SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
Matteo Galdi
Opera 9° classificata al concorso Angela Starace 2001 sez. narrativa
"L'incomprensione"
 
 
Era lì, davanti a me, con l'aria di chi volesse interrogarmi.
Quel quadro, che mancava a Napoli da più di tre anni, si veniva dipingendo in tanti minuziosi particolari che apparivano trasognati e immersi in una misticità irraggiungibile.
Il silenzio, poi, insieme all'odore aromatico che si inspirava dall'aria gelida, all'assenza di anime, al bianco che eccedeva su tutto, generava un'atmosfera sinistra che lasciava riflettere, penetrando prepotentemente nella sfera mentale con l'intento di scatenare quel senso di vacuità che fa nascere tanti interrogativi, tante insicurezze.
L'essere seduto su quella panchina del parco pubblico del quartiere Scampia era l'ultima cosa a cui pensavo, perché la neve che cadeva lieve, tramutando la natura che mi circondava, mi possedeva, manovrandomi in un'ipnosi intensa, irripetibile.
Dentro di me ruggiva un'emozione che vagava tra felicità e tristezza ma, nel profondo dell'animo, sentivo che la malinconia dominava vincendo su tutto.
Immaginavo il corso dei fiocchi di neve e come ciò assomigliasse alla parabola esistenziale, a quella nascita(nelle nuvole), crescita(nell'aria) e dileguarsi(in terra) che avveniva per ogni uomo, ma quello che più mi colpiva di quel quadro naturale era l'insolubilità dei suoi elementi.
Le due magnolie poste a pochi metri dal porticato erano ricoperte da un cappello bianco che nascondeva il loro sopire, mentre il gruppo di acacie, che viveva ad oriente del giardino, si stava spogliando dei suoi fiori gialli.Il laghetto artificiale, invece, che aggirava in lungo e in stretto il parco sfociando nell'estremo occidentale, era immobile, celato da un velo ghiacciato…e il resto era completamente incappucciato dal manto nevoso.
Era tutto diverso in quel pomeriggio di febbraio, tutto così tetro, così spento, e anch'io ne facevo parte, anche se non volevo, se desideravo starne fuori, come il bambino che era appena arrivato e che più in là urlava e si rallegrava lanciando palle di neve nell'aria.
Aveva un paltò rosso che gli sfiorava le caviglie e quasi sempre v'inciampava quando s'abbassava a raccogliere la neve dal suolo.Calzava alti stivali a uosa che si abbarbicavano alle gambe fin sopra le ginocchia e un cappello di lana rosa che, nel frattempo, era diventato biancastro.
Barcollava innanzi e indietro divertendosi e, anche se cadeva e ricadeva, a causa di quell'abbigliamento che avrei potuto facilmente indossare io, continuava a giocare, senza perdere l'assiduo sorriso stampato sul visino rossiccio.
Sentivo il bisogno di chiamarlo, di averlo accanto a me, ma l'ipnosi di quel quadro naturale me lo impediva.Ormai non potevo più varcare i suoi confini, non potevo più modificare lo stato delle cose e fu proprio a causa di quell'impotenza che iniziai a sentirmi solo e che la malinconia non fu solo un presentimento, ma cruda realtà.
Dovevo andar via da quel luogo.
Mi alzai dalla panchina aggiustandomi la sciarpa e, abbottonandomi il cappotto, presi ad incamminarmi verso l'uscita.Versai, mentre camminavo, lo sguardo nel canale che seguiva a manca, ma anche l'acqua appariva spenta, non si dava infatti al solito gorgogliare.
Mancavano ormai pochi metri all'uscita, quando intravidi sul muro che avevo davanti e che precedeva la biforcazione del corridoio, un ombra informe, macabra, irreale.
Non feci in tempo a voltarmi, perché un lancinante dolora mi lacerò il cranio facendomi stramazzare a terra.
Riuscii, comunque, a tenere gli occhi aperti e a contraddistinguere le peculiarità di quell'ombra misteriosa riflessa sul muro.
Aveva una fisionomia tarchiata che non conteneva nulla di umano, una parte superiore dove la testa era difficilmente decifrabile e un particolare che mi fece rabbrividire: aveva un'anima, sì, il suo corpo custodiva il soffio vitale; scorsi, infatti, dalla probabile bocca, l'alito che si condensava in nuvole di fumo.
Tentai allora, contraendomi alla forza del panico, di voltarmi e ci riuscii anche, solo che quell'ombra era scomparsa e prolungando lo sguardo quasi per confortarmi in direzione del bambino, notai che anche lui non c'era più.
A quel punto chiusi gli occhi per pochi istanti, con i pensieri raccolti in una staticità anormale e, quando li riaprii, anche se dinanzi si stava annebbiando tutto, scrutai un fiocco di neve che, portato dal vento, cadde proprio all'altezza del mio viso.
Restò lì, sul cemento, finché non persi i sensi, con sul viso quel sorriso che, come il quadro naturale e molte altre cose, si "smarrisce" nell'incomprensione.
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Agg. 15-05-2002