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Luigino Angelucci

10° classificato alla sezione narrativa del concorso

Marguerite Yourcenar 1996

col racconto:

Lui, lei l'altra

 

Questo cielo grigio, quasi plumbeo, non voleva proprio saperne di lasciar passare un raggio di sole; e imperterrito continuava a rigare i nostri sguardi con una lenta e silenziosa pioggia che cadeva su ogni cosa come a voler lavare questa spigolosa città da un qualche peccato originale.

In altre parole, era un giorno come gli altri, con la sua consueta frenesia nevrotica, il suono assordante dei clacson e quella tipica aria irrespirabile pregna di smog che solo le grandi città sanno offrire.

A completare il quadro un freddo secco che ti passava la carne, testardo, fino ad arrivare alle ossa. Un freddo che solo il calore vero del fuoco può vincere. E in città erano davvero pochi quei nostalgici che se lo potevano permettere.

Lei era tra quei pochi, e stancamente riposava adagiata sulla sua poltrona di morbida pelle nera di fronte ad un caminetto rustico acceso e fumante.

Solo una melodia turbava l'irreale silenzio di quella stanza una musica d'altri tempi, una musica che apparteneva ai ricordi della sua giovinezza e che l'aveva accompagnata lungo tutta la strada che quotidianamente aveva percorso dal sogno alla realtà.

Una musica che parlava alla sua anima stanca e turbata; una musica in cui poteva riposarsi, chinando il capo e lasciandosi andare leggera, quasi languida, mentre con gli occhi seguiva i riflessi del fuoco e con la fantasia rincorreva i riccioli di fumo che lenti salivano su per la cappa del camino.

Il beep del citofono sembrò svegliarla da un lungo sogno.

Tremò e sussultò, poi stancamente si trascinò fino al citofono con la coperta sulle spalle. Al citofono una voce: «Ciao…» silenzio… era il passato che riaffiorava… «Ciao, mi riconosci? Sono venuto per quel caffè… ».

Una parola sola, come un sibilo, le uscì dalla bocca: «Aldo?».

«Sì, sono io». Rispose la voce.

In un attimo le tornarono alla mente tutte le lettere e tutte le telefonate legate a quel solo nome; e i pomeriggi trascorsi a sognare di un futuro impossibile, e le ore davanti al telefono aspettando che squillasse e che quella stessa voce, di cui conosceva solo il nome &endash; Aldo, appunto &endash; le raccontasse del suo amore per lei.

Aveva amato quella voce e spesso si era scoperta a desiderare di sentire ancora quella sua risata così sincera, così limpida. Chissà perché, di punto in bianco, così come erano cominciate quelle telefonate finirono.

Dopo tutti quegli anni era ancora lì a chiederselo…

Eppure non le era sembrato di aver detto qualcosa di sbagliato, o di avergli chiesto troppo…

Perché? Perché era andato via? Perché l'aveva abbandonata, lasciata sola? Sola, ancora una volta.

La sua voce la risvegliò: «Posso salire?».

Balbettò la risposta: «Certo, è al terzo piano». Ma lui la anticipò e lei sorridendo pensò: "Come sempre!".

Erano più che adulti ormai, e se i suoi conti non erano errati doveva avere quarantatre anni, sempre che all'epoca non le avesse mentito sui suoi ventiquattro anni.

Andò di corsa a posare la coperta; poi, infilata la vestaglia buona, si precipitò alla porta. Lo vide uscire lentamente dall'ascensore… Non le sembrò neanche lui. Solo l'altezza coincideva, per il resto nulla le ricordava il suo Aldo, quel bel ragazzo biondo scuro che sorrideva davanti al mare in calzoncini verde smeraldo, sempre che fosse lui in quella fotografia, quell'uomo non aveva che la voce del suo Aldo, i suoi lineamenti dolci proprio non riusciva a riconoscerli in quel viso duro e spigoloso che oggi si trovava di fronte. Gli occhi, certo, erano dolci, ma nella foto erano coperti da una spiritosa mascherina nera… Si riprese quando sentì quella voce salutarla, allora lo guardò e lo vide per quello che era. Un uomo di quarant'anni suonati con una pipa odorosa in bocca ed una folta barba striata di bianco.

Le sue spalle le sembrarono troppo larghe, ma forse era solo il suo impermeabile scuro… gocciolante come i suoi lunghi capelli che gli cadevano sul volto in riccioli scomposti.

Lo fece entrare. Quante volte aveva desiderato, da ragazza, di vivere quella situazione; intere notti avevano accompagnato le sue fantasie, e ogni notte se lo immaginava diverso il loro incontro… ma mai così.

È proprio vero, la realtà supera sempre la fantasia.

Lui si tolse l'impermeabile e svelò il mistero. Il suo corpo lo tradiva, non poteva essere Aldo, quelle spalle così larghe non potevano essere le sue; ma la voce, quella voce… non poteva ingannarsi…

Ecco che improvvisamente un lampo le riportò alla mente un nome: Icaro, l'amico di Aldo. Alle volte, al telefono, lui le aveva parlato di quel suo amico; e la descrizione fisica coincideva, ma la voce, quella voce…

Preparò il caffè, mentre lui silenzioso la guardava dall'altra parte del tavolo muoversi nervosamente. Gli servì un caffè nero bollente, di quello liofilizzato americano, come piaceva a lui, in una grande tazza di ferro smaltata rossa.

Sorridendo gli disse che quella tazza l'aveva comprata una sera a L., pensando a quando il suo Aldo ci avrebbe bevuto; ed era ancora lì, nella sua credenza, dopo tutti quegli anni, nuova.

Lui la guardò con un'aria un po' incerta; si capiva che voleva dirle qualcosa, ma che le parole che si era preparato gli morivano però tutte in bocca, lasciandolo lì inerme.

Allora fu lei a parlare: «Non sei Aldo, vero?».

Con un sospiro il volto di lui si distese, lei aveva capito.

Subito lei lo incalzò: «Perché mentire sul nome? E perché la foto di un altro?».

Ma ancora prima che lui potesse aprir bocca, lei gli chiese, parlando tutto d'un fiato, l'unica cosa che veramente le premeva sapere: Perché l'aveva abbandonata?

Il volto di lui si rigò di lacrime, avrebbe voluto dirle che non l'aveva mai abbandonata, ma sapeva che non era vero e che non era lì per continuare quell'assurdo gioco di quasi venti anni prima.

Lentamente, con lo sguardo chino, le disse che Aldo non era mai esistito e che lui non era "la sua ossessione", o meglio ne era solo la voce.

Il singhiozzo di lei fermò la sua voce, poi con una risata isterica lo schernì: «E chi sei allora?». Gli chiedeva in lacrime. Lui pazientemente prese a raccontare.

A Roma, quando era ancora uno studente, aveva conosciuto una bella ragazza di E., e subito tra loro era nata una grande amicizia. Tra di loro non c'erano segreti; o meglio uno c'era, ma lei gli disse che non lo avrebbe mai rivelato. Lui, caparbio, volle entrare nella sua stanza segreta e col tempo riuscì a strapparle anche quel segreto: il suo cuore custodiva un tenero amore, e quel suo amore era per lei.

Le sue parole la colpirono con una violenza inaudita, e stordita si ritrovò seduta e tremante…

… Ma quella voce continuava a parlare… Lui non le aveva creduto e ci scherzava anche su, ma quando lei un giorno le fece leggere il suo "Memoriale", lui ne rimase sconvolto. Non aveva mai saputo cosa fosse l'amore, ma sapeva riconoscerlo, e quello era amore, per quanto strano ed insolito fosse.

Da quel giorno non si burlò più di lei, ed accettò di fare la "voce".

Il nome venne da solo, scherzandoci su, e i primi tempi dovette quasi trattenere le risate quando le parlava al telefono; ma poi, forse immedesimandosi troppo nella parte, prese anche lui ad aspettare quei sabato pomeriggio, e la sua voce si fece seria.

Non capiva, ma sapeva di trovarsi davanti a qualcosa che trascendeva la pura razionalità, e pertanto non poteva esimersi dal rispettare il sentimento che legava quelle due anime belle per mezzo della sua voce.

Ma un giorno, così come aveva previsto, la sua amica vinse il muro che la sua coscienza aveva costruito attorno al suo cuore, e grazie al suo "Virgilio" finalmente aveva imparato ad amare.

Il percorso era ormai giunto al termine: «Le rose che amo di più sono quelle che non colsi mai», le aveva scritto una volta. Da quel giorno non ci furono più né lettere, né telefonate. Solo il ricordo &endash; nascosto in un angolo del cuore &endash; di quel tenero amore che tanto le aveva donato, viveva in lei, ormai velato di nostalgia e gratitudine…

Ma lui spesso pensava a quella ragazza lontana, ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti; e un po' si sentiva in colpa, come se si fosse trattato di un semplice scherzo, ma non era così e lo sapeva bene.

Così, quando un giorno lesse quel cognome nell'elenco di una delle classi in cui avrebbe insegnato, lo riconobbe subito. Pensò ad una coincidenza, ma fece comunque le sue ricerche. Quella sua allieva era proprio sua figlia.

Che cosa avrebbe dovuto fare?

Le sue notti divennero insonni, non sapeva decidersi.

Poi un giorno come gli altri, piovoso e spento, decise di presentarsi alla sua porta e dirle tutto. Non sapeva nemmeno lui perché, ma decise che era giusto farlo e andò.

Ecco tutto, ora anche lei sapeva.

Guardandola le sembrò di vedere riflesso nei suoi occhi il cielo piovoso di quei giorni e col suo fazzoletto, dolcemente, le asciugò le ultime inconsolabili lacrime.

Ecco che anche quell'ultimo sogno le veniva strappato via.

Lui silenziosamente si alzò; prese il suo impermeabile ed andò via. Lei lo guardò chiudersi la porta dietro le spalle ancora seduta sulla stessa sedia, e quando la porta fu chiusa sentì il suo corpo sconvolto da un lungo singulto, e nuovamente scoppiò in lacrime.

Pianse tutta la notte, e fu una notte interminabile… solo al mattino trovò il conforto del sonno, e la figlia giura di averla sentita sussurrare un nome nell'istante stesso in cui si addormentava: Aldo.

Aveva deciso che mai nessuna realtà avrebbe potuto rubarle anche quel suo ultimo sogno.


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