddisfa perché gli attori si soddisfano usandosi a vicenda. Ed è un gioco precario, quasi casuale: niente a che fare con l'amore.
 
96.
"No, niente amore qui, soltanto sesso:
non svegliamo l'invidia degli dèi".
Ora che tanto bene mi hai concesso,
dio dell'amore, miserere mei...
 
Se questa interpretazione può essere condivisibile, ne consegue che il libro della Valduga, all'apparenza giocoso e spregiudicato, erotico, sensuale, in realtà è una lacerante e lacerata denuncia di un modo di vivere la sessualità umana completamente alienato, e dunque insoddisfacente (potremmo dire: la rappresentazione del volto gioioso leggero di una pena profonda e amara). Pur senza accuse specifiche, ma anzi con una spregiudicata e coraggiosa autocritica, denuncia della propria impotenza e della propria assenza di protagonismo. Qui abbiamo infatti non soltanto il disvelamento della carne, ma anche dello spirito, e non solo quello dell'altro-da-sé, del "Gegenstand", ma anche del proprio, quello della protagonista scrivente. Per questa onestà intellettuale di non tacere anche le scomodità che il proprio sentire su se stessi traduce in poesia, io ammiro molto Patrizia Valduga: non è infatti cosa poi tanto comune nella poesia contemporanea, che spesso preferisce la costruzione linguistica "neutra" e l'artificio barocco, che però non toccano certe nostre intime corde, che solo un sentire esistenziale, forte nella Valduga, può toccare.
 
 
Patrizia Valduga a tutt' oggi ha pubblicato:
 
1982 - Medicamenta - Premio Viareggio opera prima (Guanda)
1985 - La tentazione (premio Clemente Rebora)
1989 - Medicamenta e altri medicamenta (Einaudi)
1991 - Donna di dolori (Mondadori)
1991 &endash; Raquiem (Marsilio)
1996 &endash; Corsia degli incurabili (Garzanti)
1997 - Cento quartine e altre storie d'amore (Einaudi)
 
Clicca qui per leggere alcune poesie

 

 

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Aggiornato il 2 giugno 1998