Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Antonio Margaroli
Con questo racconto ha vinto il quinto premio all'edizione 2006 del Premio Città di Melegnano.



«Anielka Palvic»


- Anielka.
- L'ho detto: Anielka.
- No, no. Non voglio prendere in giro nessuno. Anielka. Anielka Palvic.
Anielka Dragana Palvic.
- A Sarajevo.
- Il trenta di novembre del millenovecentoottant... mmh, sì del millenovecentoottantaquattro.
- Beh, non è che sia una professione. È quello che mi hanno costretta a fare. Lo sapete benissimo. Se no non sarei qui adesso. Mi prostituisco. Sì, faccio la puttana, la troia, la battona o come cazzo volete dire voi.
- I documenti non li ho. Devo arrivare a tirar su ventimila euro se li rivoglio indietro. E ventimila euro escluse le spese per vivere e pagare questi assurdi stracci. Come faranno poi a piacere agli uomini le donne vestite così? Va bene. Non farò altri commenti e mi limiterò a rispondere alle vostre domande.
- No.
- No.
- Certo che no.
- Penso che ormai di storie come questa ne abbiate sentite a decine. Il mio ragazzo, o almeno quello che una volta era il mio ragazzo, la persona che amavo e che ero convinta che mi amasse, è venuto in Italia l'anno scorso e sei mesi fa è tornato a Sarajevo. Ha detto che era tornato per me. Mi ha raccontato che in Italia aveva trovato un lavoro in una pizzeria e che c'era la possibilità anche per me di lavorare. Mi ha illuso.
- Sì. Sapevo che capita spesso ma lui era il mio ragazzo e si era sempre comportato bene con me. Non mi aveva mai mentito. Avevo fiducia in quel bastardo, figlio di puttana.
- No. Ha sempre rimandato. Diceva che la pizzeria era chiusa per lavori, che la stavano sistemando per rinnovarla e che c'era da aspettare qualche giorno. Stavano ampliando il locale. Per questo avevano bisogno di una nuova cameriera e per questo era venuto a prendermi. Poi una sera è arrivato con un vestito nuovo per me e mi ha detto di farmi bella. "Ti faccio conoscere i miei amici e delle ragazze slave che lavorano qui."
"Grazie." L'ho anche ringraziato quel porco. Praticamente mi ha buttato sulla strada. Sapevo sì e no dieci parole di italiano e di questa città conoscevo solo i cinquanta metri tra il marciapiede dove dovevo sorridere e quello squallido hotel dove dovevo aprire le gambe e all'inizio, ogni volta, finivo per piangere.
- Certo che sono cambiata. Questa vita cambierebbe chiunque. Tradita dal mio uomo e umiliata anche venti volte al giorno da perfetti sconosciuti. Irreprensibili padri di famiglia, balordi, poliziotti che approfittano del loro presunto potere: quando ti si sdraiano sopra sono tutti uguali e hanno lo stesso sguardo. È come se ti dicessero "Adesso, troia, fai la brava. Io pago e quindi è mio diritto fare quello che voglio."
Sono cose che ti cambiano. Ti induriscono. Non so se potrò mai innamorarmi di nuovo. Certo so che scopare, per me, non sarà mai più un gesto d'amore. - So che sembro, anzi so
no, acida, scortese, maleducata ma se in questa vita, in un attimo di debolezza, ti mostri gentile, subito c'è chi se ne approfitta e finisce che ti spengono le sigarette sulle tette, ti mordono a sangue, o ti infilano le loro mani dappertutto. - Non lo so.
- Non so neppure il nome della via. Vivevo praticamente segregata in quella topaia, con altre cinque ragazze, dal giorno in cui mi sono state presentate quelle "fortunate" connazionali. Non potevamo uscire di casa. Ci portavano da mangiare e quello che ci serviva per il lavoro e alla sera ci caricavano in macchina per sbatterci rigorosamente ai nostri posti sul marciapiede. Ci dicevano che con ventimila euro potevamo riscattarci, riavere il nostro passaporto e decidere della nostra vita ma, per quanto si scopasse, era una cifra irraggiungibile. Ci scalavano le spese dei vestiti, di quello schifo che ci portavano da mangiare, del profumo, dei rossetti e perfino dei preservativi. Dovevamo pagarli per accompagnarci al lavoro e proteggerci da bande rivali, rapinatori, balordi, drogati, ubriachi o altri galantuomini di questo tipo. La cosa più ridicola era che poi, a volte, pretendevano anche di fare l'amore con noi. Si sentivano onnipotenti e quindi non usavano neanche il preservativo.
Bene. Sono arrivata a sperare di infettarmi, di prendere l'aids da qualche cliente per trasmetterglielo di cuore.
"Scopa bastardo. Scopa. E crepa con me."
- No.
- Ancora no, purtroppo. Ho fatto gli esami la settimana scorsa e ripeto, purtroppo, va tutto bene.
- Tendenzialmente erano tutti clienti occasionali, da una botta e via. Qualcuno è tornato una seconda e anche una terza volta ma erano eccezioni e non sempre gradite. Anche perché non davo confidenza a nessuno. Ve l'ho detto com'era lì. Era meglio diffidare di tutto e di tutti. Quando poi mi sono resa conto che i ventimila euro per riscattarci erano solo una pia illusione, non ho più neanche avuto lo stimolo a darmi da fare per piacere ai clienti e farli pagare un po' di più o farli tornare un'altra volta.
- Quello lì sembrava diverso. Ricordo che fin dalla prima volta era stato gentile con me. Voleva capire come e perché ero finita lì. Voleva capire come potevo sopportare quel lavoro, come potevo tollerare di scopare con uno sconosciuto. Ed era ridicolo che me lo chiedesse mentre si sfilava i pantaloni per scopare una sconosciuta, oltretutto pagando per farlo. La prima volta mi ha invitata ad andare a bere qualcosa e ovviamente non ho accettato. Non so più se perché allora ritenessi ancora dieci minuti persi in un bar un mancato guadagno nella mia corsa ai ventimila euro o se già per la diffidenza che avevo imparato ad avere nei confronti di chiunque.
- È tornato diverse volte. Era sempre cortese anche se io ero sempre molto fredda. Quando mi hanno spostato il posto di lavoro e, per qualche nuovo accordo tra papponi, mi hanno messa su un marciapiede diverso, sono stata tre settimane senza vederlo. Poi una sera è comparso e mi ha detto che aveva girato tutti i marciapiedi della città per cercarmi, che non riusciva a darsi pace e che aveva bisogno di rivedermi.
Una notte particolarmente fredda è arrivato con un thermos di caffè che naturalmente non ho accettato. Poteva esserci qualunque cosa in quel caffè e così ne ha bevuto un sorso per conquistare la mia fiducia. In tutta risposta gli ho rovesciato il thermos sui sedili color panna della sua station wagon.
- No. Non mi parlava mai della sua vita. Non sapevo se fosse sposato, se avesse dei figli, se avesse problemi con la moglie o con il suo lavoro.
- No. Non sapevo neanche che lavoro facesse, però era chiaro che aveva dei problemi. Sembrava alla ricerca di un momento di tranquillità. Sembrava che mi pagasse per comprare cinque minuti di serenità, cinque minuti in cui non pensare a niente, non avere nessuna responsabilità e lasciarsi andare completamente. Per questo alla fine, contravvenendo alla regola che mi ero imposta di seguire in modo ferreo, gli ho dato fiducia e sono stata gentile con lui. Eravamo appena stati a letto e mentre si rivestiva si è accorto di una macchia di rossetto sul colletto della camicia. Con la massima disinvoltura ha tolto la camicia e l'ha gettata nel cestino dei rifiuti.
Sono scoppiata a ridere. "Non ho mai visto nessuno così. Sei incredibile. O pensi forse che sia più difficile giustificare una macchia di rossetto che non il fatto di tornare a casa in giacca e cravatta ma senza la camicia ?" Mi ha fatto ridere. Forse è stato quello. Però da quel momento ho cominciato a trattarlo diversamente. Ero anch'io gentile con lui. Gli raccontavo della mia vita a Sarajevo, di quando ero bambina, delle mie speranze, delle mie illusioni. Siamo diventati amici. Mi portava sempre qualcosa: un fiore, un braccialetto, un profumo. Era tenero e premuroso. - No. Non me ne ero innamorata. Era un amico, semplicemente un amico.
Qualcuno con cui scambiare due parole senza l'assillo di doversi sempre guardare alle spalle. E ho fatto male, come al solito quando si dà fiducia a qualcuno, quando si dà fiducia a un uomo.
- Non mi parlava mai del suo lavoro, della sua famiglia, dei suoi amici, di tutto ciò che riguardava le sue relazioni con il mondo che gli stava attorno. Solo alla fine aveva accennato a qualcosa di suo, di strettamente personale, di intimo.
Diceva che era timido, che provava un grande desiderio di amare ma che non era mai stato ricambiato in vita sua.
Mi ricordo di una volta in cui mi ha sussurrato: "In fondo anch'io ho il diritto di amare. Non pretendo di essere amato, ma nessuno può impedirmi di amare."
Mi vengono ancora i brividi se ci penso. Quando facevamo l'amore cercava il contatto fisico con tutto il suo corpo. Si scaldava con il calore del mio corpo. Era come se mi risucchiasse la vita fuori dal corpo per nutrirsene. E dopo che siamo diventati amici mi chiedeva, certo sempre gentilmente e sempre in cambio di una cifra maggiore, di fare qualcosa di più per lui. Era ossessionato.
Doveva condensare, in pochi minuti con me, una vita sessuale che non aveva mai avuto. Doveva provare le emozioni e vivere le esperienze che gli altri diluiscono in una vita, concentrandole in quei momenti a pagamento.
E chiedeva sempre di più.
- No. Niente cose strane. Non era un depravato dedito a giochini sadomaso o ad altre perversioni, era uno che voleva recuperare il tempo perduto. Non gli bastava scopare, non gli bastava che gli facessi un pompino o lo masturbassi, voleva dolcezza e tenerezza, mi implorava un po' d'amore e questo è davvero difficile darlo ad uno sconosciuto, anche per una puttana come me.
- No. Non ero mai stata a casa sua prima di questa notte. Mi ha detto: "Perché invece del solito albergo non vieni da me ? Non ti faccio perdere tempo.
Anzi ti pago tutto il tempo che starai con me. Così siamo più' tranquilli e poi non è così squallido e non è neanche tanto distante. In meno di dieci minuti siamo a casa mia." Ho accettato. Avevo fiducia e confesso che ero anche curiosa di vedere com'era la casa dove viveva. Non riuscivo ad immaginare il colore delle pareti, i soprammobili, i quadri, i tappeti e tutti quei particolari che rendono le case così diverse l'una dall'altra.
- All'inizio è stato gentile come al solito. Però c'era qualcosa di strano. Era teso, sudava, guardava l'ora in continuazione.
"Vuoi bere qualcosa? Posso fare qualcosa per farti sentire a tuo agio?" Sembrava che lui stesso volesse rimandare il momento in cui ci saremmo spogliati per il nostro "volo d'amore" come lo chiamava lui. Poi ha acceso lo stereo e ha alzato il volume. Era musica lirica.
- Non so cosa fosse. Non me ne intendo.
Era un'opera ma per me sono tutte uguali. Di quelle con qualche Pavarotti che ti fa accapponare la pelle e ti senti tanto piccola. Mi ricordo che da bambina ascoltavo questa musica in braccio a mio nonno che mi raccontava le storie tristissime che venivano cantate. Anche allora mi mettevano paura. È stato un presentimento. Ho sempre associato quella musica ad eventi terribili con finali tragici e così, all'improvviso, mi sono sentita in pericolo. Ero terrorizzata. Avevo un nodo in gola. Non riuscivo a deglutire. Sono andata in bagno e ho fatto la doccia. Mentre mi asciugavo guardavo la mensola sotto lo specchio. Non avevo mai visto la mensola del bagno di un uomo che vive da solo. Il pettine, il deodorante, il dentifricio, lo spazzolino, il pennello da barba, qualche flacone di dopobarba di marche diverse, uno mezzo vuoto, usato abitualmente, e gli altri ancora pieni, probabilmente regali non richiesti che sarebbero invecchiati su quella mensola.
Poi c'era il rasoio. Doveva essere un tipo ambizioso, un perfezionista, un po' narcisista. Era un vecchio rasoio professionale di quelli che non usano più neanche i barbieri, senza le lamette da cambiare ma con la lama fissa da affilare.
- Sì l'ho preso. Non so perché l'ho fatto.
Avevo paura e ho preso quel rasoio.
- No. Non mi aveva minacciato. Non
aveva detto né fatto niente che giustificasse quell'improvviso attacco di panico.
Ritenevo di essere abbastanza forte da poter affrontare con razionalità qualunque situazione. È come se all'improvviso mi fosse crollato addosso tutto il mondo. Mi sentivo nuda in balia di uno sconosciuto. E davvero era strano.
Quella musica, quell'ambiente accogliente, tutte quelle premure per me, per una puttana: era una situazione nuova, inconsueta. Ero a disagio, avevo paura, mi sentivo impotente. E lui mi ha sorriso.
"Vieni qui, finalmente siamo soli davvero. Finalmente non siamo in quella schifosa stanza d'albergo dove mille altri uomini possono scoparti senza amarti." Siamo andati nella sua camera da letto, si è spogliato e mi ha sorriso.
Io tenevo il rasoio stretto in mano. Si è avvicinato. Mi ha abbracciato. Ha iniziato a baciarmi tenendomi stretta. Cercavo di nascondere il rasoio e lo stringevo sempre di più finché la lama mi ha tagliato sul palmo. Non ho provato dolore ma ho sentito il sangue bagnarmi la mano. Ho visto il lenzuolo bianco macchiarsi di piccole gocce rosse sotto di me e ho perso la testa.
- Non so quante volte l'ho colpito. Se dite undici volte non posso che credervi ma l'ho fatto in uno stato di totale assenza da me stessa.
- Non lo so. Davvero non lo so. Non so se ero in pericolo o se è stato solo il frutto della mia immaginazione.
- Ma Cristo, cosa pretendete da me? Sì, sono una puttana, parlo male, bestemmio, urlo, sono sguaiata e volgare, ho succhiato più cazzi io in questi sei mesi che tutte le vostre madri in tutta la loro vita. Però nessuno pensa che fino a sei mesi fa anch'io ero solo una ragazza di ventidue anni, piena di illusioni, che aspettava soltanto un'occasione per cominciare a vivere. Avevo i miei sogni.
Credevo che l'amore fosse molto diverso da quello che ho conosciuto qui. Avevo baciato tre ragazzi in tutto e avevo fatto l'amore con uno solo, il più bastardo.
- Non sto cercando di giustificarmi. Non voglio impietosirvi. Forse stavo solo pensando ad alta voce. Non mi serve la vostra pietà. Non mi interessa il vostro giudizio.
- Lo so che comunque sarò giudicata e non mi aspetto niente di buono. Non mi appellerò alla clemenza dei giudici né mi affiderò ad un Dio in cui non credo più. Adesso voglio solo essere lasciata in pace. Sono stanca. Ho sonno e non mi reggo più in piedi. Per favore smettetela con questa tortura, spegnete quella luce, mi dà fastidio, mi bruciano gli occhi. Basta.
Anielka Palvic: condannata a ventiquattro anni di carcere per l'omicidio di un serio professionista di cui, per rispettarne la memoria, non pare opportuno fare il nome. Anielka Palvic: nel duemilatrenta, a quarantasei anni, finirà di pagare il suo conto con la giustizia. Anielka Palvic: sul palmo della mano sinistra una cicatrice, provocata da una lama di rasoio, le taglia di netto la linea della vita.

Antonio Margaroli


 Clicca qui per leggere la classifica del
Premio
Citta di Melegnano 2006

Torna alla sua
Home Page

PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a clubaut@club.it
Se ha una casella Email gliela inoltreremo.
Se non ha casella Email te lo diremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera presso «Il Club degli autori - Cas. Post. 68 - 20077 MELEGNANO (MI)» inserendola in una busta già affrancata. Noi scriveremo l'indirizzo e provvederemo a inoltrarla.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2008 Il club degli autori, Antonio Margaroli
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 
IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
 Ins. 20-09-2008