Il
signore dell'acqua e del cielo
Lo trovai subito, superato l'ultimo cespuglio di
agrifoglio, poco prima del piazzale. Era là,
proteso verso la sera che avanzava, con un'ombra di
sorriso negli occhi attenti. Il vento gelido e appena un
po' pazzo di fine febbraio perquisiva le tasche e la
fodera del suo cappotto di lana scuro e giocava a buttare
giù dalla sua testa rosea e disarmante il mitico
cappello di feltro grigio. «Ohi nonno! Sono in
ritardo? Aspetti da molto vero?». Aspettava da molto
ma non lo disse, fece un gesto rapido con la mano, si
sedette sulla panchina di ferro riverniciata male e
appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Era vecchio il
nonno, vecchio quasi quanto può invecchiare un
uomo, ma aveva la vista di un falchetto e lo scatto
elastico di una lepre libera. Portava un cuore sciolto e
senza angoli come chi si appresta a incominciare a
vivere. Era elegante, l'eleganza degli aironi che
sfiorano con le ali l'acqua delle risaie a maggio e aveva
la dignitosa compostezza dei vecchi che passano piano e
ancora piano, con la naturalezza di una nuvola.
«Ho saputo dalla nonna che venivi in
città, ti ho fatto attendere perché voglio
portarti a casa io».
Gli parlavo un po' accostata alla guancia.
Trent'anni prima un piccolo seme di riso gli era entrato
nell'orecchio e a poco a poco gli aveva ridotto la
capacità di udire. Compensava a questo disagio con
una potentissima intuizione.
«Non voglio farti perdere tempo. Io posso
benissimo aspettare. L'autobus parte tra 20 minuti. Vai,
vai
Vai che si fa sera presto e i tuoi ti
aspettano». La sua voce era tenera e gli occhi sotto
le sopracciglia bianche erano gli stessi che da bambina
fissavo con lo sguardo dilatato mentre mi leggeva una
fiaba dei fratelli Grimm o mi raccontava la vita al tempo
dell'occupazione tedesca. Il vento adesso scrollava i
cespugli del parco con maggior forza, i colombi
combattevano per una piccola cialda nascosta nell'erba
scompigliata e dura, più lontano i bambini
raccoglievano i loro skates boards e i loro palloni e si
avviavano verso casa tirando su coi nasi e leccando i
moccoli. «Vieni nonno, ho la macchina qui vicino,
incomincia a far troppo freddo, andiamo». Lo avevo
preso sottobraccio, ci avviammo lungo i vialetti
inghiaiati, tra le fontanelle senz'acqua, nel vento che
si arrotolava e si distendeva zufolando.
Il nostro passo era simile, oscillante ma veloce,
stessi cappotti color antracite, stessa altezza, stesso
segno zodiacale, stessa contenuta emotività.
«Nonno tra due giorni è il tuo compleanno, ci
vediamo per festeggiare?» Ha scosso il capo
sorridendo con un po' più di umido negli occhi.
«Sono troppo vecchio, i miei compagni d'annata se ne
sono già andati tutti, dovrei andarmene anch'io,
non è giusto invecchiare tanto». L'ho tirato
per la manica in segno di rimprovero e per discastrarlo
da certi pensieri gli ho indicato in alto contro le
montagne, la discesa magica e regolare di un
paracadutista.
Camminando al suo fianco così, in
quell'inizio di una sera qualsiasi di fine febbraio, mi
sono sentita piano piano rimpicciolire, il viale mi
è parso più lungo, più largo,
più minaccioso, più strano e, come in
quelle vecchie favole per bambini d'altri tempi, per
incanto, mi sono ritrovata vicino ad un nonno Cesare con
trent'anni di meno. Portava ai piedi i suoi zoccoli pieni
di paglia, in testa il cappello macchiato di sudore e
spingeva una carriola sulla quale ad un tratto sedevo io,
con in mano dei fiori di camomilla, che insistevo per
fermarmi ad acchiappare i grilli nei prati. Volevo
dirgli: nonno ricordi le innumerevoli sere della tua vita
e della mia infanzia, quando d'estate ci radunavamo tutti
al ruscello e lasciavamo i piedi dentro l'acqua in mezzo
ai girini finché diventavano freddi e molli e le
oche bianche ci starnazzavano intorno e ci assordavano
con le loro grida roche? Ricordi ancora i tramonti
arancioni come i chicchi di granturco sparsi sull'aia ad
essiccare dal mattino, che bisognava raccogliere in
mucchi prima di notte e tu che tiravi la ragia con la
nonna dietro, mentre io a piedi nudi ballavo il twist
scompigliando le onde disegnate dal rastlun? Tu ridevi e
scuotevi il capo con connivenza, abbandonavi il lavoro e
correvi in casa ad alzare il volume della radio. Quando
riapparivi anche la nonna e tutte le donne sdentate e
impolverate del cortile, coi fazzoletti allacciati dietro
la nuca e le facce come fogli di cartaccia scura
stropicciata ballavano il twist con me, tra i chicchi che
schizzavano lontano e le risate bruciate nelle gole
secche. Puoi evocare senza sforzo quelle gare in
bicicletta dal Mulino dei Banditi al fiume, quando tu in
prossimità del traguardo ti rovesciavi in un prato
fingendo di cadere per lasciare vincere noi bambini? O
quando ammazzavi i conigli sotto il melo, mentre io in un
angolo in mezzo ai gatti eccitati dal rito di morte,
piangevo perché non volevo che li uccidessi? Tu mi
lanciavi sguardi desolati e mormoravi allargando le
braccia: «Neanch'io lo vorrei
Ma così
è sempre stato. È la vita
I conigli
si mangiano». «Ma perché dobbiamo
proprio mangiarli?» insistevo io nel sale delle mie
lacrime. «Perché è nella legge della
natura
Ma forse non è una buona
legge
forse non è una buona legge
» rispondevi curvo staccando con maestria la
pelliccia dalla carne dell'animale morto. O ancora quella
nera sera d'autunno quando tornasti a casa dal tuo turno
di lavoro al vecchio essicatoio coi cerchi di polvere
attorno agli occhi e le ossa provate? Con lo stile di un
prestigiatore consumato e un sorriso che avrebbe aperto
tutte le porte, ad un tratto, sfilasti da sotto il tuo
pastrano scuro una piccola volpe spaventata e arruffata
che raccogliesti per strada orfana e disorientata e me la
porgesti strizzandomi un occhio. Ricordi ancora e ancora
l'infausto giorno in cui Eolo, il miglior amico che
avessi mai avuto se ne andò dal paese?
Sparì dalla mia vita in quel tardo, afoso
pomeriggio d'agosto: fiordalisi lungo i fossi soffocati
d'erba, onde d'api e zanzare sugli orti mesti e
rigogliosi, sandali dimenticati sotto foreste di dalie.
Era stata una fuga o un abbandono? Rifiutai di
interrogarmi, di muovermi, di asciugarmi cuore, naso ed
occhi e lasciai rovinosamente scivolare i miei singhiozzi
sulla piazza narcotizzata dal sole. Mi disfai le trecce,
mi strappai quasi gli occhiali sudati dal piccolo naso
bagnato e percorsi calma e appassionata per sei volte il
muretto più alto e malandato dei miei anni
sperando nella precarietà dei mattoni e nelle mie
vertigini sibilline. Non precipitai. Compii altri
tentativi, ma il suicidio a quanto pareva, non mi si
addiceva affatto. Verso sera, ma forse era già
notte consentii ai miei piedi gementi di riportarmi a
casa. La nonna mi accolse come un fantasma o un reduce da
una missione spaziale fallita, mobilitò tutto
quanto il vicinato che si prodigò solerte per
ristorarmi. Tutto questo mi calmò e finii per
arrendermi al sonno tra le braccia di qualcuno che con
mano attenta mi accarezzava il primo sogno affacciato. La
notte passò e fu piena di grilli, di lucciole e di
bisbigli teneri come un cestino di pesche. Quando mi
svegliai trovai ai piedi del letto una splendida,
lillipuziana sediola fatta con legno di ciliegio. L'avevi
costruita per me durante la notte, in silenzio mentre
fuori i primi venti scorrazzando arruffavano il pelo dei
gatti in cerca d'amore e di prede. Rammenti quell'altra
sera di un tempo quasi completamente affondato? Stavo
immobile, in attesa, dritta nel vento (vento vento) di
fine maggio, appoggiata alla mia impazienza. La strada
finiva in una curva stretta che tagliava il mondo
inesorabilmente come un colpo di falce.
Le risaie luccicavano nell'ultimo sole che colorava
l'acqua di sogno, un sogno a tinte forti e dolci, aperto
a tutti. Finalmente ti intravidi fluttuare laggiù
in lontananza, un movimento scuro che avanzava appena.
Poi ti riconobbi e per nulla al mondo potevi non essere
tu. Il coro delle rane salì dai fossi al cielo, si
perse nel vento, riemerse più intenso più
vicino. Pedalavi distratto e leggero sulla vecchia
bicicletta da pianura coi freni a bacchetta e la sella di
cuoio, arrugginita e indomita.
Ti avvicinavi nel tuo sorriso composto velato di
saggia malinconia con la coppola impolverata e gli
stivali bassi ai piedi, la giacca stretta e il tuo cuore
di bambino curioso spalancato come le finestre ad
aprile.
Andammo sul prato dietro casa e tu facesti
l'acrobata camminando sulle mani nel trifoglio fresco,
poi quando comparvero le stelle mi portasti al piccolo
luna park sulla piazzetta e volammo sulla giostra fino a
toccare la notte.
Il giorno dopo tornasti alle tue risaie, ai tuoi
pioppi, al tuo sogno di giovinezza infinita ed eri, come
adesso lo sei più che mai, signore dell'acqua e
del cielo, perché la nobiltà è nello
sguardo, nel modo di porgersi al mondo o di toccare la
corteccia di un olmo. E tu sei nobile come una vetta
solitaria, quelle vette conosciute a vent'anni col
cappello piumato da artigliere da montagna in testa e
portate nel cuore fino ad oggi e raccontate col tremito
di voce del poeta che ti porti dentro.
Raccontami nonno Cesare dei tuoi anni duri e
ridenti, parlami con le tue mani di falegname colto e
musicale, riportami ai tuoi chiari di luna, alla grazia
dei tuoi silenzi attenti e confortami con la lucida
gentilezza del tuo sguardo. Questi giovani un po'
trascorsi con poche speranze come me hanno bisogno di
scorgere negli specchi immagini di grandi vecchi che
s'incamminano con bambini per mano e sapere che a turno
ognuno di loro rallenta il passo per aspettare l'altro.
Buon compleanno nonno Cesare, novant'anni di vita limpida
come un quarzo sono il tuo biglietto da visita per un
futuro senza capolinea.
- «Sali in macchina nonno, ti porto a casa,
c'è tanto vento
stasera».
-
-
Passaggi
di brume e di astri
Ha incominciato a piovere sommessamente,
mestamente, minuziosamente, senza che una nuvola si
muovesse nel cielo color lana di pecora. Sei rimasti
lì, accanto al tronco contorto del glicine, seduta
dritta sulla piccola sedia spagliata, vecchia sicuramente
quanto le tue ossa. Tuo figlio, prima di tornare in
città, ti ha spostata dal tuo angolo e ti ha messa
al coperto. Tu non ti sei ribellata, non hai mutato
espressione, hai soltanto alzato gli occhi sui suoi occhi
del tuo stesso color di foglia e hai mormorato:
«Piove. Torna a casa». Lui ha lasciato cadere
uno sfuggente sorriso, ha mosso la testa ed è
salito sulla sua automobile lucida e spettrale come un
disco volante: «Giovedì vengo a prenderti. Ti
porto alla Villetta mamma. Ti piacerà vedrai.
Sarai in compagnia e ci sarà chi baderà a
te». La Villetta era la casa di riposo, il
sottoscala del trapasso, gli ultimi muri della tua vita.
Non hai aggiunto nulla alle sue parole. Non c'era nulla
da aggiungere alle sue parole. La comparsa di un velo
trasparente sullo sguardo ti ha per un attimo confuso il
mondo. Subito si è sciolto in uno scorrere tiepido
lungo le ramificazioni di rughe della guancia, profonde
come impronte di passerotto sulla fanghiglia del cortile
sgelato. Non erano lacrime. la capacità di
piangere era trascorsa, come la meno consueta
capacità di ridere. Il tuo vecchio cuore di
mondariso era governato ora, libero da ogni vitale
impedimento, da quella sensazione di porosa malinconia
che per tutta la vita avevi scacciato come scacciavi una
mosca sul tavolo apparecchiato. Hai annusato l'aria come
facevi sempre di sera, prima di chiudere l'uscio a
chiave, per capire dall'odore che saliva dalla terra i
possibili mutamenti del cielo. Ma adesso l'aria sapeva di
niente o di poco, come i cesti di frutta del negozio o il
primo pane della colazione. La vita e il tuo sangue
avevano perso possenza e speranza, a volte barcollavano e
mandavano segnali isterici, senza codici. La notte e
quasi tutto il giorno seguente l'hai trascorso frugando
nei cigolanti armadi della camera da letto. Tutto quello
che avevi conservato con scrupoloso ordine tra i
sacchettini di lino ritagliati da vecchie sottovesti e
colmati di lavanda, sarebbe stato raccolto con furia
maldestra e funesta dai tuoi figli profanatori portato
via, irreversibilmente. Ricordi piccoli e perduti tra
cappotti di foggia trascorsa e lenzuola ricamate a mano,
la sera, nel tepore delle stalle, ti molestavano il
cuore. Ceri benedetti e fotografie dei figli piccoli
scattate da fotografi approssimativi, episodi trascorsi e
sentimenti remoti riemergevano con pudica violenza tra le
tue dita lievi e irrigidite dall'artrite. Ti sentivi
sdoppiata, qualcosa di te urlava imprigionato nel nero
fradicio di un pozzo mentre l'altra parte vagava di
stanza in stanza accarezzandosi i gomiti, la bocca
piegata in un sorriso, come da sempre ti fu insegnato, in
faccia al feroce incedere della vita. La vita, la vita,
la tua vita raggomitolata in un angolo che gemeva come un
cane sperduto e quel sorriso, né mesto, né
ironico, modellato sulle tue labbra a immagine e
somiglianza del tuo cuore, giunto intatto al porto
nonostante le tempeste e le arsure di un lungo viaggio
nel tempo. Hai lasciato bruciare l'ultimo pezzo di legno
d'acacia nella stufa di ghisa sulla quale, anni prima,
faticavi a scaldare tutta l'acqua necessaria ai figli per
lavarsi la sera e nel cui forno, in inverno, c'erano
sempre mele cosparse di zucchero che caramellava.
L'autunno si stava muovendo a piccoli passi rapidi,
slegava le foglie dal fico e alitava nebbie odorose di
bruma sui campi umidi e immobili. Ti sei passata una mano
sugli occhi e hai staccato lo scialle pesante,
lentamente, indugiando dietro ai pensieri come fanno i
perditempo e i signori di ogni epoca. Hai aperto l'uscio
su un tardo pomeriggio raffermo, percorso da tortore
inquiete che svolazzavano tra i pochi tetti e i tanti
rami di pioppi sguarniti. I cortili delle case si
assomigliavano tutti: una piccola aia sconnessa, residui
di pozzi ormai inutilizzati dopo l'arrivo dell'acqua
potabile, biciclette appoggiate ai muri insieme a vecchi
attrezzi da lavoro, pollai e rustici sbilenchi che
servivano da ripostigli o garages, ma sapevano ancora di
piume, fieno ed escrementi di mucche. Oltre i cancelli
l'unica via del paese con una denominazione. Essa
scorreva in mezzo alle case e agli orti e passava accanto
alla solitaria piola dove la domenica si mangiavano rane
fritte e si bevevano rossi amabili tra i clienti delle
città che uscivano ondeggianti e un po' tristi e
riprendevano la strada verso la civiltà con lo
stomaco saturo e strani lampi negli occhi. Sei passata
davanti ai cancelli, alle aie, agli orti, agli occhi dei
gatti sui davanzali, agli occhi che transitavano dietro
le tende delle finestre, ai mattoni sui quali ti
appoggiavi nei tuoi spostamenti e che ti riconoscevano e
che tu riconoscevi anche nel buio delle albe invernali e
sei sgusciata fuori da quel tutto consueto.
Oltre c'era la pianura, il tuo infinito. Argino
composti di platani scalvati e pioppi canali
impenetrabili, fumo di stoppie che bruciavano piano
nell'umidità del pomeriggio d'autunno che
avvolgeva aspro e nebbioso le tue membra fino a farti
male. Qua e là sacchi di plastica di concime
assassino mezzo sepolti nel terriccio dei fossi. Tralicci
dell'alta tensione e stormi di corvi si contendevano lo
spazio aereo. Hai cercato intorno a te un palpito
segreto, un profumo paragonabile, una goccia feconda, un
carme lenitivo.
Nulla. Solo il rumore secco dell'irrompere di un
convoglio sulle rotaie in lontananza. Hai aspettato.
Aspettare ti era familiare. Hai aspettato tanto negli
anni che si rincorrevano. Hai aspettato di crescere,
quando ogni mattina pestavi chilometri di fango per
raggiungere una scuola arcigna e piena di trappole per
topi, hai aspettato le stagioni in cui il riso e il
granoturco si potevano mietere, hai aspettato che i figli
crescessero e si irrobustissero per temere un po' meno
per ogni folata di freddo che passava sotto l'uscio, hai
aspettato che il dolore scorresse via come una goccia sul
vetro
Intanto si staccavano i calendari vecchi dai muri e
tu non avevi nemmeno il tempo di accorgerti che i capelli
ti ricrescevano scoloriti. Improvvisamente alle tue
spalle un ciclope onnipotente ti ha oscurato. Vacillando,
come se una forza fredda e invisibile ti avesse toccata
ti sei rimpicciolita sul ciglio della strada e con la
testa piegata hai alzato gli occhi sulla sagoma
fragorosa. Un uomo in alto, sul sedile della mietitrebbia
ha sollevato una mano, come per un saluto. Hai mosso il
sorriso, come per un saluto. Il cuore si è
tranquillizzato soltanto quando quell'apparizione ibrida
è affondata nella foschia, quasi
contemporaneamente al suo rumore. Con un lieve capogiro
hai svoltato in un viottolo che conduceva proprio in
mezzo ai campi anneriti. Allora nei tuoi occhi è
sbocciata un'acqua limpida, profumata di primavera, che
ha inondato le stoppie, le ha sommerse, si è
estesa, ha tramutato la pianura in un lago senza confini
apparenti, quasi un mare. Un soffio fragoroso di vento
tiepido è passato sulla nudità dei pioppi,
li ha scossi, ha appeso fogliame tenero ai rami
scricchiolanti, ha attraversato le geometrie di quegli
specchi liquidi e ha scompigliato le piantine di riso in
improvvisa crescita. I fossi e i canali si sono colmati
di una traboccante acqua chiara e benigna (l'acqua,
l'acqua dei tuoi occhi), il suo eloquio ancestrale ha
preso a scorrere ovunque, ti è entrato dentro come
una musica che tu sai di conoscere nota per nota, come se
l'avessi composta. Garzette bianche e beccacini volano
tra il sole e i suoi riflessi, chioccioline, rane e
salamandre scivolano, saltano, e sgusciano tra le
caviglie delle mondariso curve sulle piantine neonate da
crescere senza tentennamenti, come i figli. E tu sei
lì tra loro con le reni dolenti, le scarpette di
gomma che aderiscono come una seconda pelle, le mani nel
fango, le calze pesanti e intrise per difenderti dalle
zanzare, la tradizionale caplina in testa sopra il
fazzoletto annodato dietro la nuca. C'è una lunga
giornata di lavoro ferreo e sfibrante da svolgere, ma ci
sono i canti, le risate, la paura pranzo di mezzogiorno
con la frittata e il salamino da gustare. Il ritorno in
bicicletta, la sera poi, è come un giro in giostra
dopo il travaglio. A casa ci sono mazzetti scompigliati
di bambini cresciuti sopra gli alberi da frutta e nelle
pozzanghere dei sentieri che aspettano un rimprovero
sottovoce e un piatto di riso coi fagioli. Le stagioni
sfilano come una danza in costume e mutano le sfumature
di questo cielo sconfinato che non riesci a contenere con
gli occhi se lo guardi, spolverato e terso, nel primo
albore.
I campi non aspettano gli umori degli uomini. La
tua vita è stata rapita e conformata sulle
impellenze del lavoro e dalle necessità della
terra coltivata. Al di fuori di questo un po' d'amore
ruvido e impacciato, il suono di una fisarmonica e
qualche scoppio di composta felicità. Cominciavate
in primavera, gli uomini pulivano i fossi, procedevate
all'erpicatura, allagavate la terra, passavate coi
cavalli alla slottatura con l'asse, livellavate il
terreno con zappa e badile, poi iniziava la semina e di
lì a poco le mondariso entravano in scena a
compiere quel prodigio d'intelligenza e diligenza che era
la monda.
All'inizio dell'autunno il riso ormai biondo e
pesante veniva raccolto e legato in covoni. Ti immergevi
in quel fulgore aspro e grinzoso con falce e guantoni e
recidevi finché c'era luce, la schiena inarcata,
ancora, il sorriso impresso dal mattino, appena un po'
più voltato in smorfia verso sera. Poi seguiva la
trebbiatura, l'essicazione sull'aia, la separazione degli
scarti col ventolino, la riempitura dei sacchi da inviare
in riseria, la raccolta della paglia e la bruciatura
delle stoppie. Tutto si concludeva con la calata delle
prime nebbie sulle file tacite e ieratiche degli
spazzafossi in bicicletta coi badili sulle
spalle
L'acqua nei tuoi occhi si è asciugata, ti
era rimasto solo un palpito curioso che si propaga
dovunque, oltre il cuore e oltre la pelle. Hai lasciato
la mitezza del tuo sguardo spargersi lontano, spingersi
all'orizzonte, dove il vento sta scacciando la nebbia e
fa intravedere pallidi ammiccamenti di stelle.
«Ehi Pinotina!».
La voce alle tue spalle ti è parsa un
neologismo. Ti sei voltata piano e un sospiro si è
aperto in un nome: «Cesco
». Gli occhi
dell'uomo di fronte sono pieni di tante lucciole e il suo
sorriso sdentato e schiuso assomiglia a quello di un
bambino ammaliato dalle bancarelle di un fiera. Cesco il
matto. Matto perché libero, libero di non
possedere e di non essere posseduto da niente e da
nessuno in un mondo con pesi e misure, ordini e
contrordini. Cesco aveva trascorso la vita con quel
niente che lo paragonava agli uccelli nell'aria e ai
pesci nell'acqua. Appariva e scompariva come un folletto,
dormiva vicino alle tane delle volpi, acchiappava le
lepri con un balzo felino e agguantava le carpe con le
mani. Non aveva case, né legami, né
ricchezze e forse nemmeno sogni, il suo unico sogno se lo
stava vivendo da quando era nato, chissà dove,
chissà da chi. La gente lo tollerava, a volte lo
bandiva per i suoi sberleffi e il suo ghigno sardonico,
alcuni lo ritenevano un alienato stravagante e gli
regalavano pasti e vestiti. Lui non ringraziava, rideva
dolcemente, si lisciava la faccia rasposa e si lasciava
rimpinzare. «Cesco guardavo lontano
Pensavo a
quando non c'erano ancora le macchine, alle nostre
giornate
».
Lui ti ha osservata con la fronte aggrottata e le
orecchie rosse di freddo. Allungando il labbro inferiore
ha sciolto lo sguardo all'orizzonte, anch'egli,
incupito.
«Senti? La notte sta bussando, tra poco
entrerà nel cielo e sarà buio. Nessuna luce
degli uomini o di dio potrà mai accendere il
buio».
Il vento si sta annunciando con piccole violente
aggressioni. I profili si offuscano, l'indeterminatezza
della nebbia volge nell'indeterminatezza della notte. Il
tuo sorriso ha ora una curvatura dolente, accorata come
se ti fosse giunta notizia di un ipotetico oltraggio.
Cesco si è scosso e con un balzo è salito
sull'argine sovrastante. Ha aperto il tabarro e come un
enorme rapace notturno, a braccia tese, ha lasciato il
vento giocare con le sue nere ali. La sua voce è
esplosa nerboruta e ben presto i vapori del suo alito si
sono assiepati intorno a lui: «Gli uomini sono come
bachi da seta! Divorano, divorano foglie di gelso per
costruirsi intorno bozzoli sempre più grandi
sempre più grandi
Si perdono nei loro
bozzoli e solo quando li spaccheranno per volare via
tramutata in farfalle conosceranno la verità. La
verità è laggiù ma è anche
qui nel fango sotto le mie scarpe! Basta essere fuori dal
bozzolo per vederla! La civiltà porterà
l'uomo in malora, egli soccomberà in mezzo ai suoi
veleni col cervello contrapposto al moto degli
astri
».
Soltanto quando ha finito la sua arringa si
è accorto di essere immerso in un gregge che lo
attraversava rapido come uno scoglio in mezzo all'acqua.
Ha abbassato le mani sul vello delle pecore che passando
gli accarezzavano le dita senza che lui fosse costretto
ad alcun movimento. Un riso infantile lo ha scosso, ha
guardato verso quella piccola donna ai margini della
notte che lo contemplava quieta e le si è
avvicinato con cauta deferenza, col cappellaccio tra le
mani, come se si accostasse a qualcosa di sacro.
- «Pinotina
Mi hai fatto
ballare tante volte alla festa di settembre
Poche donne mi hanno voluto come cavaliere lo sai. Ma
tu eri buona con me, non ti vergognavi di ballare con
un matto
Posso chiederti un ballo adesso? Qui
sotto queste stelle?» e ha alzato il braccio a
disegnare un arco nell'aria. Lo hai guardato come si
guarda un bambino che dorme, senza stupori, hai
ricomposto la veste e hai allargato il sorriso quasi
quanto potevano le tue mascelle contratte. Hai
appoggiato una mano sulla mano del Cesco e l'altra sul
suo braccio zelante. Avete iniziato a muovere
minuscoli passi sulla melma finché da lontano
è sembrato giungere un imponderabile suono di
fisarmonica che si è propagato sulla pianura
come un volo di ibis
Un'auto è
transitata e per un attimo ha illuminato coi fari due
figure che si muovevano titubanti in una insolita
danza flemmatica tra le risaie pietrificate dalla
notte e dal gelo. Un cane ha abbaiato in un cascinale
remoto, un lamento di fagiano è passato sopra
foglie randage, in alto, oltre le brume e i dissensi,
Saturno è entrato nel segno dei
Pesci.
-
-
Congiunzioni
La voce del nonno era un soffio incomprensibile che
procurava ogni volta al mio cuore friabile piccoli crolli
silenziosi. Lo guardavo obliqua, con una maschera di
normalità mal sostenuta da un comportamento quasi
paranoico. «Il nonno sta morendo»,
«Ischemia». Mi confermavo mentalmente dati che
una parte di me non riusciva ad elaborare. Mi sentivo
inceppata rarefatta. Le mia mani fredde, umide sui segni
del palmo, sistemavano con una attenzione paradossale il
lenzuolo e accarezzavano con pudore le sue dita agitate.
Se la morte è un evento naturale, complementare
alla vita, la sofferenza che la precede non lo è
affatto. Mai. Il dolore quando infine non ha sbocchi non
è un tributo da pagare all'ingresso di un nuovo
spettacolo, ma sempre un disastro colposo impunito.
Evitabile. Non volevo che intuisse la verità. Si
finisce sempre per pensare che chi sta per estinguersi
non riconosca il balletto premonitore. In una canicola
impietosa recitavo una quotidianità da copione
mediocre che pareva una caricatura. Il nonno non aveva
mai amato quel caldo intenso. Era sempre stato un
estimatore di quei nostri inverni freddi e secchi, coi
ghiaccioli appesi alle grondaie e gli emblemi della brina
sui paesaggi azzurri. Il gelo lo faceva scintillare come
un diamante, rientrava in casa euforico con la legna per
la stufa e scodellava il suo buon umore fino ad un
completo contagio.
In uno di questi pomeriggi grevi, che il nonno
aveva sempre cercato di schivare come un morso velenoso,
mentre mi recavo all'ospedale dove lui stava piano piano
deragliando, ero incappata, quasi ci ero finita sopra, in
un piccione accartocciato sul marciapiede. Non presentava
ferite apparenti, aveva gli occhi persi già in
un'altra dimensione. Si era lasciato prendere, lo avevo
sollevato facendo un nido con le mani, lo levai dalla
minaccia di pneumatici e tacchi. Lo depositai oltre le
aste di un'inferriata, sotto un cespuglio di lauro. Al
sicuro. Quasi mi aveva guardato. Il suo corpo color della
cenere stava comunicandomi il suo amaro messaggio.
Cercava un condono nelle ombre che gli sfilavano davanti
o forse tentava di riconoscere un demiurgo benevolo tra
quei passanti distanti? Provai a trasmettergli quel che
affiorava dalla mia impotenza: compassione e
compartecipazione alla sua sofferenza. Lo accarezzai tra
collo e ali con un'impronta di dita.
Dita.
Le dita del nonno ormai non si lasciavano
più accarezzare. Quando raggiungevano le nostre
mani, ci imprimeva le unghie nella carne con una forza
non riconoscibile. Era sul margine, oltre c'era il vuoto
immondo che lo risucchiava. Il suo era il volo di un
corvo invecchiata in una tempesta di grandine fredda.
Un'opposizione disarmata, sgualcita, sterile,
immensa.
Immensa.
Immenso mi apparve il torrente che dovevo
attraversare. Il nonno mi teneva per mano e mi indicava i
passi da compiere, i sassi sicuri. La sua presa era salda
e suasiva, ma procedevo impaurita, irritata dalla mia
debolezza. L'acqua luccicava di bagliori selvaggi e la
corrente premeva sulle mie esili gambe senza
misericordia. Guardavo perplessa le sponde opposte con la
certezza di non raggiungerle mai. La mano convinta del
nonno non mi lasciò ingoiare dai gorghi e
trasformò il mio panico in percezione di trionfo
quando mi accorsi di trovarmi nell'umidità della
riva parallela.
Parallela.
Parallela al suo letto gli umettavo le labbra con
una garza bagnata mentre le ultime vane gocce
dell'ennesimo preparato per fleboclisi scendevano lungo
il tubicino di gomma. Le mosche sbattevano contro i vetri
aperti della finestra. Raramente i loro ronzii si
interrompevano in un volo di libertà, nonostante
questa fosse raggiungibile con un irrisorio cambiamento
di traiettoria. Il giorno seguente avevo portato della
mollica e una manciata di granaglie al piccione. Si mosse
un poco, forse nemmeno, forse solo lo immaginai.
Lentamente stava sprofondando nelle sue piume. In un
altro momento della mia vita mi sarei occupata seriamente
del suo spasimo, ma in quel vortice di dolore le mie
azioni erano distanti da me stessa e si esplicavano quasi
senza riflessione. Quell'ultimo giorno passai davanti
all'inferriata, guardai e mi accorsi che il piccione
aveva lasciato scorrere via la vita da sé. Giaceva
con le ali inarcate e il capo abbassato, composto.
Raggiunsi il reparto Ostetricia e sbirciai dai vetri le
culle dei neonati: sentivo l'esigenza di guardare la vita
appena schiusa e di lasciarmi allettare dal suo involucro
seducente. Pensai che il soffio vitale vagante del
piccione, per una mirabile traslazione, si fosse
trasformato nel respiro calmo di una di quelle nuove
esistenze.
Esistenze.
L'esistenza del nonno era al posto di frontiera. La
girandola penosa dei dettagli si sarebbe fermata su un
ultimo gesto tentato, su un segnale venuto da lontano, su
un lampo irrisolto negli occhi.
Terminare. Era un verbo come un altro. Con un
significato come un altro. ma qualcosa non tornava.
Qualcosa non... Il dolore si stava rivelando in tutta la
sua potenza, ridefiniva i confini, scioglieva le
alleanza. Pensai: "Tornerò a ridere, non
più a sorridere". Naturalmente. "Adesso
ascolterò e capirò i cani che abbaiano
nella notte sotto lune pesanti, senza
rabbrividire".
Quelli vivi ritornano a casa, tremandoci sopra
sussurrava Pavese. Quelli vivi. Sgusciai dalle litanie
dei pensieri.
Cambiai reparto. Di là l'impronta della
morte era visibile dietro ogni porta a vetri, sulla
vernice giovane dei muri, sulle lenzuola sfatte.
Raggiunsi la stanza in un crescendo di ansia
premonitrice. La porta era chiusa. Intuii l'agitarsi
professionale di camici e strumenti oltre la soglia.
Entrando quasi mi scontrai con l'adipe di un'infermiera
dal fetore intenso che stava correndo fuori. «Lei
chi è? Una parente?». Balbettai: «Una
nipote» barcollando cerea verso il letto nascosto
dal paravento. Stavano levandogli la mascherina
dell'ossigeno. Non serviva più ossigeno. Non
servivano più attrezzi clinici, né farmaci,
né rianimazioni. Il nonno era immobile, non
più contratto, non più sudato, tiepido, in
attesa di raffreddarsi. Strinsi la sua mano. Gli impressi
le unghie nella carne con una forza non riconoscibile.
Aprendo i cancelli alle lacrime sperai che la
banalità non sfiorasse quella stanza. Gli toccai
gli occhi, la testa.
La testa.
La sua testa lustra con appena un'ipotesi di
candidi capelli scarmigliati sulla quale stava poggiato
il berretto da notte che io negli anni dei pulcini e
delle zanzare giocavo ad acchiappargli per poi ridere
come non ho più riso in tutta la vita. Era sempre
il nonno ad accompagnarmi a dormire. Mi raccoglieva
già in pigiama tra il calore fuligginoso del
camino e lo splendore del nuovo libro di favole sul quale
ero crollata. Mi avvolgeva nello scialle ispido della
nonna e mi portava su per le scale gelide in un odore di
candele consumate e muffa. Nel letto mi aspettava lo
scaldino di rame e un sogno tutto per me, senza
sbavature. «Buonanotte picinqueli». Il suo
bisbiglio era lieve come la coda del gatto che scivolava
distratta dietro i vetri. Picinqueli. Non gli chiesi mai
il significato di quel nomignolo. Forse era un
vezzeggiativo dialettale che poteva voler dire piccola
quaglia? Da grande mi dimenticai di
domandarglielo.
Da grande.
- Da grande avevo coltivato il suo mito
con tenerezza infinita e avevo combattuto contro chi,
inavvertitamente, oscurava i suoi colori, disturbava
il suo riposo. La mia vita ora era intaccata
dall'inesplicabile. Uscii sul terrazzo torrido. Il
pomeriggio stava virando in sera, odori d'ospedale
salivano dai piani bassi. Uno stormo di piccioni si
alzò all'improvviso in un volo radente e
curvilineo, sorvolò i miei pensieri, i battiti
d'ali mossero le gocce sulla mia faccia e alterarono
la mia smorfia mesta. Lo stuolo sormontò gli
edifici e le cime degli abeti, svoltò e
ritornò come per un nuovo sopralluogo sul
terrazzo. Mi oltrepassarono con un'impennata ed ebbi
la percezione di alzarmi in volo con essi. Alcune
piume mi fioccarono addosso, dolci come certi attimi
perduti. Il soffio vitale del nonno volava in alto,
oltre l'afa e lo smog, verso la frescura della sera in
una scorribanda di piccioni. In mezzo a quelle ali in
movimento indovinai il colore delle
sue.