Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Milvia Comastri
Con questo racconto ha vinto l'ottavo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

LA GENTILEZZA INVISIBILE
 
 
Al suonar del campanello della porta la signorina Annalena si riscosse. Stava sognando di quella volta, là, nel Kashmir, e la voce del muezzin era così reale che le era sembrato proprio di stare rivivendo quell'attimo di allora.
Chi poteva essere? Nessuno veniva mai a casa sua, se non, ogni tanto, il portalettere con qualche comunicazione della banca; ma ormai, quel giorno, l'ora della consegna della posta era trascorsa.
Chi mai poteva essere, allora?
Si passò una mano sul viso, come per cancellare l'espressione di serenità che il sogno aveva pennellato nei suoi occhi. Si alzò dalla poltrona e si strinse la vestaglia intorno al corpo scarno, sentendosi a disagio per quel color rosso acceso, che a lei piaceva tanto, ma che nessuno le aveva mai visto addosso.
Aprì piano, mentre il suono del campanello continuava sbarazzino a irrompere in quel silenzio di vecchie pareti; appena una fessura, con la porta ben assicurata alla catenella.
Un gruppo di persone sorridenti se ne stava sul pianerottolo illuminato; un bambino fece un passo avanti, in mano un pacchetto colorato, con un gran fiocco azzurro.
La signorina Annalena fu certa che il sogno sul Kashmir si fosse spostato in un altro luogo onirico, in un'altra dimensione che non le apparteneva. Pensò, insomma, di stare ancora sognando.
 
 
***
 
 
Da bambina la signorina Annalena di cose ne aveva imparate mille, come tutti i bambini. Ma soprattutto una regola le si era ben presto incisa nella mente: non fare mai vedere le tue emozioni; quindi non sorridere, non piangere, non gridare di gioia, non mostrarti, non dividere mai con altri quello che provi. La madre era stata la sua grande maestra.
Il silenzio aveva fatto da grigia colonna sonora alla sua infanzia. O meglio, non proprio il silenzio, ma una totale assenza di calore. La madre - una donna con contorni vacui, alta e bianca, con gli occhi di antracite opaca - le aveva imposto fin da piccolissima toni smorti, silenzi, gesti misurati, scostandosi quando lei cercava di abbracciarla, rimproverandola se correva lungo il corridoio, criticandola se lei piangeva.
Come quella volta che la bambina si era rattristata per la partenza di una compagna di scuola che stava cambiando città.
"Hai visto? Non bisogna affezionarsi a nessuno. Tanto prima o poi tutti ti lasciano, e allora a che servono l'amore, la gentilezza, a che serve essere gradevoli verso gli altri? A nulla, Annalena, a nulla. Meglio rimanere soli, fare la propria vita. Non permettere mai a nessuno di prenderti il cuore, Annalena!. Io... mah, lasciamo perdere."
La signorina Annalena non sapeva chi fosse suo padre, non lo aveva mai conosciuto. Non aveva mai incontrato nessun parente, all'infuori di questa madre così parca di risposte che alla fine la signorina Annalena bambina aveva cessato di porre domande. Solo poco prima di morire la madre le aveva raccontato con poche smozzicate parole una storia di abbandono e ripudio: l'uomo sposato ma pieno di promesse mai mantenute, la gravidanza, i genitori di lei sulla porta, il braccio teso, sparisci, le avevano detto, sei la nostra vergogna.
Ma la signorina Annalena aveva già i capelli bianchi, e la fame di risposte che le aveva consumato
gran parte dell'esistenza si era ormai esaurita.
 
 
Nonostante tutto, la bambina Annalena a volte pensava alla sua anima come se fosse un atleta pronto a scattare sulla linea di partenza; sentiva, a volte, le sue mani colme di carezze da elargire; focalizzava, a volte, l'immagine delle sue labbra in procinto di aprirsi al sorriso; tremava, a volte, per l'impazienza della sua voce di modulare vocali e consonanti che componessero parole amorevoli; le pareva, a volte, di avere grandi orecchie spalancate per udire frasi gentili. Ma le gambe rimanevano bloccate da pesi di piombo; le mani se ne stavano strette a pugno; le labbra continuavano ad avere un disegno sottile e pallido; le dolci parole venivano ingoiate, e le orecchie riempite di ovatta, predisposte ad ascoltare solo amare, ciniche sentenze.
Con il passare degli anni quella sensazione di movimento, di spinta verso i colori dell'esistenza si era del tutto assopita. La madre le aveva ben tatuato addosso una rappresentazione in cui i sentimenti erano miserie e ceppi, e l'essere soli lo stato ideale per vivere in pace. E così la signorina Annalena aveva fatto della solitudine, della non relazione con gli altri, il suo punto di forza.
Una volta, avrà avuto una decina d'anni, era caduta dalla bicicletta. Una signora si era avvicinata per chiederle se si era fatta male, e lei non l'aveva neppure guardata, poi aveva risposto:
"Non capire, non italiana."
Non si doveva mai aver bisogno di nessuno, mai farsi vedere fragili. Era risalita sulla bicicletta, un ginocchio sanguinante, e se ne era tornata a casa, dove sapeva che nessuna madre affettuosa si sarebbe presa veramente cura di lei, se non per disinfettarla con gesti bruschi.
 
 
Eppure una volta si era innamorata.
 
Era da poco finita la guerra, e c'erano questi ragazzi che tornavano dal fronte, gli occhi grandi e smarriti, colmi di visioni di sangue e paure e disillusioni.
Lui si chiamava Marco e portava sul volto scarnito i segni della devastante guerra di Russia. Un giorno Annalena se lo trovò vicino, ultimo centralinista assunto nella società telefonica per cui lei lavorava da qualche mese.
Lei era allora una ragazza vestita di colori spenti, molto diversa dalle sue colleghe che portavano abiti colorati, i disegni delle stoffe piene di fiori allegri, come a cancellare i lunghi anni di desolazione che avevano caratterizzato fino a quel momento la loro giovinezza. Si riempivano la bocca di risate, ammiccavano non appena un uomo entrava nello stanzone dove lavoravano, rispondevano distrattamente alle chiamate, per tornare subito dopo alle loro chiacchiere, fatte di divi, di bei ragazzi, di speranze.
Annalena non aveva legato con nessuna di loro, la infastidiva tutto quel cicaleccio, la irritavano i profumi dozzinali che riempivano l'ufficio, e i progetti di uscite e appuntamenti del sabato sera. Il suo sabato sera non era diverso dalle altre sei sere della settimana: una silenziosa cena con la madre, un'oretta di radio, e poi il letto.
 
E ora questo ragazzo aveva cominciato fin dal primo giorno a tessere un ponte di parole fra lui e la ragazza schiva che gli stava accanto. Con il suo dolce e cantilenante accento veneto le raccontava la sua vita degli ultimi anni, i mattini freddi, le sere zuppe di lacrime, gli orrori ed i terrori, le nostalgie, le disumanità della guerra. Annalena rimaneva sempre in silenzio, lo sguardo fisso sugli spinotti, il busto eretto, mentre il suo cuore cominciava ad accelerare i battiti, e si sentiva dentro, nel petto, qualcosa di diverso, un liquido calore che la invadeva. Quando il loro turno non coincideva si ritrovava a chiedersi cosa lui stesse facendo, con chi parlasse, chi vedesse. Marco (le capitava quando era sola di pronunciare il suo nome a fior di labbra, assaporandolo, facendolo scivolare giù, lungo la gola) le aveva detto che i suoi erano della provincia di Treviso, e che qui, nella città in cui lavorava, conosceva poche persone. Quando si accorgeva di pensare troppo a lui, sbatteva forte le palpebre, raddrizzava ancora di più la schiena, e scacciava quel languore che la prendeva.
Poi un sabato pomeriggio si ritrovarono per caso in centro. Marco arrossì, mentre le tendeva la mano per salutarla. Poi divenne euforico, e la invitò in pasticceria.
Annalena non si accorse neppure di accettare, ma si ritrovò seduta ad un tavolino nella piazza illuminata dal sole di quella prima estate di dopoguerra. La gente passeggiava lenta, camminava vicino alle transenne piantate intorno ad un palazzo bombardato, ma vociava allegra, e tutto, lì, sapeva, nonostante tutto, di rinascita.
Ad Annalena girava la testa. Improvvisamente sentiva di nuovo la sua anima-atleta, e le mani, le labbra, la voce, le orecchie pronte ad elargire e a ricevere. Lui parlava un po' affannato, del lavoro, dei suoi, del settantotto giri americano che era riuscito a comprare attraverso un amico. Annalena lo ascoltava, ma ascoltava anche se stessa, e percepiva i mutamenti che stavano avvenendo in lei. Sbatté forte le palpebre, raddrizzò il busto, ma quel languore, quella specie di incantesimo, persistevano.
 
"Vuoi uscire con me, domani, Annalena?" chiese lui ad un tratto
"Sì, certo!"
Poi si corresse subito:
"Cioè, no, non posso." E si passò una mano sugli occhi.
"Hai un altro impegno? O forse non ti va di uscire con me? Io... Tu mi piaci, Annalena, mi sento bene quando parlo con te. Tu non mi dici mai niente, ma sento la tua comprensione, anche se cerchi di mascherarla. Sai, io vedo la maschera che indossi, tu dentro sei diversa da come vuoi mostrarti, dentro non sei così indifferente come vuoi apparire. Lo avverto anche sul lavoro: quando rispondi alle telefonate sei gentilissima e paziente, molto più di tutti noi. È come se tu avessi paura di rapportarti con chi conosci. La tua... sì, la tua è una gentilezza che vuole essere... invisibile."
Fu come se lui le avesse radiografato l'anima. Ma non si sentì turbata. Al contrario si sentì più leggera, il respiro che finalmente poteva librarsi ovunque senza orpelli.
Allungò una mano e sfiorò le dita di Marco, che stava giocherellando con una bustina di fiammiferi.
"Uscirò con te, domani. Posso, voglio uscire con te."
 
A casa, la madre notò subito che la figlia aveva qualcosa di diverso. Una diversa postura, gli occhi più brillanti, un sorriso appena frenato.
 
Il giorno dopo Annalena non si presentò all'appuntamento.
 
Quel sabato sera aveva raccontato tutto alla madre, sperando di stabilire una qualche comunicazione con lei, illudendosi che la donna sarebbe stata contenta di vedere la figlia felice. Dimenticandosi di tutti gli insegnamenti, di tutti gli avvertimenti, di tutte le leggi anti-emozioni che lei le aveva imposto.
"Povera stupida", le aveva detto la madre "e cosa vuoi ricavare, da questa storia? Perché ti vuoi illudere? Non capisci che è una fortuna non avere nessuno, non avere bisogni, non dovere dipendere dai sentimenti? Mettiti, mettiti con lui, poi vedrai... E poi l'altro giorno non mi hai detto che vuole trovare lavoro al suo paese? E tu? Tu lo seguiresti, lasciando l'impiego, la casa, me...? Ricordati: tu ed io siamo uguali: possiamo solo far affidamento una sull'altra. Se la cominci, questa storia, ti porterà solo sofferenze."
Quella notte, gli occhi spalancati nel buio, Annalena aveva rivissuto tutto quel sabato pomeriggio, e poi la sera, a casa. Piano piano la luce della piazza, il calore del sole, la voce di Marco, i suoi occhi dallo sguardo intenso, l'incantesimo di quei momenti, erano sbiaditi, si erano raggrinziti come un palloncino scoppiato. E le parole della madre avevano riempito lo spazio, con contorni precisi, con cornici di ferro battuto.
 
Il lunedì mattina la signorina Annalena aveva chiesto al capoufficio di cambiarle postazione di lavoro.
Quando andò a ritirare alcuni oggetti di cancelleria dal vecchio cassetto trovò un mazzetto di fiori colorati sul tavolo. Marco la guardò e fece per parlare, ma lei lo prevenne:
"Lasciami in pace. Scusami, ma è così che deve andare."
Si allontanò, la schiena eretta, le matite fra le dita contratte, lasciandosi dietro lo sguardo ferito di Marco e quei fiori, troppo vivaci per potere essere tollerati.
Due mesi dopo sentì dire dalle sue colleghe che Marco aveva ottenuto il trasferimento a Treviso. L'ultimo giorno di lavoro del ragazzo lei si diede malata. Sua madre aveva proprio ragione: prima o poi tutti se ne vanno.
 
 
Gli anni erano passati lentissimi, per la signorina Annalena. Non aveva amiche, né tantomeno amici. I suoi sabati sera erano sempre uguali, la televisione aveva sostituito la radio, ma per il resto nulla era mutato. Quando sua madre si era ammalata, la signorina Annalena era già andata in pensione, e aveva potuto così dedicare ogni ora della giornata alla sua assistenza.
Il giorno in cui la donna morì la signorina Annalena scoprì di non avere neppure una fotografia della madre, e dovette adoperare per la lapide la foto tessera della carta d'identità. Al funerale non ci venne nessuno, solo le solite beghine che non si perdono mai una funzione.
Dietro il carro funebre la signorina Annalena immaginò se stessa, dentro quella bara. Anche il suo funerale sarebbe stato così, anzi, ancora più desolato, dato che lei non aveva neppure un figlio? Certamente, si disse, sarà così. La conclusione logica di una vita senza colori, appiattita e brulla.
 
Cominciarono dei cambiamenti. Si spostò in centro in una vecchia palazzina: sei appartamenti, il suo all'ultimo piano. La finestra della cucina dava sul cortile interno e lei prese l'abitudine di stare in piedi, dietro le tendine, e osservare quello che succedeva là sotto. Non perché fosse diventata una vecchia curiosa, ma perché le sembrava indirettamente di vivere quello che si era negata.
Poi cominciò a viaggiare. Nei dieci anni successivi alla morte della madre girò per mezzo mondo. Sola, lontana il più possibile dal turismo organizzato, aveva vissuto attimi splendidi. Aveva comunicato con tante persone senza saper parlare la loro lingua, era stata presa per mano da bambini scalzi che si improvvisavano guide, aveva condiviso il suo cibo con donne dai volti velati, che a loro volta le avevano regalato fragili braccialetti di vetro. Aveva inalato l'odore di un fiume sacro, accovacciata su antichi scivolosi gradini, in compagnia di un vecchio che la fissava con umanissimi occhi di fuoco. Persone che non avrebbe mai più incontrato, e con le quali quindi poteva essere se stessa, come con quei clienti senza volto ai tempi del suo impiego.
 
Ma il ricordo che più le era rimasto impresso, e che ritornava frequentemente nei suoi sogni, era l'assoluto buio di una notte a Gulmarg, un paese che domina la valle principale del Kashmir. Uscendo da una trattoria aveva udito la preghiera del muezzin che si espandeva in quel silenzio perfetto, in quel nero totale, nell'aria un po' rarefatta dall'altitudine. Non c'erano stelle, non c'erano rumori, non c'erano persone: solo lei e quella voce che sembrava nascere contemporaneamente dal cielo di lavagna, dal suolo sconnesso, dalle fitte foreste di pini, dal lontano picco del Nanga Parbat. Si era lasciata scivolare a terra, aveva allargato le braccia. Per la prima volta in tutta la sua vita si era sentita parte inscindibile dell'universo. Aveva percepito in sé un senso di comunione con gli altri esseri umani, con chi, in quella buia sera, stava ascoltando come lei quel suono così puro, ma anche con miliardi di altri esseri che popolavano il pianeta, qualsiasi Dio, o non dio, pregassero.
"Io sono parte di voi, e voi siete parte di me." aveva sussurrato."
 
Si ritrovò a guardare la gente in un modo diverso. Scoprì che a volte le persone cercavano di relazionare con lei, che avevano verso di lei gesti gentili: i suoi vicini di casa, per esempio...
 
Era sull'autobus affollato, le borse della spesa che le pendevano pesantemente dalle braccia. Un ragazzino si era alzato per cederle il posto. Lo conosceva, quel ragazzino: abitava al primo piano del suo palazzo, lo vedeva sempre giocare nel cortile. Per un attimo aveva pensato di rifiutare, poi, ringraziandolo bruscamente, si era seduta. Era difficile per lei abbandonare le vecchie abitudini fossilizzate da una vita. Entrava in gioco anche una specie di pudore, che le impediva di essere spontanea.
Rientrando nel suo appartamento la signorina Annalena aveva ripensato a quell'episodio. Si era detta che avrebbe dovuto essere più cordiale, più calorosa. Era poi così difficile essere apertamente grata?
Lo sguardo le era caduto su una rivista abbandonata sul divano, aperta sulla rubrica culinaria. Ecco cosa avrebbe potuto fare: dei dolcetti per quel bambino, proprio quelli che erano fotografati sul periodico, a forma di stella, di cuoricini, di ciambelline. A lui sarebbero piaciuti. Ma poi come darglieli? Le riuscì del tutto estraneo il pensiero di scendere al primo piano, suonare il campanello, e dire... spiegare che... E se li avesse lasciati sullo stuoino, ben incartati, anonimi? Le venne in mente, dopo secoli, Marco: la tua è una gentilezza invisibile, le aveva detto. Bene, avrebbe fatto così. Era troppo avanti con gli anni per cominciare a mostrarsi, per iniziare a parlare, ma voleva dare, e anche imparare a ricevere.
Aveva preso la lente di ingrandimento senza la quale non riusciva più a leggere nulla e si era seduta sulla poltrona.
 
Biscottini Jolly
 
125 gr. di burro
quattro rossi di uovo sodo
65 gr. di zucchero
250 gr. di farina bianca
un albume d'uovo per spennellare
zucchero a granelli.
 
Montate il burro con una spatola di legno (tenendone da parte un cucchiaino) e incorporatevi i rossi d'uovo sodo, dopo averli passati in un setaccio fine. Aggiungete lo zucchero, il sale e la farina bianca. Lavorate bene la pasta e mettetela per trenta minuti nel frigorifero. Poi stendetela con il matterello in una sfoglia alta mezzo centimetro. Ritagliate nella pasta delle figurine a piacimento, usando appositi stampini, spalmatele con l'albume e spolverizzate con lo zucchero a granelli. Mettete i biscotti su una placca unta di burro e passateli in forno caldo per circa dieci minuti.
 
"Bene", aveva pensato la signorina Annalena "non mi sembrano difficili, anche se io in cucina non è che sia bravissima. Domani compererò gli stampini, farò i biscotti e durante la notte, quando nessuno mi potrà vedere, scenderò di sotto."
La mattina dopo aveva comprato anche dei bei sacchettini colorati e metri di nastro dorato.
"Non si sa mai", si era detta "forse mi capiteranno altre occasioni di fare regali!"
 
E così era stato.
Biscotti per il suo dirimpettaio: un signore che viveva solo e che una mattina le aveva regalato un gran mazzo di basilico che coltivava sul suo balcone.
Biscotti per i due studenti del pianterreno che quel giorno del blocco dell'ascensore le avevano portato fin su la confezione di acqua minerale senza che lei glielo avesse chiesto.
Biscotti per la giovane famiglia del secondo piano (quella con quel bambino piccolo che aveva cominciato a camminare da poco) che la salutavano sempre con un gran sorriso e le tenevano aperto il portone quando si trovavano ad uscire contemporaneamente a lei.
Biscotti per l'altro inquilino del secondo piano, una signora attempata e briosa, che aveva l'inconsapevole merito di rallegrarla cantando arie di operetta mentre faceva le pulizie di casa.
La signorina Annalena aveva scoperto che le piaceva un sacco preparare i dolci, impacchettarli, e scendere in piena notte in punta di piedi (l'ascensore sarebbe stato troppo rumoroso) e depositare sullo stuoino il sacchetto colorato. Era come una specie di gioco.
Un pomeriggio, sul finire di quell'estate, aveva sentito dalla sua cucina alcuni condomini che in cortile si interrogavano sui biscottini... misteriosi. Scoprì così che dapprima c'era stata un po' di diffidenza ad assaggiarli, ma poi gli studenti li avevano sentiti, li avevano trovati buonissimi, nessuno era morto, e così ogni dubbio sulla loro commestibilità era sparito. Rimaneva il mistero del donatore: " Forse una buona fatina?..." aveva ipotizzato il dirimpettaio della signorina Annalena e a lei era sembrato che per un attimo lui lanciasse uno sguardo veloce verso la sua finestra, e si era ritirata in fretta.
 
 
***
 
 
La signorina Annalena tolse la catenella e aprì la porta.
"Buongiorno!" disse con voce un po' tremante, perché ancora non si rendeva ben conto di quanto stava succedendo.
"Buongiorno a lei!" rispose un coro di voci.
"Gionno! "fece eco il più piccolo del gruppo, in braccio alla madre.
"Entrate, entrate..." disse la signorina Annalena.
Il ragazzino del primo piano entrò velocemente, seguito dagli altri.
"Abbiamo scoperto tutto! È lei la fatina buona!"
"Sono stato io a scoprirlo! L'altra sera stavo mettendo la catenella alla mia porta per andarmene poi a dormire, quando ho sentito la sua aprirsi, a quell'ora mi è sembrato strano, allora ho guardato dallo spioncino, e ho visto lei, Annalena, con il sacchettino in mano, che si accingeva a scendere le scale."
"Sono buonissimi i suoi biscotti! Mi da la ricetta?"
"Noi li abbiamo portati anche in Università!"
"Lei è veramente gentilissima!"
"Neanche la mia nonna fa dei biscotti così buoni!"
"Abbiamo un regalo per lei. Dai, Paolo dallo alla signorina Annalena!"
Tutte quelle frasi si accavallavano fra loro, creando una benefica confusione in quella casa abituata al silenzio. Regalo? pensò la signorina Annalena, e poi... e poi non sapevo neppure che conoscessero il mio nome...
Li fece sedere nel salotto, non c'erano posti per tutti, e Paolo e gli studenti si sedettero per terra. La signorina Annalena si trovò in mano il pacchettino col fiocco azzurro. Lo aprì: una scatolina di legno conteneva una sottile catenella d'argento, con appeso un piccolo cuore di corallo. Su un bigliettino con tante firme c'era scritto: " per la signorina Annalena, che è la gentilezza in persona "
Gli occhi di Annalena si riempirono di lacrime.
Dopo un'ora erano ancora tutti lì, a chiacchierare di tante cose, a sorridere, a scherzare fra loro; fotografie di paesi lontani erano sparse sul tavolino.
Il piccolo del secondo piano si era addormentato in braccio ad Annalena, con una guancia appoggiata al petto della donna, dove la fiammante vestaglia rossa si era un poco aperta.

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 Ins. 13-12-2004