- TANTI,
ANCHE PIU' DELLE STELLE
Sin da bambino, accompagnavo mio padre per i mercati
della valle. Tempo avaro di un dopoguerra lasciato
alle spalle, ancora fumante. Anni cinquanta che ne
dimostravano almeno il doppio, fitti di rughe come le
facce della gente. Facce di occhi arrugginiti da
troppi sonni arretrati. E guance afflosciate come
gomme bucate. E fronti arate di rughe, da sembrare
campi dissodati. Tempo sbandato di un dopoguerra, con
l'odore della fame a ingrassare l'aria. E un profumo
di pane cotto, da masticare con le narici. Partivano
in molti a cercare lavoro, i più verso Belgio e
Svizzera. Via a marcire in un buco di terra,
scaraventati in una notte di carbone, senza luna. Era
strappo alle radici che faceva male, però si
doveva. Paesi interi si spopolavano di uomini ancora
giovani. A casa restavano solo case vuote, letti
senz'amore, porte sprangate dietro saluti marci di
malinconia. Nemmeno il tempo d'una peluria in faccia,
che già si stava in coda a una frontiera
intasata di passi, saluti e maledizioni. Ci voleva un
gran calcio nel sedere, per varcare una frontiera: la
fame era quello giusto. Si andava a crepare in un buco
di terra per tappare un buco nello stomaco. Un'intera
generazione perduta per strada, sputata via,
sparpagliata nel mondo come semina sul campo. Per
molti, solo una partenza brusca e nessuna redenzione
di ritorno. Mio padre no, s'era fermato, non aveva
più l'età per un confine oltre il
confine del suo campo. Fin dove gli reggeva la vista,
quello era il limite della sua vita. Commerciava in
granaglie, nei piccoli mercati di paese. Svegli al
primo stonato chicchirichì, sotto un cielo
ancora spento, senza un singhiozzo di luce, caricavamo
l'asino e si partiva.
- "Hai
preso tutto? Mais... grano... segale...?" chiedeva mio
padre.
- Sbadigliando,
facevo di sì con la testa.
- "Hai
sentito quello che ho detto?" ripeteva ancora una
volta mio padre.
- Aveva
una voce strana, che sembrava venire
dall'aldilà. Al mattino, le voci sono sempre un
poco strane, non appartengono più al mondo.
- "E'
tutto pronto, il somaro è carico..."
brontolavo, senza aggiungere altro.
- Sì,
c'era tutto meno la voglia di partire, quella stava
sepolta sotto una voglia di dormire grande come una
montagna.
- "Dài,
andiamo, è quasi giorno..." concludeva mio
padre, appioppando una pacca sulle reni dell'asino.
- E
l'asino s'avviava, lento il passo e misurato, mai
sprecato. Il rumore degli zoccoli sporcava il pulito
del silenzio. Passi come un rosario sgranato nella
polvere, sotto una cappa di solitudine e una cenere di
ultime stelle quasi spente.
- "
'Sto somaro c'ha un bel passo da filosofo!"
sentenziava mio padre qualche volta.
- Si
viaggiava al buio, senza mai fermarsi. C'era una
montagna intera da valicare, seguendo un sentiero
tortuoso come un geroglifico. A quell'ora, senza una
virgola di luce, sotto una coperta gelata, la montagna
dormiva ancora. Ogni tanto, una pietra rotolava lungo
la scarpata. Il rumore faceva un buco nell'anima. Per
far passare il tempo, contavo i passi: tanti, anche
più delle stelle. Messa a cuocere sul fornello
dell'alba, la notte squagliava come burro, mentre le
cose affioravano da un'apnea di silenzio e sonno. Le
ricordo bene, le notti di montagna, forti e muscolose,
dense come polenta di segale scodellata sul mondo.
Notti fumanti di stelle, ubriache di spaventi, sode
come zolle sbriciolate da un vomere di luce. Notti
incallite d'ombre, pelose d'allarmi, con un cuore di
silenzio da far rabbrividire. Notti partorite da un
utero di boschi selvatici e un abisso d'acqua antica e
segreta: il lago. E su tutto quel bitume d'ombre, un
fiammeggiare di luna bianca, bianco fuoco che teneva
compagnia ai viandanti.
- "Fai
attenzione a dove metti i piedi, segui l'asino. Con
lui puoi stare tranquillo, sa sempre cosa deve fare e
dove andare" ammoniva mio padre, nei tratti più
impervi.
- Se
titubavo, m'apostrofava ironicamente così:
- "Deciditi,
non fare come l'asino di Buridano!".
- "E
che è 'sto asino di Buridano?!" mi chiedevo in
silenzio.
- L'asino
ci guidava su scorciatoie ereditate insieme a bestie e
campi, fame e calli. Lascito prezioso, da conservare
con gelosa cura. Erano sentieri scavati da un piccone
di passi ostinati, per generazioni e generazioni.
Già, i sentieri di montagna: isteriche rughe e
tortuose cicatrici sulla pelle del mondo. La terra
invecchiava sotto un martellamento di passi. Era la
guerra di ogni giorno. Dentro il bosco, il silenzio si
mangiava ogni rumore, anche quello del nostro cuore.
Se calpestata, una foglia faceva un botto da lasciare
il respiro senza respiro. Su tutto, il rullare dei
nostri passi, tiritera di zoccoli e suole sbattute sul
terreno. Era canzone di piedi addormentati, un po'
stonati, tamburello che dava un benvenuto al primo
raggio di sole: il fiammifero che accendeva il giorno
in un nero braciere di montagne. Come una stoccata di
fioretto, il primo raggio precipitava sulla terra,
assassinando una notte dura più del ferro: il
giorno cominciava sempre con un delitto. Sapevamo quei
sentieri a memoria, però mio padre si fidava
solo dell'asino.
- "A
fiutar pericoli è meglio d'un segugio"
sosteneva. "Quando trova un ostacolo, si ferma e ci
pensa due volte a proseguire. E' bestia che si fida,
vuol essere sicura. Sa bene come salvarsi la
pellaccia".
- Era
vero, l'asino conosceva i trucchi del mestiere, il
mestiere del viaggio e della vita. Conosceva segreti a
noi ignoti, possedeva una saggezza istintiva. Sapeva
la lentezza che serve a reggere il basto. E la
pazienza che ci vuole a guadare una notte melmosa. E
la tenacia che sprona i passi ancora afflosciati nel
sonno. Durante i viaggi, un raglio ogni tanto era
l'unico lusso che si concedeva, raffica di fiato che
incendiava l'aria, frustata di voce sulla schiena del
silenzio.
- "Raglio
d'asino non sale al cielo" asseriva un proverbio di
allora. Invece no, i ragli del nostro asino salivano
eccome al cielo, forti da fare buchi grandi da
verderci attraverso anche Dio.
- "Sentila
come raglia, povera bestia!" era il commento di mio
padre.
- Povera
bestia, diceva, e dicendolo s'apriva una crepa nella
voce, da cui sgocciolava un po'di tenerezza
- e
compassione. Cristiana compassione, a giudicare da
come fissava l'animale.
- "Se
lo si tratta a modo, non c'è bestia che lavori
come un somaro" diceva.
- Poi
ci pensava su un momento e aggiungeva: "A 'sto mondo,
siamo tutti quanti un po' somari. Sgobbiamo ogni santo
giorno, tutta la vita, come dei dannati. Hi-aaah!
Hi-aaah! Hi-aaah!" concludeva ragliando di
rabbia.
- Una
volta, citando un passo della Bibbia, aggiunse:
"Foraggio, pesi e bastonate per l'asino; pane, lavoro
e disciplina per lo schiavo".
- S'intendevano
bene, mio padre e l'asino, fatti apposta per lavorare
come matti, seminando sudore e passi sulla crosta del
mondo. Si giungeva al valico che spuntava l'alba. Dal
cielo, colava una luce di latte appena munto.
- Si
arrivava in vista di P. che la luce era già
alta. Il sole leccava la brina sui campi,
sgranocchiava le ultime ombre rinsecchite. Abbandonato
il bosco, si scendeva l'ultimo tratto di sentiero,
alle pendici della montagna, fin sulla strada che
fiancheggiava il lago. Biondi riflessi pattinavano in
superficie. Rochi gabbiani grattugiavano l'azzurro,
lanciando un primo rauco benvenuto. L'odore di pesce
fresco era il secondo. La vista della torre, detta
Torrazzo, il terzo, il benvenuto ufficiale del paese.
Sigillo di pietra impresso su pergamena di cielo, la
torre protocollava la fine del viaggio, la tregua dei
passi, il riposo dei fiati. Mi era diventata amica
perché sapeva dirmi basta, sei arrivato, puoi
fermarti. Lo diceva in silenzio, con affetto discreto,
come un'amica vera.
- Un
giorno, mio padre mi raccontò un fatto
cruento.
- "La
vedi quella torre?" mi disse, puntandoci contro il
dito.
- Guardai
il dito. Poi la torre, in bilico sulla punta del dito:
pensai che mio padre aveva buona mira e sapeva colpire
una torre anche a distanza.
- "Ci
abitava un brigantaccio senza cuore" proseguì
"uno di quelli che mozzavano teste per un soldo.
- Un
giorno il brigante fu decapitato e la sua testa,
salata e avvolta in foglie d'alloro, fu portata a
- Venezia,
al Consiglio dei Dieci, per riscuotere la taglia".
- "E
cosa ne fecero della testa? La cucinarono?" domandai,
provocatorio.
- "No,
la mangiarono cruda!" rispose mio padre,
ironico.
- Alla
bocca mi venne un ridere forte da spaventare l'asino,
che scalciò bruscamente. Poi la risata
- raddoppiò,
perché lo spavento dell'asino aveva spaventato
anche mio padre.
- "Povera
bestia" disse "fa così da quando è
rimasto sotto le bombe, per una notte intera. Gli
è marcito il cuore di paura. Io e tua madre in
cantina a pregare, l'asino nella stalla a ragliare.
Chissà, forse stava pregando anche lui.
Però in quella notte di orecchie fracassacate e
cuori svenuti, neanche Dio le avrà sentite le
nostre preghiere".
- Devo
riconoscerlo: le storie di mio padre mi mettevano
disagio, però erano il sale che dava gusto ai
viaggi. A lui piaceva sbalordirmi, sarto di storie
cucite e ricucite a caso.
- "Ma
questo è successo anche nell'altra storia!"
protestavo qualche volta.
- "Non
interrompermi, diavolo!" urlava seccato.
- Forse
mio padre giocava a spaventarmi e farmi adulto
più in fretta. L'ho detto, si era nel tempo
crudo di un dopoguerra, si cresceva a sgambetti e
spintoni, indurendo i cuori con racconti da
crepacuore. Si cresceva con una fetta di polenta e un
calcio nel sedere, una gerla sulle spalle e una vanga
nella mano. Si cresceva affogando in un mare di risate
piene di spaventi. Un giorno, mi raccontò
un'altra storia di soprusi e violenze. Disse che,
più o meno intorno all'anno 1418, otto donne
furono rinchiuse nel Torrazzo, accusate di
intrattenere rapporti col demonio. Inquisite da un
frate, certo Bernardino de Grossis, vennero arse vive
nella piazza centrale di P.
- "Tutte
e otto arrostite!" concluse.
- "Come
le mondole!" sbottai d'impulso.
- E
di nuovo la risata mi scoppiò in faccia,
bollente da ustionarmi. Anche mio padre si
scottò dal ridere, con la pancia che gli
ballava come una terra scossa. Rideva a scoppi, ragli
di buonumore che incendiavano l'aria. Troppo cupe
quelle storie, meglio lavarle col sapone
dell'allegria.
- Storie
e passi vanno sempre di pari passo, camminano a
braccetto sulle strade del mondo. Una strada, un
sentiero, una mulattiera sono pagine bianche di un
libro che si scrive coi piedi e coi respiri. E si
legge con l'anima, che cammina dentro gli occhi di chi
guarda il mondo che scorre sotto i nostri piedi.
Viaggiare è una musica di passi composta sopra
uno spartito di polvere e luce. Viaggiare è un
canto di occhi intonati al sogno del mondo, quando ci
appare all'improvviso dopo la curva, alla fine della
salita, in fondo alla discesa. Attraversando il bosco,
il silenzio mi pesava addosso e mi stringeva
d'assedio, carico d'attesa. Avevo appuntamento con
qualcuno o qualcosa, ma non capivo con chi o cosa.
Oggi lo so: aspettavo di ascoltare le storie di mio
padre. Quelle storie hanno fatto crescere i miei
- passi,
sono state il latte dei miei pensieri, il pane della
mia anima...
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