Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Bensi Paola
 
Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Angela Starace 2000, sez. narrativa
 
 
L'Appuntamento
 
Di tutto l'ultimo inverno mi ricordo ancora di quella sera...
 
Avevo sistemato alla meglio la cucina. Ripiegato il tovagliolo, lavato i due piatti, il bicchiere e la pentolina.
Dopo aver dato un'ultima occhiata alla Titta, che dormiva tranquilla sulla poltrona, avevo preso il vecchio cappotto ed ero uscito di casa.
Quella di andar fuori dopo pranzo, più che un'abitudine, era diventata un'effettiva necessità. Un'esigenza vitale.
Stare in casa mi deprimeva. Favoriva il vizio che avevo preso di isolarmi dalla realtà, di chiudermi in me stesso; per sprofondare, girovagare e perdermi nel labirinto sempre più intricato del mio "io". Dove molto spesso, i quesiti rimanevano senza risposta e i ricordi si facevano a volte sbiaditi e confusi.
"Il Professore", mi chiamavano ancora nel condominio, anche se ormai da tanti anni non insegnavo più. Eppure, come mi mancavano gli alunni, la scuola...
"Ti devi rassegnare." Diceva sempre la mia cara Lidia. "Ora sei in pensione trovati qualche cosa da fare."
E cosa per esempio? Ormai avevo ottant'anni e un cuore vecchio e malato. Era stupido illudersi e fare il "giovanotto".
Forse però, pensandoci meglio, qualcosa l'avrei ancora potuta fare. Ma sì dopotutto, perché non... morire, magari.
Come aveva fatto lei, del resto, da non molto. Anzi, a volte ci speravo: "Forse non mi sveglierò più, forse questa è l'ultima volta che mi addormento: succede a tanti di morire nel sonno!" Fantasticavo la sera.
Invece al mattino, i rintocchi della pendola mi svegliavano alle sei, come al solito. Ed era penosissimo constatare ancora una volta che ero solo e che Lidia se ne era andata per sempre.
Solo nel pomeriggio mi sentivo un pò meglio, meno triste, meno vecchio... benché spesso, guardandomi nello specchio dell'ingresso, così imbacuccato nella sciarpa, col cappello calato sugli occhi, non potevo fare a meno di pensare: "Che razza di coglione!" Poi sbattevo la porta, me ne andavo; uscivo.
Iniziava così il mio vagabondaggio-urbano-quotidiano. Tra le strade lastricate e le piazze, all'ombra dei palazzi antichi e tra i ruderi; lungo i giardini e le mura etrusche della mia città: Volterra.
Il mio vagabondare in ogni modo, pur non avendo una meta precisa, mi portava sempre, comunque, ogni volta, nel solito luogo. Nel Parco del Castello.
Quel posto era per me come la calamita per l'ago di una bussola. Anche se nemmeno io ne capivo la ragione. In ogni modo, dal momento che uscivo di casa, sapevo che i miei piedi, passo dopo passo, mi avrebbero portato là. Nel Parco.
 
Già il sole lambiva le colline all'orizzonte, quando in quella fredda sera d'inverno, arrivai in prossimità della mia zona preferita.
La tramontana soffiava impetuosa, gelida, e se non fosse stato per la mia testardaggine, forse avrei fatto un bel "dietrofront" e me ne sarei andato. Ma, ero stato famoso tutta la vita per il caratteraccio cocciuto e lunatico; e non avevo nessuna intenzione di smentirmi proprio alla fine dei miei giorni. Così mi strinsi nel cappotto e proseguii fino a raggiungere il punto del Parco che preferivo: un lembo di prato racchiuso da una siepe di piccoli lecci. Al centro, scolorita, una panchina solitaria.
Il paesaggio era quello di sempre. La Fortezza, dalle mura color ocra, si ergeva ancora immutata, imponente, nel cielo cristallino e risplendeva nella debole luce rosata del tardo pomeriggio. La città, che si adagiava, allargandosi intorno al Parco, era tutta una successione di tetti e torrioni; bastioni, campanili e macchie di vegetazione.
Tutto era identico a come l'avevo visto il giorno prima. Non c'era niente di diverso in quel paesaggio che ormai conoscevo a memoria. Allora come mai, provavo uno strato senso d'inquietudine, una sottile angoscia? In fondo era solo un banalissimo giorno di un banalissimo mese.
Mi sedetti sulla vecchia panchina. Proprio dinanzi a me, all'orizzonte, il fenomeno che sempre mi commuoveva stata per avere il suo epilogo. Ancora una volta, il maestoso globo rosso era prossimo a svanire tra le morbide colline toscane. Un altro giorno stava per compiersi, per concludersi. Di nuovo, un altro breve periodo di luce era alla fine. E presto il denso manto viola del crepuscolo avrebbe offuscato ogni cosa.
Totalmente immerso nei miei pensieri, non mi ero accorto della donna seduta accanto a me, sulla panchina. Che ci facesse, non lo so. In ogni caso la cosa non mi piacque affatto. Quello lo consideravo il "mio" territorio, il "mio" spazio privato, in cui amavo stare in solitudine e di intrusi non ne volevo. Su questo ero categorico.
Non so come si fosse trovata lì. Di certo non l'avevo vista arrivare. Forse, ripensandoci devo aver udito solo un leggero fruscio; quello si, ma null'altro.
Innervosito, le detti una sbirciatina di traverso: sembrava giovane, anche se non vedevo bene il suo viso, in parte celato da una maschera. Notai anche, che indossava un abito lungo, scuro; ed i capelli erano nascosti da una strana parrucca stile antico. Quel suo bizzarro abbigliamento però, non mi stupì; sapevo che quello doveva essere l'ultimo giorno del Carnevale. Difatti, dalla Piazza vicina arrivavano musica e un gran baccano.
Se ne stette per un bel po' lì, immobile. Seduta al mio fianco senza dire una parola. Mentre rimurginavo fra me e me, sempre più incollerito: "Io, questa non la conosco. Cosa sta a fare qui?, accanto a un vecchio; che se ne vada là in Piazza, con gli altri, a divertirsi; a far baldoria, a festeggiare la fine del Carnevale. Altrimenti a che le serve la maschera?"
Stavo ancora elaborando questo mio pensiero, quando inaspettatamente, sentii la sua mano appoggiarsi sulla mia spalla.
"Ah!, allora ho capito, pensai. Questa vuole solo provocarmi, ormai è evidente. Ma certo, le ragazze d'oggi hanno provato di tutto; tante di quelle esperienze, che sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, d'insolito. Perché no, allora. Perché non provarci con il vecchietto? Ma non aveva fatto una buona scelta. Di sicuro non mi sarei fatto schernire da lei."
Mi girai per mandarla a quel paese, ma la sua espressione mi ammutolì; perché ravvisai in quegli occhi, stretti a fessura, freddi e vacui. Infossati nelle palpebre grinzose, lo sguardo truce e beffardo di colei che a volte avevo invocato. Non so come lo capii. Fu un impulso penso, l'intuizione di un attimo... quella donna, o quell'essere, o quella cosa, per meglio dire, non si trovava lì per caso. Aspettava me!
 
Ma sì, dopotutto era quello che desideravo; smettere di lottare con la vita ogni giorno, abbandonarmi, addormentarmi: morire. In quel momento estremo, quasi mistico, provai fisicamente tutta la sensazione del mio disagio, della solitudine... della vecchiaia. E quando essa cinse, con un braccio le mie spalle, fu quasi naturale per me rilassarmi: lasciarmi andare. Appoggiare la testa contro il suo petto. Del resto ormai ero solo una vecchio... un vinto.
E poi, a conti fatti, avevo vissuto la mia vita, che non era stata poi tanto male. Gli ultimi anni avevo sofferto; è vero, specialmente dopo che Lidia mi aveva abbandonato; ma nonostante tutto, anch'io avevo avuto delle opportunità. Anche a me era stato concesso un lungo periodo di luce.
 
Stavo cedendo, ed essa lo intuì e strinse con più forza il mio corpo. La guardai: il suo volto era distorto in un ghigno trionfante. Come sempre stava vincendo: anche quel giorno avrebbe avuto, ancora una volta, e senza fatica, il suo tetro bottino. Ma il cielo davanti a noi sfolgorava di arancio, rosso e viola: un'esplosione incredibile di energia, luce e colore.
Su di me, quello spettacolo suggestivo, ebbe come l'effetto di un balsamo, che mi pervase e rianimò: "No! Non potevo... non volevo morire. Non ancora."
Liberandomi a fatica da quel viscido abbraccio, mi alzai. E m'incamminai incerto giù, lungo il sentiero che portava in città. Lei però non si arrendeva, mi stava dietro; sentivo il frusciare del suo abito tra l'erba. Vicinissimo a me.
Accelerai per quanto potevo il passo, addirittura provai a correre, incurante del dolore alle gambe. Finché arrivai all'uscita del Parco. Lì, sfinito e col cuore in tumulto, mi fermai a riprendere fiato.
Scrutai tra gli alberi e i cespugli, ormai neri nel crepuscolo, ma non la vidi. Non la vidi mai più.
 
Dietro al Palazzo del Comune sorgeva la luna piena e risplendeva luminosa nel cielo limpido. Attraversai la Piazza dei Priori; era deserta. Il Carnevale era finito. Solo un pallido Pierrot mi venne incontro, abbozzò un goffo inchino e poi scomparve nell'ombra di un vicolo.
Il vento del Nord si era un poco placato, respirai profondamente, godendo dell'aria fresca della sera; abbottonai il cappotto e decisi di andare a casa.

 

Classifica Concorso Angela Starace 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 19 dicembre 2000