Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Marco Bottoni
Ha pubblicato il libro
Marco Bottoni - Prosecco e prolegomeni
memorie di un filosofo da bar




 
 
 
 
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
14x20,5 - pp. 194 - Euro 12,50
 
ISBN 978-88-6037-378-6
 
i

In copertina:

«Filosofo» elaborazione grafica di Enrica Pellicciar

 
Prefazione
Incipit

Prefazione
 

Questo non è un trattato, tantomeno un trattato di Filosofia.
 
Il Lettore incontrerà, distribuite qua e là nelle pagine di questo originale "libro di memorie", saggezza e ironia, realtà e utopia, umorismo e verità; leggerà parole che lo faranno sorridere e parole che lo faranno riflettere.
 
Noi Amici di Gianni per il Patì nel distribuirlo fino a farlo arrivare nelle vostre case raccoglieremo i fondi necessari a sostenere il progetto di alfabetizzazione dei "meninos de rua" che Gianni Boscolo sta portando avanti, tra mille difficoltà, nelle immense favelas di Salvador de Bahìa (Brasile).
 
L'intento di questa "opera" è di dare al Lettore qualche ora di serenità, e a tanti bambini l'opportunità di imparare a leggere e a scrivere, per sfuggire a un destino di emarginazione e miseria e potere sperare in un futuro migliore.
 
Un grazie sincero a tutti i Lettori che, acquistandone una copia, sostengono i Progetti della nostra ONLUS.
 

Associazione Culturale Amici di Gianni per il Patì ONLUS - Castelmassa (RO)

www.amicidigianni-pati.org

 
Per una Filosofia della solidarietà
 
 
Questo libro non è un trattato, tantomeno un trattato di Filosofia.
È il frutto, si spera dal sapore gradevole, dell'incontro felice di tante "buone volontà": quella dell'Autore, che ha messo a disposizione la sua Opera, e quella di tutti noi "Amici di Gianni" che nel farla arrivare nelle vostre case raccoglieremo i fondi necessari a sostenere il progetto di alfabetizzazione dei "meninos de rua" che Gianni Boscolo sta portando avanti, tra mille difficoltà, nelle immense favelas di Salvador de Bahìa (Brasile).
Il Lettore incontrerà, distribuite qua e là nelle pagine di questo originale "libro di memorie", saggezza e ironia, realtà e utopia, umorismo e verità; leggerà parole che lo faranno sorridere e parole che lo faranno riflettere.
Forse, giunto alla fine, dovrà concludere che degli argomenti trattati nei diversi capitoli ne sa poco o niente di più di quello che conosceva prima di cominciare a leggere.
La verità è che in queste pagine c'è poca Filosofia e tanto Amore.
Amore per la Parola (da leggere e da scrivere), amore per la Vita, da vivere con gioia e, soprattutto, Amore per il Prossimo, che è il vero motore di tutto quanto di buono possa accadere al mondo.
L'impegno di Marco Bottoni, Medico e Scrittore, e di tutti noi Amici di Gianni è quello di dare al Lettore qualche ora di serenità, e a tanti bambini di Salvador de Bahia l'opportunità di imparare a leggere e a scrivere, per sfuggire a un destino di emarginazione e miseria e potere sperare in un futuro migliore.
Il mio grazie sincero va a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo Libro e soprattutto a voi Lettori che, acquistandone una copia, sostenete i Progetti della nostra ONLUS.
Perchè questo non è un Trattato, né un Saggio né un Manuale, ma se c'è anche solo un pizzico di Filosofia in queste pagine, certamente si tratta di una Filosofia della solidarietà.
 

Daria Bottoni

Presidente dell'Associazione Culturale
"Amici di Gianni per il Patì - ONLUS"
 

Castelmassa, Maggio 2007


 
PREMESSA
 

 
"Chi sei?"
"Mah, non so..."
"Chi sei?!?"
"...sono un 'non so'..."
(Giorgio Gaber - Dialogo tra un impegnato e un non so - 1972)
 
 
 

 
Questo non è un trattato.
 
Tratta di diversi argomenti (Filosofia, Matematica, Biologia, Storia, Logica, Antropologia ) ma l'impianto generale non è analitico né sistematico, né organicistico, né meccanicistico, tantomeno olistico e neppure finalistico (e non potrebbe esserlo neanche volendo, perché questi sono tutti termini che ho ricopiato dal vecchio manuale di Filosofia dei tempi del Liceo, e dei quali non ricordo assolutamente il significato).
 
Non è un manuale, perché non fornisce istruzioni, né indicazioni, né linee guida per alcun tipo di attività: le cose di cui dice sono sì divise per "materie", ma solo per la necessità di dare un titolo ad ogni capitolo, ed alla fine ho inserito un "Glossario" ed un "Elenco dei nomi citati" al solo ed unico scopo di fare bella figura con l'Editore.
Se no, che libro sarebbe?
 
Non è una enciclopedia: a leggerlo anche tutto non c'è niente di nuovo da imparare, e il lettore, giunto all'ultima pagina, ne saprà, del mondo e della Vita, esattamente quanto ne sapeva prima di iniziare a leggere (casomai, con un po' più di confusione in testa).
Provare per credere.
 
Sono pagine regolate molto più dal "caso" che non dalla "necessità" nelle quali il disordine prevale sull'ordine, il "caos" ha la meglio sul "cosmos".
 
È un libro di memorie, come dice il sottotitolo, con in più la particolarità dovuta al fatto che si tratta di memorie... (accidenti, qual è il contrario di "postume?"), diciamo "prestume", cioè scritte prima che i fatti di cui si dice siano accaduti, e non dopo, come dovrebbe essere trattandosi di vere "memorie".
 
Di questa "stranezza" (e non è la sola) chiedo venia al lettore, ma avevo tanta fretta di fissare sul foglio i miei, in verità confusissimi, pensieri, che non potevo aspettare di essere arrivato alla fine della mia carriera di Filosofo per potere guardarmi indietro e scrivere le mie memorie (anche soprattutto in considerazione del fatto che, a tutt'oggi, questa carriera non l'ho ancora nemmeno iniziata).
 
Così ho preferito "guardare in avanti" e ricordare il futuro, guardando con soddisfazione mista a nostalgia a tutti i lunghi anni durante i quali, finalmente, lavorerò sodo facendo quello che sono venuto qui per fare: cioè il Filosofo da Bar.
 
 
 
P.S. Il libro si intitola: "Prosecco e Prolegomeni"
I "Prolegomeni" non ho io stesso la più pallida idea di cosa siano; per quanto riguarda il
Prosecco, la mia speranza è che non "sappia di tappo".
 

Maggio 2007

 

 


 
Prosecco e prolegomeni
memorie di un filosofo da bar


PROLEGOMENI
 
 
Lavorare stanca.
(Cesare Pavese)
 
 
 

Così è che mi è venuta voglia di cambiare lavoro, e mi sono messo in testa di cercare un altro mestiere.
Nuovo.
Non solo diverso, nuovo.
Il problema è che, di questi tempi, mestieri nuovi non ce ne sono tanti, in giro.
Da piccolo uno pensa che farà o il calciatore o il vigile del fuoco.
Io, da grande, ho fatto tutt'altro ma la voglia di fare il calciatore l'ho sempre avuta radicata dentro.
Negli anni della gioventù la mia totale e disperata (nonché disperante) mancanza di doti tecniche mi ha impedito non dico l'accesso, ma anche il solo timido affacciarmi al mondo del calcio giocato.
Non c'era niente da fare: per quanto mi impegnassi e mi applicassi in estenuanti allenamenti, la palla andava sempre a finire da tutt'altra parte rispetto a dove volevo indirizzarla io.
Così, pur di restare vicino al mio grande amore (fra me e il gioco del calcio c'è sempre stato un grande amore non corrisposto, nel senso che io amavo il calcio ma il calcio non amava me) ho fatto di tutto, e di più.
Si sa che quando uno non sa fare una cosa, la insegna (ed io ho fatto l'allenatore per i ragazzini del Settore Giovanile); se non sa fare a insegnarla, la dirige (e ho operato come dirigente della piccola Società Sportiva dilettantistica del mio paese); se non sa fare a dirigerla, la coordina (ho fatto l'Arbitro di calcio, il Medico Sportivo e il Coordinatore del giornale periodico edito a cura della Società Sportiva); se poi non sa fare nemmeno a coordinarla, allora la presiede (e più volte mi è stato richiesto di fare il Presidente, ma ho sempre rifiutato).
E se uno non sa fare neanche il Presidente?
Beh, allora quello è il Ministro!
 
Io il Ministro non l'ho mai voluto fare.
Casomai, avrei fatto volentieri il vigile del fuoco.
Non dico come titolare nella rappresentativa per il campionato di calcio interforze, ma almeno nella squadretta di calcio a cinque del dopolavoro forse mi avrebbero fatto giocare.
Chissà.
Fatto sta che sono ancora qui, alla ricerca di un mestiere nuovo.
Da fare.
Mi era venuto in mente, come mestiere, il "glucchista".
Pareva essere una buona idea, e mi sentivo anche portato per l'incarico, ma ormai non c'è più nessuno, in giro, che cerca un buon "glucchista".
Il mestiere di glucchista sembra essere stato creato apposta per dimostrare che è palesemente sbagliato il modo di dire, e di pensare, secondo il quale non vi è limite all'intelligenza dell'uomo.
Non è affatto vero: l'intelligenza umana ha limiti, è l'ignoranza che è sterminata.
 
Uno, all'atto di essere arruolato in fanteria, si sente rivolgere, fra le altre, anche la domanda: "attività svolta nella vita civile".
"Glucchista", risponde franco.
E, allo sguardo perplesso del Sergente, aggiunge subito: "Lo avete già un glucchista?"
"Ancora no", risponde il Sergente, confuso di sé e della profondità della propria ignoranza.
"Il primo sei tu".
Poi chiama un caporale e gli dice, brusco: "questo accompagnalo direttamente al Comando Compagnia: è glucchista."
Al Comando Compagnia un Capitano osserva con attenzione il foglio matricolare della recluta e borbotta fra sé: "Ah, vedo, vedo... glucchista..." e subito cancella il suo nome dalla lista delle corvèe (niente servizio di pulizie, niente marce, niente guardie: è glucchista!). "Era un po' che aspettavamo un glucchista!"
Poi chiama al telefono la palazzina Comando.
"Comandi, signor Maggiore! Sono Donati, dal Comando Compagnia. Mi perdoni se la importuno, ma il fatto è che con il nuovo scaglione di reclute è appena arrivato qui un "glucchista", e prima di assegnarlo volevo informare Lei, casomai avesse intenzione di..."
Il Maggiore, che tutto può fare tranne che ammettere di fronte a un Ufficiale di grado inferiore che lui non sa assolutamente che cosa sia un "glucchista" non gli lascia tempo di finire la frase.
"Ha fatto bene, Donati, ha fatto bene! La ringrazio. Me lo mandi qui subito, che intanto io ne parlo col Tenente Colonnello".
Il Tenente Colonnello, informato del fatto che c'è un "glucchista" (finalmente, dopo tanto tempo che lo aspettavamo! gli ha detto al telefono il Maggiore), altro non può fare che mettere la "cosa" direttamente in mano al Colonnello, anche perché l'unica cosa della quale è certo è che sarebbe un grosso sbaglio ammettere la propria ignoranza, soprattutto davanti a un sottoposto.
Così è che il Colonnello accoglie con entusiasmo il nuovo arruolato:
"Venga, venga, soldato. Così lei è "glucchista"! Bravo, bravo! Come è ovvio, lei non resterà qui, al Battaglione. Visto il mestiere che fa, ho già provveduto a farla destinare al Comando Generale. Dormirà in caserma stanotte, e domattina presto sarà a rapporto dal Comandante Generale, che le assegnerà direttamente l'incarico. Buona fortuna, giovanotto, buona fortuna!" e se ne libera in fretta, prima che qualcuno si accorga di quanto profondo è il baratro della sua ignoranza.
Il Generale Comandante, senza smettere di aspirare boccate profonde dalla sua pipa, guarda con cipiglio cattivo ora la recluta che sta ritta sull'attenti davanti a lui, ora i documenti via via compilati dai titolari dei vari e crescenti gradi di comando, in rigido ordine di scala gerarchica.
"E... da quanti anni fai il "glucchista"?" gli chiede con fare brusco e sprezzante (mica può domandare a una recluta, lui che è Generale, che cosa è mai un "glucchista"!)
"Da diciotto anni, signor Generale!"
"Come, da diciotto anni?! Ma se avrai sì e no vent'anni!!"
"Ventuno, signor Generale!"
"Ma chi credi di prendere in giro, tu?" esplode furibondo l'alto ufficiale. "Se hai ventun anni soltanto, come fai a fare il "glucchista" da diciotto?"
"È semplice, signor Generale. Faccio così: vado al fiume, prendo un sasso e quando sono in mezzo al ponte lo butto giù, nell'acqua. Gluck!"
 
 
Ecco cosa mi piacerebbe fare.
Il "glucchista".
Ma la barzelletta, ormai, la sanno tutti, e ho paura che sia una cosa che non attacca più.
In verità (e mi verrebbe da aggiungere: "in verità vi dico", ma non lo faccio perché va bene avere voglia di cambiare lavoro, ma anche puntare troppo in alto non è cosa buona e giusta), in verità lo so quale sarebbe il mestiere adatto per uno come me.
Io vorrei fare il "Filosofo da bar".
È già da un po' che ci penso, e sono quasi sicuro che me la potrei cavare benissimo, con le capacità che ho.
I buoni bar non mancano, il problema è riuscire a farsi assumere e, soprattutto, a farsi pagare.
Come si dice "l'argent fait la guerre", e al giorno d'oggi di Filosofia, specie se è filosofia da bar, non si mangia.
Casomai, si beve.
Il mestiere in sé è bello, niente da dire in proposito, ma rimane pur sempre il problema del trattamento economico; gente disposta a stipendiare un Filosofo non ce n'è molta in giro, e per dedicarsi alla Filosofia in massima libertà, bisognerebbe averne già tanti, di soldi.
Ma come fare per "fare" un sacco di soldi?
Un metodo ci sarebbe: aprire una gioielleria.
È chiaro come il sole che se uno riesce ad aprire una gioielleria, praticamente si mette a posto per tutta la vita.
Specialmente se è una gioielleria bella grossa, in centro, e se nessuno lo vede mentre la apre.
Basta trovare un ricettatore onesto, e il gioco è fatto: problemi di liquidità non ne hai più.
 
Ma nemmeno questa è una cosa che fa per me.
Troppo rischio, e poi io vorrei sì procurarmi molto denaro, ma in modo onesto.
Per potere fare il Filosofo da bar, dovrei essere già ricchissimo in partenza, o almeno diventarlo rapidamente.
Neanche questo (diventare ricchissimo) è cosa facile da realizzare.
Bisognerebbe avere un grandissimo senso degli affari, dono anche questo, fra gli altri, che a me è stato negato.
Gianni Agnelli, lui sì che ha sempre avuto un grande senso degli affari, fin da giovanissimo.
Quando aveva solo sei anni suo nonno gli regalò due mele: lui, invece di mangiarle, le vendette per cinque lire.
Con le cinque lire acquistò in un mercatino di periferia un chilo di mele che rivendette a mezzo chilo alla volta, guadagnando dieci lire, e raddoppiando così gli utili.
Con le dieci lire acquistò una intera cassetta di mele, approfittando di una fase del mercato durante la quale il prezzo della frutta era crollato.
Poi suo nonno morì, e gli lasciò un mucchio di miliardi.
 
Il "Filosofo da bar" è un mestiere semplice da descrivere, nei suoi contenuti operativi: uno va al bar e parla delle sue filosofie. Chi degli avventori vuole ascoltare ascolta, chi non vuole può continuare a giocare a carte o a biliardo oppure conversare con gli amici e bere liquori o caffè.
Mi dicono gli amici: "Ma sei scemo? Ti pare che uno, per fare quel mestiere lì, lo paghino anche?"
E perché no, dico io.
Visto che tanti altri mestieri vengono retribuiti, è giusto che lo sia anche il "Filosofo da bar", no?
Rispondono gli amici: "Ma cos'è che faresti per guadagnarti lo stipendio? Il "Filosofo da bar" non fa un bel niente!"
Giusto appunto.
Non fa niente.
 
Un giorno, anzi una sera, anzi una notte, vado in discoteca, trascinato da alcuni amici.
Arriviamo poco dopo mezzanotte e dentro non c'è quasi nessuno ("È troppo presto, ancora").
Non c'è quasi nessuno, ma la musica è già assordante, un continuo TUM - TUMTUMTUUM TUM-TUMTUMTUUM TUM-TUMTUMTUUM in ripetizione interminabile e ininterrotta, sparato a un volume così alto che rende assolutamente impraticabile qualsiasi tipo di rapporto interpersonale che non sia una coltellata nel fegato.
Mi vibra il diaframma e mi fischiano le orecchie.
La cosa va avanti, assolutamente uguale a sé stessa, per un paio d'ore: sempre la stessa frase musicale (saranno sì e no quattro note) suonata sempre allo stesso identico ritmo, ossessionante e ossessivo, casomai ogni tanto a volume un po' più alto.
Alla fine, con la testa che mi scoppia, capitolo, e decido di abbandonare la compagnia e uscire dal locale.
Mentre sempre la stessa musica continua a martellarmi i timpani, passo davanti a uno scalmanato che indossa voluminose cuffie acustiche e si da un gran da fare a smanettare su una consolle piena di pulsanti.
"Quello chi è?" urlo disperato a un buttafuori che sta sulla porta.
"È il Disc-jokey"
"E cosa fa?" urlo più forte.
"Cambia i dischi".
Appunto, cambia i dischi.
Ecco: quello lì lo pagano.
 
Ma c'è di più.
 
Un giorno a mio nipotino di due anni gli prende una febbre tremenda: trentotto, trentotto e otto, trentanove.
Tachipirina, ghiaccio sulla testa, magari fra un po' gli passa.
Macchè: trentanove, trentanove e nove, quaranta.
È notte, perché è sempre di notte che succedono certe cose, ci avete mai fatto caso?
La febbre non accenna a diminuire e la mamma del piccolo, mia sorella, è disperata.
Manca poco all'alba quando decido di caricare in automobile mamma e bambino e di portarli al Pronto Soccorso.
Arrivati all'ospedale, l'accesso carrabile è chiuso da una sbarra, giustamente.
Mi sto preparando un discorso da fare all'addetto, all'alzasbarre, per spiegargli l'urgenza e la gravità del caso, in modo tale da convincerlo ad alzare subito la sbarra e farmi accedere senza perdere troppo tempo.
Non faccio nemmeno in tempo a mettere la freccia per approcciare il varco che lui, da dentro il suo gabbiotto, mi alza la sbarra e mi fa passare.
Grazie, ma mi sembra strano: ha alzato la sbarra così, subito, senza nemmeno che io fossi arrivato a ...tiro di voce.
Sarà perché è ancora notte, sarà perché il bimbo era grave; ma come faceva lui, da stare nel gabbiotto, a sapere che avevo a bordo un bimbo, e che era grave?
Superato il momento dell'urgenza, torno in ospedale verso mezzogiorno, per vedere come sta il piccolo, e la scena si ripete uguale: appena faccio tanto di dirigere l'auto verso il cancello, ecco che la sbarra si alza.
Nessuna domanda, nessun controllo, niente di niente.
Chissà, forse mi ha riconosciuto che ero quello di stanotte, con a bordo il bambino piccolo.
Torno verso sera, e in attesa che venga l'orario di visita, rimango per un paio d'ore seduto in automobile dall'altra parte della strada, nei pressi del cancello.
Osservo gli avvenimenti, e ormai non ho più dubbi: così è, se vi pare, per tutti e per chiunque.
Di qualsiasi tipo sia il veicolo e senza bisogno di alcuna forma di segnalazione, un attimo prima di approcciare l'entrata lui, dal suo gabbiotto, alza la sbarra e li lascia passare. Tutti.
E giustamente, bisogna dire, perché appunto questo è il suo mestiere: lui fa "l'alzasbarre".
Mi sono informato all'ASL: quello lì, lo pagano.
 
Ma non basta.
 
Nella Casa di Cura dove lavoro (provvisoriamente da ventidue anni, in attesa di trovare un altro mestiere da fare) sono degenti, ahiloro, anche pazienti ai quali vengono somministrati farmaci analgesici della famiglia degli stupefacenti.
L'uso di questo tipo di farmaco è soggetto a una rigida normativa che prevede, tra l'altro, la tenuta minuziosa di registri di carico e scarico, in modo tale da rendere sempre verificabile ogni passaggio (approvvigionamento dalla Farmacia, somministrazione ai pazienti, giacenza in deposito) del "percorso" di ogni singola compressa o fiala.
Pene severe sono previste per chi, essendone responsabile, manca anche solo di tenere in perfetto ordine i registri: figuriamoci se a un controllo dovesse risultare una discrepanza fra quantitativo di farmaco approvvigionato, somministrato e in giacenza.
Nella fattispecie il responsabile, guarda caso, sono io, e i conti devono tornare.
Arriva, preannunciata, una Commissione di Controllo, inviata dall'Azienda ASL.
"Buongiorno, Dottore, siamo qui per controllare gli stupefacenti".
Sono due "dirigenti": uno controlla, l'altro controlla il controllore.
"Dobbiamo anche redigere un verbale".
Come dire, qui si fa sul serio, altroché pacche sulle spalle.
Davanti al mio sguardo attento e un po' preoccupato (è tutto a posto, credo, ma non si sa mai...) sfogliano pagina per pagina il grosso libro che funge da registro delle quantità di farmaco somministrato, giorno per giorno, ad ogni singolo paziente (nome e cognome, numero progressivo, data e motivo della somministrazione).
Ci mettono quasi mezz'ora (sono scrupolosi) e poi uno dei due (il controllore) scarabocchia qualcosa su un foglio già pieno di timbri e lo fa controfirmare dall'altro (il controllore del controllore).
È il verbale, capisco.
Chiede anche una mia firma, in calce, dicendomi con un sorriso sforzato: "Tutto a posto. Grazie per la collaborazione".
Io sono allibito, letteralmente. "Tutto a posto".
Non hanno controllato i registri di carico (quanto farmaco è stato ritirato dalla farmacia), non hanno controllato la quantità di farmaco in giacenza, non hanno verificato che il conto (approvvigionamento - somministrazione) tornasse con la quantità effettivamente in giacenza.
L'unica cosa della quale si sono potuti accertare, con il loro accertamento, è che le pagine che hanno sfogliato non erano quelle dell'elenco telefonico.
In realtà, non hanno fatto niente.
E non a causa di errori, od omissioni: il controllore del controllore ha validato il lavoro del controllante da lui controllato; nessun errore: semplicemente, questo è il loro mestiere.
Non ho controllato, ma sono sicuro ugualmente: anche questi due li pagano.
 
 
Potrei andare avanti con le citazioni, ma mi fermo qui, sennò poi hanno ragione quelli che dicono che i Filosofi sono persone noiose, si tratti pur anche di Filosofi da bar.
Il fatto è che sono molto demoralizzato.
Chissà quanti ce n'è (nel Mondo, o anche solo in Italia) che fanno un bel mestiere inutile, e vengono pagati per farlo.
Non dico quelli che lavorano poco e male, i posapiano, gli scansafatiche, i lavativi. No.
Io guardo con invidia mista a nostalgia tutti (e sono davvero tanti) quelli che si guadagnano onestamente da vivere facendo (e facendolo anche bene) un lavoro assolutamente e intrinsecamente improduttivo, per sua stessa natura inutile e di nessuna incidenza sulla realtà oggettiva delle cose.
Come il Filosofo da bar, appunto.
 
Sono sfiduciato, e ormai dubito seriamente che il mio sogno possa, prima o poi, realizzarsi.
Ma non dispero, e nell'attesa che qualche esercente pubblico esercizio realizzi finalmente quanto gli sarebbe utile avere nel suo bar, oltre al biliardo e al videopoker, anche un buon Filosofo, tengo duro nelle mie convinzioni, e scrivo.
Un po' per dare sfogo alle mie frustrazioni e un po' perché non si sa mai cosa possa accadere nel futuro, ho deciso di scrivere le mie memorie di Filosofo.
So benissimo che le memorie si dovrebbero scrivere alla fine della propria attività (se non della propria vita) ma io temo che, continuando così le cose, non farò nemmeno in tempo a cominciarla la mia attività, mentre la fine della vita, Filosofo o non Filosofo, si avvicina sempre più.
Così le mie memorie le scrivo adesso, "meglio presto che mai".
Chissà che in un lontano futuro, quando di questo mestiere e dei pochi coraggiosi che hanno voluto esercitarlo, non sarà rimasta più traccia, a qualcuno venga voglia di leggerle.
 
Sic transit gloria mundi

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