Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Maria Rosaria Cau
Ha pubblicato il libro
Maria Rosaria Cau - I racconti di Nonna Iaia


 
 
 
Collana I salici (narrativa)
17x24 - pp. 128 - Euro 20,00
ISBN 88-8356-867-2

Prefazione
Nota dell'Autore
Incipit

Prefazione
Con racconti fantastici e storie che attingono alla propria terra di Sardegna, Maria Rosaria Cau attinge con grande amore al pozzo della fantasia e il suo narrare favole ha un profondo significato morale: le invenzioni aiutano a riscoprire e rivalutare sentimenti come l'amore, la famiglia, il rispetto degli altri che sono poi i valori sui quali si fonda una società.
Non si può rimanere insensibili nel leggere queste storielle raccontate con spontaneità e schiettezza nelle quali sempre emerge il desiderio di comunicare con grande passione. I luoghi visitati e le vicende inventate in un girovagare della fantasia non sono altro che le tappe del viaggio dell'uomo, la testimonianza di un recupero della memoria che una volta era delle persone con molte stagioni sulle spalle.
Ecco allora i ricordi d'infanzia quando la stanza era illuminata dalle fiamme del camino, le primavere facevan pensare ad una eterna giovinezza, ed era una gioia immensa inebriarsi dell'aroma del caffè servito dalla nonna: e gli sguardi pieni d'amore donavano una felicità indescrivibile.
I vecchi seduti sui gradini del sagrato, taciturni, immobili e indifferenti, le peregrinazioni per le viuzze del paese e, col passare del tempo, quel desiderio di assomigliare alla nonna.
In fondo al cuore rimane l'attesa del sabato, quando finalmente i suoi nipotini possono andare a dormire a casa sua.
Ed è allora che in Nonna Iaia si scatena la fantasia nel raccontare una improbabile scoperta dell'America. La storia di Leno e Salvador, a viaggiar nel circo di Zuzù, Fiacca, Fagiolino e Pepé, a giocar con due bambine Olga e Miriam alla scoperta degli ultrasuoni, o a conoscere la vera storia degli extraterrestri.
Eppure tutte le storie sono legate ad un filo conduttore che è l'amore: l'unica forza capace di unire gli uomini, di farli incontrare e parlare con sincerità.
E poi una cosa è certa: è ancora meraviglioso ascoltare una amorevole mamma o una saggia nonna raccontar favole ai bambini.
Non rimane che sperare nell'Uomo con la speranza che queste favole siano di buon auspicio per il futuro.

 

 

Massimiliano Del Duca


I racconti di Nonna Iaia
 


 
Come diventare nonni
 
 
Chissà come si fa a diventare nonni, mi ripetevo misurando il terreno coi piedini agili e scalzi saltellando come uno stambecco sulle gambette secche secche, facendo dondolare le trecce lunghe e nere quasi più lunghe di me, che, piccina piccina, quotidianamente attraversavo il cortile battuto a pietra e il pollaio, dove di solito una gallina bianca passeggiava alzando molto le zampe prima di posarle a terra: imitava il mio saltellare. Mi seguiva, così cominciavo a camminare lentamente come la gallina finché non superavamo il cortile adiacente alla nonna Luisica Sorgia e del nonno Umberto Cau (nonni paterni). Di prassi la nonna in Sardegna viene chiamata "aiaia" e il nonno "aiaiu". Di solito la gallina si fermava quando io varcavo la porta della cucina di aiaia Sorgia (allora tutti i compaesani lasciavano le porte socchiuse: non esistevano le chiavi). Ritta al centro della cucina chiamavo: «Aiaia, aiaiaaa!» e avanzavo a punta di piedi per non sciupare il pavimento battuto a terra che nonna aveva rinfrescato di recente levigandolo con un impasto di terra rossiccia, paglia di grano fina fina, quasi setificata, ed acqua di pozzo. Facevo attenzione a non posare le mani sulle pareti anch'esse imbiancate di recente di calce bianca e stampata di fiorellini colorati, che, illuminati dalla fiamma del camino, perennemente acceso, le cui scintille si riflettevano specchiandosi nelle pareti e tremolanti come steli animavano i fiori; danzavano a seconda dell'ondeggiare della fiamma e mi davano l'idea della primavera e dell'eterna giovinezza. Aiaia Sorgia, con fare solenne, chinava la caffettiera verso la cenere calda ammonticchiata in un angolo del camino e, lentamente, versava il liquido scuro nella chicchera bianca dal bordo dorato; poi con un cucchiaio di legno lucido e scuro, intarsiato di quadrifogli, misurava lo zucchero, ma infine, ne aggiungeva sempre un'oncia.
Poi, dolce dolce, mi porgeva la chicchera con caffè fumante e dolce più del miele. Lo sorseggiavo inspirando il profumo ed i miei occhi riconoscenti incontravano quelli di aiaia Sorgia. Mi sentivo felice di averla come nonna. La ringraziavo con lo sguardo; quante parole può esprimere lo sguardo!
Poi, saltellando gioiosa, attraversavo la strada principale del mio paese, mi segnavo piegando il ginocchio a mò di inchino dinanzi alla chiesa di San Sebastiano e vedevo seduti sui gradini del sagrato i vecchi, che tutto il santo giorno stavano lì, taciturni nei loro dolori e immobili seguivano il via vai dei compaesani che conoscevano i fatti di tutti, ma, indifferenti, parevano già morti e a stento rispondevano al saluto rispettoso dei passanti.
Doverosamente, anch'io li salutavo: «Buon giorno!» e loro, in coro rispondevano al rituale saluto.
Al mio paese, allora, non vi erano fognature, e il rigagnolo d'acqua che scorreva giù per la strada era coperto da un rivolo di ghiaccio a seguito della brinata mattutina, ed io, oramai abituata al volger delle stagioni, incurante saltellavo coi piedini nudi evitando il rivolo di ghiaccio e gli angoli umidi e nerastri ove non batteva il sole, e in ogni sfondo di straducola che attraversavo, dalle casette basse e dai tetti fumiganti, dagli embrici nerastri del terreno, ogni tanto apparivano qua e là edere, biancospini e verbaschi che coi colori - bianchi e viola - creavano una macchia di agreste primavera. Mi sembrava di addentrarmi nel bosco fatato che conduceva alla casa dei miei nonni come alla casa di Dio. Proseguivo svoltando per le viuzze strette come vene, come a sostenere le casette di pietra scurite dal tempo con le finestre piccole, piccole, simili a quelle della favola dei sette nani che ospitarono Biancaneve.
Superavo, poi, una fila di casette antiche tinte di rosso, di verde e di pitture rievocanti volti e sculture sarde che illustri, quanto anonimi Artisti avevano lasciato a impronta di una Sardegna unica e pittoresca. Proseguivo lungo un pendìo che si affacciava dall'altipiano della collina di Villanovafranca con la cupola della cattedrale di San Lorenzo che domina la pianura del Campidano e dei paesi circostanti, lì vi erano i possedimenti dei nonni materni: aiaia Luisica Marras e aiaiu Francesco Caria, ed io, emergendomi fra i mandorli, i dirupi, i vigneti rachitici e i residui della coltivazione mi sentivo "Imperatrice" forte e dominante, simile al biancospino che rifioriva ostinatamente nonostante l'avversità del tempo. Una sfida, dunque: la natura che sfida gli elementi ed io che sfidavo le avversità. Quotidianamente percorrevo il tragitto per salutare i miei nonni e per ricevere quell'amore particolare che solo loro sapevano donarmi.
Superate alcune facciate corrose dal tempo e dalle guerre, si ergevano orgogliose poche ville di aristocratici che affidavano le loro proprietà alla tutela della autorità ecclesiastica e alla metamorfosi della politica. Queste, si distinguevano dai miseri, coi balconi spagnoli pieni di gerani e garofani.
Giungevo a casa di aiaia Marras e aiaiu Caria, qui mi fermavo a giocare al "Pincaro" coi numerosi cuginetti e, con i più grandicelli, giocavo alla "Morra" finché aiaia Marras, alta e imponente nel suo costume sardo, e... bella, bella e simile alla Madonna raffigurata nella basilica di San Lorenzo, mi veniva incontro ninnando i gemellini Pino e Francesco che, mi pareva, scomparissero accovacciati sul suo seno prosperoso. Aiaia Marras mi voleva bene quanto loro: non mostrava preferenze verso i nipoti; sapeva fare la nonna. Ella era affabile e prodiga con tutti e nel distogliermi dai giochi infantili mi ammoniva: - «Nara, dedei, cica-de-fai-a-bona-e-aggiuda-a-mamma-tua-comprendium'asi?» (Sentimi, bimbetta, cerca-di-far-la-brava-e-aiuta-tua-madre: capito, m'hai?). Poi senza disturbare il sonno infantile dei gemellini, allungava la mano porgendomi una monetina da cinque lire, qualche volta anche da dieci ed io, rassicurandola di crescere buona e ubbidiente, mi recavo di corsa da mamma.
Con le gote fiammanti, i calcagni che nello slancio toccavano i glutei scarni, fugacemente salutavo i vecchi seduti sul sagrato e più non prestavo attenzione ad evitare il rigagnolo d'acqua cristallizzata ed i piedini nudi affondavano rompendo il ghiaccio, giù, giù, fino a far risalire lo strato melmoso del terreno che addolciva le minuscole ferite che il ghiaccio cristallizzato produceva. E quando finalmente raggiungevo mia madre e le porgevo la monetina meditavo: «Le nonne sono più buone delle mamme e anche più belle! Chissà-come-si-fa-a-diventare-nonne?».
Questa era la domanda che mi accompagnava ogni qualvolta ne incontravo una che rassomigliava alle mie finché, col passar del tempo, anch'io diventai nonna e nell'immenso amore, lentamente e faticosamente per non deludere i miei avi cercai e ancora oggi cerco di rassomigliargli.

 
La scoperta dell'America
raccontata da Nonna Iaia
 
 
Come di consueto, anche quel sabato sera la nonna cenava con la sua nipotina: questi erano i momenti più belli della sua vita. La bimbetta frequentava la quarta elementare e, vi sembrerà strano, le piaceva andare a scuola e studiava con profitto, ma non vedeva l'ora che giungesse il Sabato sera per andare a dormire dalla sua nonna. Le loro serate erano mitiche. Loro si capivano al volo, ridevano, ballavano, si raccontavano le favole e la bimba amava farle un riassunto della sua attività scolastica. Quella sera il discorso cadde sull'evoluzione dell'uomo dagli studiosi definito discendente dalle scimmie. Giusto in quel momento in un canale televisivo trasmettevano lo stesso argomento. In primo piano veniva rappresentato "L'AUSTROLOPITECO", vissuto tre milioni di anni fa e paragonato nostro progenitore. Seguiva l'immagine del "PITECANTROPO", che già sapeva usare il fuoco. Poi l'uomo di "NEANDERTHAL" ed, infine, circa quaranta milioni di anni fa, comparve "L'HOMO SAPIENS", con il cervello molto sviluppato. La bimba per niente compiaciuta di essere definita "cugina della scimmia" decise di raccontare la sua versione: «Non è vero che discendiamo dalle scimmie, a noi l'insegnante ha raccontato che l'uomo è nato da un seme di noce».
«Questa poi! Quando io ero ancor bimbetta mi raccontavano che il bimbo nasceva sotto il cavolo; ora, a te, raccontano che nasce da un seme di noce: che fantasia!».
«Ma nonna, che cosa credi che nel 2004 non sappiano che i bambini nascono dalla pancia della mamma? Questa è solo un'antica leggenda dove si racconta che un seme di noce venne trasportato dal vento e, dopo un lungo viaggio, trovò giaciglio in un foltissimo bosco. Quando venne la fata primavera, al posto dei germogli crebbe un giovane aitante e bellissimo. Lui era il primo uomo e veniva amato e rispettato da tutti gli animali e le piante lo nutrivano dei loro frutti essendo orgogliosi che l'uomo fosse nato da un seme di un loro parente».
«La leggenda è carina, ma vediamo se sai chi scoprì l'America».
«Dài, nonna, ti prendi gioco di me? Lo sappiamo tutti che la scoprì Cristoforo Colombo, ma che Amerigo Vespucci ne ebbe i meriti».
«No, no nipotina mia, la scoperta dell'America ha origini lontane. Senti come avvenne: tanti e tanti secoli fa per comunicare non c'erano le poste, non c'erano i telefoni e per viaggiare non c'era alcunché. L'uomo era ancora "primitivo", non aveva messo in moto alcuna invenzione degna di nota. Il suo cervello lo stimolava all'azione soltanto quando doveva nutrirsi e difendersi. Ma aveva tanti e tanti animali con cui dialogare e divennero suoi amici. Avevano imparato a trasmettersi le notizie per mezzo degli uccelli, infatti la maggior parte dei volatili erano i loro postini. Pur di avere l'amicizia dell'uomo viaggiavano da un capo all'altro della terra senza stipendio, né settimanale, né mensile e senza la tutela dei sindacati. I poveri pennuti portavano stretto nel becco i bigliettini che l'amico uomo affidava loro e rimanevano senza mangiare e senza bere finché non consegnavano la corrispondenza loro affidata».
Nonna, l'uomo però non era poi tanto amico degli animali altrimenti il bigliettino glielo avrebbe legato ad una zampetta, così potevano fermarsi a fare una merendina, a bere l'acqua fresca per poi riprendere il volo, non ti pare?».
«No, piccola mia, in quel modo la posta non sarebbe stata più segreta perché gli uccelli essendo "canterini", volando, avrebbero spettegolato fra di loro e si sa, la posta deve essere segreta».
«Ma cosa dici, gli uccelli sono pettegoli?».
«Certamente, non li senti come strillano? Pensa che loro sanno tutto di tutti, conoscono segreti di tutto il mondo e, come al telegiornale, loro si aggiornano sulle ultime novità. Ma ora proseguiamo con la nostra storia. In un paesino d'Italia vivevano due giovani sposini che desideravano tanto avere un figlio e decisero di scrivere alla cicogna. Dopo aver spiegato le loro ragioni firmarono il biglietto, convocarono il loro fidato piccione viaggiatore e, con mille raccomandazioni, gli misero tra il becco il biglietto da consegnare alla cicogna. Il nostro piccione-postino volò per giorni e giorni finché giunse a destinazione. Stava giusto per atterrare, ma venne fermato dalla cinciallegra che in quel giorno era di turno alla dogana: «Da dove vieni?». «Dall'Italia». La cinciallegra inforcò un paio di occhiali alla Lina Wertmuller e con fare stanco controllò nel suo registro se la fascia tricolore verde-bianco e rosso, a tre bande verticali e di uguali dimensioni che il nostro postino portava fasciato sul petto, corrispondesse alle loro leggi vigenti. Gli fu dal doganiere notificato con un timbro di "cera d'api" che tutto era in regola. E, finalmente, il nostro piccione veramente stressato, venne portato al cospetto del signor Cicognon (capo del personale), ma questo, quando lo vide, si mise le ali nei capelli esclamando: «Ancora richiesta di pargoli per l'Italia! Con te, caro postino, quest'oggi, si notifica la trentamillesima ordinazione, e non abbiamo abbastanza personale per avvertire il Padre Eterno di provvedere».
Il nostro piccione era veramente stanco e implorò il signor Cicognon di non rimandare a-datada-destinarsi- la consegna del bambino poiché i suoi futuri genitori erano due giovani sposini, e per loro questo era il primo frutto del loro amore; perciò avevano la priorità assoluta».
I volatili temendo che non nascessero più bambini si riunirono e ci fu un tafferuglio generale, ciascuno si preoccupava di avvertire l'uomo del suo colore: la rondine fece i segnali di fumo per avvertire l'amico uomo indiano che il mondo finiva. Il corvo strideva per avvertire l'amico uomo nero di sollecitarsi in preghiere. Il picchio suonava il tam-tam tamburellando sulle foglie di palma per informare l'uomo giallo del grave problema. Il pettirosso avvertiva tutti i pappagalli dei vicini confini di ripetere a più non posso - S.O.S. - a tutti i pennuti del mondo. Questa era la prima rivolta degli uccelli. E, senza l'ausilio dei sindacati, costrinsero tutti i dirigenti della Terra Cicogna a prendere i dovuti provvedimenti. In breve tutte le cicogne si riunirono ed esposero la gravità della situazione al cospetto della cicogna Regina.
La cicogna Regina, vista la lunga lista che il suo reame le notificava, con un sol muover di penna ordinò all'aquila reale di recarsi nel regno del Padre Eterno per metterlo al corrente della disperata situazione.
Ricevuto il messaggio, Dio, mandò immediatamente nella Terra delle Cicogne un tris-tris-tris-miliardo di uccelli ed una schiera di Angeli ed a ciascun Angelo diede un calesse dorato grande come mille treni messi insieme. E su ciascun calesse vi erano tanti bellissimi bambini. Dio aveva provveduto. Il personale pennuto era ora anche in soprannumero, ed i bambini..., forse..., mai abbastanza.
Il pellicano che nella Terra delle Cicogne fungeva da "segretario amministrativo", pensò bene di trascrivere il numero anagrafico del nostro bambino italiano e lo consegnò al nostro eroico piccione-postino-viaggiatore, che finalmente poté riprendere il volo verso l'Italia.
Per tutte queste lacune burocratiche erano trascorsi quasi nove mesi e gli sposini piangevano il loro piccione pensando gli fosse accaduta una disgrazia, perciò quando lo videro arrivare lo baciarono, lo tennero stretto al petto, gli diedero da mangiare e da bere. Poi, rassicurati che la loro richiesta era stata accolta, ascoltarono con vivo interesse le sue avventure di viaggio. Ormai rincuorati attesero l'arrivo della cicogna che puntuale, allo scadere del nono mese, nell'ora del tramonto, gli sposini passeggiando nel giardino, videro che il sole s'era coricato anzitempo dietro una cortina di densi nuvoloni orlati di fuoco dai suoi raggi morenti: l'ombra di un grosso uccello si calava rapidissima verso il loro giardino; la cicogna lambita dalla luce vaporosa, allentava i grandi sbattimenti delle ali; posando delicatamente il fagottino nelle braccia della sua mamma. Alle insistenze degli sposini, la bella cicogna si rammaricava di non potersi trattenere un solo giorno; ma ingolosita dal cestino ben colmo di bacche e di semi che la famigliola le aveva preparato si mise a tavola. La cicogna, tossiva, starnutiva, la poveretta, faceva fatica a deglutire, a respirare: durante il lungo viaggio si era gravemente raffreddata. Gli sposini, preoccupati, si apprestavano a chiamare un veterinario, ma la cicogna vedendo un salice che ombreggiava la loro casa li rincuorava: «Amici, eccolo lì, il rimedio infallibile per curarmi il raffreddore, la corteccia di quest'albero è miracolosa!, contiene l'acido salicilico, ovvero, l'aspirina allo stato puro». L'ammalata prese a beccare la corteccia, e mentre succhiava le sue narici si liberavano. Poi con un bacio di addio, volava in direzione della sua terra.
Gli sposini con il movimento della mano salutavano la cicogna che li aveva resi felici. In quel momento comparve l'arcobaleno che piegandosi a semicerchio ed inarcando la groppa ospitava la cicogna fra i suoi sette splendidi colori. I nostri sposini e tutti gli uomini del mondo in quel momento, sollevando gli occhi al cielo, videro lo scenario più bello dell'universo. Infatti, al centro dell'arcobaleno, ben eretta sulle zampe, con le ali bene aperte ed il capo rivolto verso l'alto, spiccava la bianca cicogna. Così, per un tempo indeterminato, tutto rimase immobile: l'uomo, le acque, la flora e la fauna venivano informati che in quel momento era nato un bambino. Tutti si inginocchiarono a ringraziare Iddio. I nostri sposini sciolsero il loro piccolo dal bianco telo, ma grande fu il loro stupore nel vedere un bambino bello, tenero, sorridente, ma di un colore stranissimo: era nero!, sì nero. Spaventati vollero chiarire la situazione con la cicogna, ma ormai l'arcobaleno era scomparso e con esso la nostra cicogna. Erano disperati, non avevano mai veduto nessun essere umano che avesse quel colore. Che provenisse dalla luna? Chiamarono il piccione ed a questo, nel vedere le loro facce furibonde, gli si rizzarono le penne e, pensando che volessero cucinarlo, fece retromarcia, ma il papà lo prese al volo mostrandogli il bambino. Ancor più spaventato il piccione esclamò: «Chi è quel mostro?».
Papà e mamma, offesi, fecero una carezza alla loro creatura urlando al pennuto: «Come osi chiamare mostro il nostro bambino? Corri invece dalla cicogna e chiedi spiegazioni». Dall'altro capo del mondo (ovvero in America) allora a noi tutti sconosciuta, vi era una coppia di sposini di colore nero che viveva lo stesso dramma dei nostri. A loro, la cicogna aveva consegnato un bambino, ma bianco. Sì, la pelle era bianca come il latte delle loro mucche e si affrettarono a chiamare il loro corvo-postino- per avere spiegazioni. Il corvo dal piumaggio nero, nel vedere il bimbo così pallido si spaventò, e con la punta dell'ala pregò i suoi amici di allontanare quel mostro dalla sua visuale. I genitori abbracciando il loro bambino, per poco non gli mozzarono il becco: «Come osi chiamare mostro il nostro bambino? Corri, invece, dalla cicogna e chiedi spiegazioni».
Così il piccione ed il corvo si incontrarono al cospetto della cicogna Regina. Questa, veramente adirata nei confronti dei suoi sudditi per questo gravissimo scambio di bambini (mai accaduto prima), chiamò al suo cospetto l'uomo pirata. Lui viaggiava in lungo e in largo negli oceani ed era l'unico in grado di poter far incontrare i genitori bianchi con quelli neri e prendersi ciascuno il proprio bambino: «A me, la cosa non interessa.» Fu la risposta del pirata. La cicogna gli spiegò che i bambini ormai erano cresciuti di peso e di statura perciò le cicogne addette alla consegna, che avevano sì il becco robusto ed una forza straordinaria, non potevano sollevarli neppure un palmo dal loro lettino perché ormai il peso dei neonati era al di sopra della norma. Il pirata comprese la difficile situazione delle sue amiche cicogne ed in segno di grande amicizia decise di aiutarle. La regina convocò due cicogne "PONY EXPRESS" ed una la mandò dai due sposini neri per avvertirli che il loro bambino si trovava in un Paese chiamato Italia e, se volevano recarsi sul posto per riprenderlo, un bravissimo pirata li avrebbe condotti sul luogo. I due sposini neri avevano i genitori vecchi e molto malati e risposero al "PONY EXPRESS" che non potevano lasciarli soli in un momento così doloroso. Nel frattempo l'altra cicogna "PONY EXPRESS" conferiva con gli sposini italiani e loro non ebbero esitazioni. Presero il piccolo Leno, diminutivo di Arcobaleno, e la mamma prima di mettersi in viaggio lo allattò e cominciò a cantargli le nenie per farlo riposare sorridente. Il pirata venne accompagnato da una schiera di uccelli bianchi, verdi, rossi, neri, gialli, che formando nell'aria un lungo nastro colorato gli indicavano la rotta da seguire.
Il piccione-pony-express li avvistò e mamma e papà, con in braccio il piccolo Leno, con passo lesto andarono al porto.
Il pirata, come la leggenda vuole, portava una benda nera avvolta sul capo che gli lasciava scoperto un solo occhio, aveva la sua gamba di legno e faceva la voce dura, ma gli sposini capirono che invece era un uomo buono e generoso.

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