Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fabrizio Bianchini
Con questo racconto ha vinto il terzo premio ex aequo al concorso
Fonopoli - Parole in movimento 2003, sezione narrativa

Magari per Natale
 
 
Non si sa mai cosa volere, perché,
vivendo una sola vita, non
possiamo né paragonarla con le
precedenti, né migliorarla in quelle
a venire.
(Milan Kundera)
 
Finalmente a casa. La casa della mia infanzia, delle mattine d'estate passate a calciare un pallone di plastica contro un muro, a sognare un futuro da calciatore della nazionale. Parcheggio proprio lì, accostato a quell'involontario compagno di interminabili partite solitarie.
Scendo dalla macchina e lo vedo, mio padre, inginocchiato sulle sue rose, di spalle. Non mi ha sentito. Cosa potrò dirgli, dopo sedici anni di silenzio?
Mi guardo intorno: il tempo qui sembra essersi fermato. La stessa quercia secolare, gli stessi vigneti, gli stessi campi di grano; eppure la vita è corsa via, è schizzata in avanti senza avvertire, senza darmi il tempo di riflettere, di abituarmi all'idea. Passo una mano sui miei capelli spruzzati di bianco.
Vorrei avere un pallone, ora, e ricominciare a calciarlo contro quel muro, e poi alzare gli occhi verso il terrazzo, e giustificarmi con mia madre che mi rimprovera bonariamente per le ginocchia sempre nere.
Li alzo, gli occhi, ma lei non c'è. Mi accorgo di respirare a fatica.
Mi giro di nuovo verso mio padre. Ha smesso di fare quello che stava facendo e si è levato in piedi, lo sguardo fisso su di me. Porta i guanti e un berrettino di tela. Si toglie il berretto e si passa il dorso della mano sulla fronte. Continua a guardarmi.
Calcolo mentalmente i passi che ci separano: venticinque, trenta al massimo. Mi muovo verso di lui. Si sfila uno dei guanti. Dieci, forse dodici passi. Si toglie anche l'altro guanto, poi si calza nuovamente il berretto in testa; ha gli occhi lucidi. Gli sono di fronte.
Rimaniamo per diversi secondi a scrutarci, a leggere ognuno sull'altro i segni del tempo speso su strade diverse, lontane.
- Sei tu... - È sbalordito, mio padre. Imbarazzato. - Sei tu...
- Già.
- Ti va di entrare?
- Chi c'è in casa? - Faccio fatica. Sembra che le parole non vogliano uscire fuori.
- Nessuno. - China il capo. - Da più di tredici anni.
- Allora sì - La mia voce è un filo sottile, che pare debba spezzarsi da un momento all'altro.
Mi mette un braccio sulle spalle. Quando ero bambino e faceva quel gesto, sentivo come una scossa, e poi avevo la sensazione che un'armatura fosse calata su di me, e mi sentivo protetto, tranquillo. Ora è diverso. Il suo braccio è stanco, pesante, ed è come se implorasse di restituirgli quella sicurezza che un tempo mi donava. Scaccio il pensiero, con rabbia. Mi irrigidisco. Lui cancella il contatto tra di noi con un movimento brusco, come colpito da una piccola scossa elettrica. La sua mano torna a cercare il berretto; lo toglie, appoggiandolo sopra un grosso vaso colmo di terra, senza fiori.
Ci avviamo verso casa.
- Fa caldo, non trovi? - chiede.
Lo fisso, per un istante. il volto, scavato dalla fatica di vivere, è contratto in una strana espressione. Mi rendo conto di conoscerla bene, quell'espressione.
La porta è aperta. Lui fa strada verso la cucina. - Vieni da molto lontano?
- Sì, da lontano. Molto. - rispondo. Mi siedo. Anche qui tutto è rimasto uguale. I piatti di ceramica, souvenir di vacanze lontane, appesi alle pareti; sopra la mensola del camino ci sono ancora i miei soldatini di plastica verde, i marines americani, i buoni, che combattevano battaglie sempre vittoriose; e il gattino che cambia colore a seconda del tempo è al suo posto, accanto a loro. Rivedo mia madre attorno ai fornelli con il suo grembiule senza maniche, rosa con i fiori azzurri, e io che le ronzo attorno come una zanzara, a elemosinare attenzioni.
- Vuoi del vino?
Mi scuoto. Aria, ho bisogno dia ria.
Mio padre mi osservava, in attesa, il frigorifero aperto.
- Semmai dell'acqua... - dico, - di rubinetto va bene.
- È della mia vigna. Sicuro che non lo vuoi? - Senza aspettare la risposta, prende un bicchiere dal pensile sopra il lavello, fa scorrere un po' l'acqua dal rubinetto, e poi riempie il bicchiere e me lo porge. - Stai bene? - chiede. Rimane in piedi, di fronte a me.
Annuisco, stancamente. I suoi occhi non mi lasciano un istante; sta tentando di capire, di decifrare.
- Qui sembra che il tempo non sia passato - mormoro.
Il suo volto si illumina. - Quando sono rimasto da solo, ho rimesso tutto a posto. Tutto come prima di... - Emette un profondo sospiro. Sento la sua voce incrinarsi. - Vogliamo andare su, in soffitta? Ci sono tutte le tue cose. Forse ti farà piacere...
- È meglio di no - lo interrompo. Volgo lo sguardo alla mia destra, verso il terrazzo. Mia madre è appoggiata al balcone. Sento la sua voce, mi sta chiamando. Chiudo gli occhi. Conto mentalmente fino a cinque, come facevo da bambino, e poi li riapro. Lei è sparita. E io non ho più fiato.
- Ti manca? - la domanda arriva improvvisa, quasi violenta.
Continuo a guardare verso il balcone, in silenzio. Temevo questo momento.
- Ho sbagliato, lo so. potessi tornare indietro... - C'è disperazione, ora, nella sua voce. - Credi forse che non sappia che giorno è, oggi? Sono quindici anni che mi tormento pensando a tua madre.
Lentamente, mi volto verso di lui. Scuoto la testa. - Fino alla fine. Sono stato con lei in quella stanza d'ospedale fino alla fine... e tu eri qui. A vivere la tua grande storia d'amore. Ma tanto eravate separati già da più di un anno... orami era una perfetta estranea, giusto? - Ascolto compiaciuto il tono ironico della mia voce. Non mi va di fargli capire quanto adesso mi senta scoperto e vulnerabile.
Si copre gli occhi con le mani, e poi comincia a stropicciarli con le dita. - Sicuro che non vuoi assaggiare il mio vino?
Mi alzo in piedi. Guardo il bicchiere d'acqua, ancora pieno. - Si è fatto tardi. Bisogna che vada.
- Sì. Certo. - replica, rassegnato, passandosi una mano sui capelli radi. Sta osservando la vera al mio anulare sinistro. - E salutami tanto tua moglie. Sta bene, sì? Quando me la farai conoscere? - Ora sorride, o meglio, si sforza di farlo. Ha gli occhi rossi.
Alzo le spalle. No, non avrebbe senso spiegargli che mia moglie se n'è andata di casa quattro anni fa.
Una lacrima gli sfugge via, solcando veloce la guancia rugosa. È invecchiato, tanto. E sono invecchiato anch'io, soprattutto dentro.
Tutti e due. Tutti e due abbiamo smarrito il filo della vita;
nessuno ci ha detto quando dovevamo cominciare a correre, e noi abbiamo perso il colpo di pistola della partenza. Il filo si è srotolato veloce in avanti nascondendosi tra le pieghe del tempo, attraverso mille colori, visi, voci, sbagli e paure, e non l'abbiamo più ritrovato. Siamo uguali, io e lui: uomini soli. Niente potrà più riunire i cocci delle nostre vite. Niente. Adesso, finalmente, lo so.
Mi mordo le labbra.
- Tornerai?
- Perché no? - So di mentire. - Magari per Natale.
Mi avvio lungo il corridoio.
- Aspetta. Ti accompagno...
- Non fa niente. - Lo fermo con un gesto della mano, distogliendo subito lo sguardo dai suoi occhi imploranti.
Apro la porta, per richiuderla immediatamente alle mie spalle. Ho un groppo in gola che mi impedisce di respirare.
Accelero il passo.
Salgo in macchina e metto in moto. Mentre faccio manovra per andarmene, alzo gli occhi verso il terrazzo. Mia madre è lì, giovane e bella, i capelli neri come la notte raccolti dietro la nuca: mi saluta radiosa.
Parto.
Adesso posso piangere, finalmente.

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Premio Fonopoli - Parole in movimento 2003

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 Ins. 17-01-2004