Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Enzo Annamaria

Con questo racconto ha vinto l'ottavo premio del concorso Club Poeti 2001-2002, sezione narrativa

Sussulti di libertà
 
La porta si aprì: l'ultimo ostacolo era ormai superato. La luce del sole la colpì come un sasso di fiume, ferì gli occhi poi rotolò giù, fino in fondo al cuore.
Era di nuovo libera.
Tutta quella luce, improvvisamente, costrinse i suoi occhi a serrarsi di colpo, impedendole per qualche attimo di proseguire.
Appoggiò la mano all'altezza del sopracciglio per ripararsi dall'intensa luce mentre, lentamente, cercava di riaprire le palpebre.
 
Era rimasta per troppo tempo senza luce, nella penombra, oppure accecata a tratti, da invadenti fiotti di luce artificiale, invasiva, curiosa più degli uomini, bianca come ghiaccio, fredda come acciaio.
Il tempo, in quel pertugio stretto e umido, non aveva più spessore: i ricordi di ieri e i progetti, forse, di domani, erano diventati tutt'uno. La mente confusa li aveva mescolati.
Era difficile far ordine nella testa mantenendo nitido il senso del tempo: sembrava di impazzire.
La funzione che sopravviveva lucida, mai intaccata da fame, freddo, paura, era quella incaricata dei ricordi; era vitale, perché pensare a ieri, imponeva di immaginare per confronto, il domani. La cosa più necessaria infatti era una prospettiva, che la tenesse sveglia, con la mente attenta, capace di non farsi travolgere dalla disperazione.
Fluido il ricordo, pesante il ricordare, soffocante la responsabilità che, libera dai ritmi frenetici della vita di città, si era impossessata di lei.
L'aveva costretta a specchiarsi davanti ad uno specchio invisibile e strano: dove non si rifletteva l'immagine esterna ma quella interiore.
Non i chili di troppo, non le rughe del viso, non i vestiti passati di moda, solo immagini scolorite di un percorso spesso difficile, verso il tramonto.
Quelle immagini leggere ma corpose, delicate ma decise, che trasformano un salto nel buio in un volo libero verso l'azzurro.
Si sentiva responsabile per ciò che non aveva detto, rifiutandosi di pensare, evitando qualsiasi incursione dentro se stessa, nei suoi sentimenti, nelle emozioni.
Nella cittadina in cui viveva, la sua famiglia era molto conosciuta e stimata; la sua casa era stata costruita al centro di un enorme spazio verde, sufficiente in città per un giardino pubblico, di quelli incuneati invece, tra un condominio e un fast-food.
La proprietà era preceduta da un viale alberato che lasciava intravedere in modo graduale la costruzione.
Ai lati dell'enorme cancellata di ferro brunito erano collocate due colonne in mattoni faccia a vista sui quali stava saldamente appoggiata una scritta "Famiglia Pilici", che dava il benvenuto agli sporadici visitatori.
Agnese abitava in quella casa da quand'era nata, quarant'anni prima, quando il verde in quella zona, la faceva da padrone. La casa era rimasta in eredità a lei, figlia unica, alla morte dei genitori; ed erano trascorsi ormai alcuni inverni. L'agricoltura, negli ultimi anni aveva lasciato il passo ad attività commerciali e del terziario. La cittadina si era progressivamente ingrandita, diventando un luogo confortevole per vivere.
I primi quartieri residenziali, costruiti alle spalle del vecchio centro, dovevano essere, almeno nelle intenzioni, un modello di città all'avanguardia con più spazio per il verde pubblico e un uso più razionale dello spazio. Erano diventati invece un chiaro esempio di costruzione selvaggia, senza piani prestabiliti, senza rispetto per i vincoli ambientali.
Era stata realizzata inoltre, una zona artigianale invogliando molti imprenditori ad inserirsi nell'area, offrendo agevolazioni fiscali in cambio.
Agnese aveva sfidato gli schemi sociali di provincia, allontanandosi dall'azienda di famiglia per dedicarsi agli studi che più l'appassionavano e, in anticipo sul piano di studi si era laureata in lingue.
Aveva percorso buona parte del mondo, scoprendo ad ogni partenza emozioni ed entusiasmi quasi insospettati.
Più volte, a bordo dell'aereo di linea, o nel mezzo del museo archeologico, mentre illustrava opere d'arte alle più disparate orde di turisti, più volte, si era fermata incredula a considerare l'enorme fortuna rappresentata da un lavoro appassionante come il suo.
 
Un tonfo sordo. Il cervello si blocca; è come aver cancellato una lavagna di colpo, nero il colore che rimane.
Tende l'orecchio, cerca di capire la natura del rumore: non n'é quasi il tempo.
È arrivato un guardiano a portarle il pranzo. Cibi acquistati certamente in qualche rosticceria, dai sapori tutti uguali, dai colori indefinibili, gelidi alla sua bocca.
Oggi per la prima volta hanno aggiunto un bicchiere di vino rosso. Non beve, ha paura di un imbroglio.
Non è chiaro come procedano le trattative per il pagamento del riscatto richiesto, e Agnese non si fida.
O meglio non confida molto sulla possibilità di recuperare la somma di denaro richiesta, ben al di sopra delle loro disponibilità.
I carcerieri non la trattano male: non urlano, non picchiano, ma violenza è non potersi muovere, è violenza vivere in uno spazio che misura tre passi da un lato e cinque dall'altro. È violenza non poter vedere la luce del giorno, oppure la luna e le stelle quando cala la notte.
A rischiarare a malapena l'ambiente c'è una lampada da campeggio, unico soprammobile di quell'angusta caverna. Inizia a dolerle la muscolatura, costretta a posizioni contratte da ormai quaranta giorni.
Fuori, lontano dal buio opprimente della caverna, forse è arrivata la primavera: l'aria è tiepida, ideale per una passeggiata. Tra i prati appena verdi, approfittando del tepore, correre finché dura il fiato, prima che il sole e la scarsità d'acqua, tipica dei mesi estivi, colorino di giallo il paesaggio.
Costeggiare folti arbusti di mirto, annusarne il profumo, perdersi nelle distese di verde imbiancate di colore.
L'immagine è talmente intensa, violenta, che fa male. Un bruciore fulmineo si insinua, pericoloso, nel centro dello stomaco.
Camminare a lungo osservando la bellezza, a tratti selvaggia, dell'isola: costeggiare il mare, ripararsi dal sole cocente all'ombra di una cala appena nascosta, di cui è ricca l'isola.
Nascondere i piedi nella sabbia grossa e porosa, sorprendentemente bianca, della spiaggia, farla penetrare tra le dita, lasciarsi ricoprire dal deposito di polvere che ne rimane.
Godere del cielo terso, osservare gli aironi che, tinteggiando il cielo di rosa, attraversano l'orizzonte, compatti nella geometria dello stormo, e tornano, ancora una volta, negli stessi luoghi per nidificare.
Il contrasto, struggente, fra pensieri ricchi di poesia e considerazioni di atroce realtà, è una stilettata che penetra nella carne arroventandola.
Negli occhi le ritorna un'immagine fotografica, appesa come un quadro nel salotto di casa, opera del marito, fotografo poco convinto. Ritrae proprio il passaggio di uno stormo di fenicotteri rosa, apparsi quasi improvvisamente, sulle loro teste, mentre camminavano sulla battigia, una domenica, verso il tramonto, con un sole ancora abbagliante, indeciso a scomparire. Immagina il marito, ansioso per natura, alle prese prima col rapimento, poi, sicuramente sconvolto, a caccia della somma necessaria per il riscatto.
Lo vede sudato, ansimante, girare tra banche e istituti finanziari, sprofondando regolarmente ad ogni diniego.
Un uomo di sicuro dolorosamente provato da questa esperienza, per il quale il benché minimo cambiamento diventa un problema insuperabile, mentre la normalità è garanzia di tranquillità, la tranquillità è certezza, la certezza sicurezza irrinunciabile.
Si slaccia il bottone del colletto, le manca l'aria. Si guarda intorno, non c'è nulla di diverso dai giorni precedenti: niente che giustifichi la mancanza di respiro.
Agnese riflette a lungo. Mettere fine ad un periodo di vita in comune è una scelta dolorosa, per molti versi, liberatoria per altri. Questo pensiero toglie l'ossigeno.
Il suo matrimonio: un grosso errore, suo marito distante anni luce da lei, per affinità ed interessi.
Ma il tempo passava, le occasioni precedenti, poche, anche peggiori, e la trentina non si faceva più attendere.
Nel paese i commenti, ogni giorno meno benevoli, spinsero i genitori a caldeggiare un matrimonio che ponesse fine alle chiacchiere.
"Li avessi lasciati chiacchierare" sospira Agnese, "chissà, forse ora mi troverai lontano da qui".
Il matrimonio? Forse è un contratto, ma i contratti non prevedono affinità elettive ma rigidi edempimenti burocratici che offendono l'anima.
Questo contratto, perché di questo si tratta, forse ha soddisfatto Samuele, il marito, ma ha profondamente deluso lei. La sua vita ha subito una trasformazione profonda. Ora, nel buio illuminante della cella, le è chiaro.
Da ragazza all'avanguardia, si è trasformata in casalinga apatica. Ciò che non era riuscito alla sua famiglia, le era stato imposto dal marito.
In fondo avere una moglie casalinga ha dei vantaggi. Cura maggiormente la famiglia, è sempre presente quando serve, al marito, e soprattutto, dimostra ai concittadini le capacità del marito nel mantenere alto il tenore di vita.
 
È freddo, brividi improvvisi percorrono la sua schiena, lampi di freddo penetrano nella testa e congelano pensieri e sensazioni. Agnese si massaggia la pelle, la strofina: vuole restare lucida, continuare a pensare. Le sembra di aver volontariamente annullato pensieri e decisioni per troppo tempo.
È sera, non ancora buio, in lontananza si sente abbaiare, forse sono i cani che seguono le greggi e aiutano i pastori a riportare le pecore nelle dimore coperte, per la notte.
Qualche giorno prima aveva sentito un gregge passare, distinguendo il belato di più agnellini.
Non sa qual è il luogo della sua prigionia, l'hanno condotta in quel misero rifugio con una benda sugli occhi, le mani legate dietro la schiena e un odore penetrante di cloroformio che, nelle intenzioni dei rapitori, serviva a garantire il silenzio.
Si avvicina la notte, l'aria diventa più umida, si attutiscono i pochi rumori che percepisce al riparo della montagna, qualche aereo sorvola il cielo: chissà dove va.
I continui garriti delle rondini, dalle livree impeccabili, si fanno più radi.
Di notte ode il verso di animali, ha riconosciuto un uccello notturno dal grido stridente, penetrante: una civetta, forse un gufo.
È stanca, un subbuglio continuo di pensieri le tiene compagnia. Soprattutto i pensieri negativi le assorbono ogni energia.
Agnese sa, lo ha capito in questi giorni, che la libertà porterà nella sua vita decisioni di rottura.
Ha compreso in questo periodo lungo e terribile, con tanto tempo a disposizione per guardarsi dentro, che non vuole continuare a vivere in paese, con suo marito, nel vuoto più totale.
Una decisione si imporrà e sarà per lei il prezzo reale del suo riscatto.
Il motore di un'automobile blocca di colpo lo scorrere dei pensieri.
Si rimette a sedere, mentre un uomo di mezz'età, mai visto prima, abbassa le spalle per infilarsi nella stretta apertura incavata nella montagna, ed entra.
Fa domande a raffica, spesso non attende risposte. È più arrogante degli altri, più rozzo nell'aspetto, più arrabbiato con la lingua italiana.
Vuole sapere se è garantita la solvibilità finanziaria dell'impresa familiare. Probabilmente è a conoscenza del provvedimento di legge che prevede la confisca dei beni dei rapiti e vuole evitare di trovarsi a mani vuote.
Evidentemente il marito ha cercato di recuperare la somma necessaria per il riscatto.
Il nuovo arrivato però ha una faccia scura, sembra contrariato, infastidito. Agnese incrocia le dita e spera.
L'ultima risposta non soddisfa il carceriere e Agnese viene colpita al volto da un vigoroso manrovescio che la manda a battere contro uno spuntone di pietra che sporge dalla parete rocciosa. L'ironia, da sempre, è un'arma che ferisce, si paga a caro prezzo, lei l'ha appena sperimentato.
Ha risposto al carceriere che più che una banca, ad aiutare il marito, servirebbe un miracolo, data l'entità delle richieste.
E la reazione non si è fatta attendere.
In lontananza, una sirena d'allarme riempie l'aria: forse un'auto della polizia, forse un'ambulanza.
Un fruscio di speranza attraversa la sua mente: forse è finita, forse si avvicina la libertà.
Ma il carceriere si allontana indisturbato; conosce il rumore dell'auto, ormai. Nessuno l'ha fermato.
Abbandonata ogni prospettiva di libertà, la donna si prepara ad affrontare un'altra notte, angosciante, fredda, uguale in tutto alle precedenti.
Si assopisce, dorme qualche ora di un sonno agitato, interrotto da risvegli d'angoscia; ma ogni volta, apre gli occhi e, nel tentativo di sfuggire a tanto dolore, si riaddormenta.
Allora il sonno si popola di sogni nei quali alternano immagini rassicuranti, gioiose, ad altre che presto, si trasformano in incubi paurosi che la strappano al sonno, nuovamente.
E adesso, mentre il sonno si avvicina, la luce opaca della lampada mette in fuga i timori della notte, Agnese capisce di aver scelto.
Si sente un animale in trappola, uno di quei roditori predati ogni notte dagli uccelli rapaci che volano sopra la montagna.
Sarà libera presto, almeno lo spera, ma la libertà porterà con se scelte dolorose.
Per un attimo tenta di andare a patti con se stessa, di fuggire, ma non è possibile. La prigionia, paradossalmente, le ha fatto intravedere una libertà dal significato diverso, inusuale.
Libertà come capacità, anzi dovere, di realizzare i propri progetti, di non barattare situazioni con idee.
Questa libertà, lei, non l'ha cercata, pensata, voluta.
Forse, si è limitata a sognarla: ora il sogno è finito.
Il rapimento, quasi a parziale ricompensa, le offrirà una via di fuga dalla vita di sempre: incolore, inodore, insapore.

 Classifica Concorso Club poeti 2001-2002 sezione narrativa

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ins.3 maggio 2002