- IL
PAVIMENTO
RACCONTO
Maurice entrò nella piccola stanza con il pacco
di carta marrone pieno di cose da mangiare e da bere.
Erano le sei di sera e aveva passato la giornata a
cercare lavoro. Non aveva trovato nulla che valesse la
pena. Mentre apriva una lattina di birra si chiese
come fosse possibile che in una città
così grande non fosse riuscito a trovare
nessuno che avesse qualcosa da fargli fare. Bevve un
paio di sorsi prima di mettersi comodo. Tutte le cose
che possedeva erano attorno a lui riposte nei pochi
mobili della stanza. Un armadio, una casettiera, un
attaccapanni, una sedia, un letto e un piccolo
comodino costituivano il mobilio della stanza che
aveva affittato il giorno prima. Due mesi anticipati
più la caparra e altre spese inevitabili. Il
tutto aveva inflitto alle sue finanze un bel colpo.
'Domani troverò di sicuro, dovessi stare fuori
tutto il giorno e tutta la notte' pensò mentre
continuava a bere la birra ancora fresca 'oggi non
sono passato nella parte alta, da quelle parti ci sono
tanti capannoni e una serie di supermercati.'
- Dopo
la seconda birra si sentì più ottimista
e meno stanco. Bastava un po' d'alcol e tutto sembrava
meno nero e definitivo, qualche golata di birra a
stomaco vuoto e una città grande e sconosciuta
si riempiva di opportunità, cose da vedere e
persone da conoscere. Si sfilò le scarpe, i
pantaloni e la camicia vennero appoggiati sulla sedia.
In mutande, con il bicchiere mezzo vuoto in mano
aprì il cassetto del comodino per prendere il
pacchetto di sigarette e l'accendino. Accese la prima
sigaretta della giornata e la fumò con calma,
pensando a cosa fare dopo che avesse finito di
mangiare le poche cose che aveva preso.
- Quella
sera non andò da nessuna parte perchè
dopo aver finito il pane, il formaggio, e aver bevuto
la terza birra si sentiva troppo sfinito per
camminare. Gli facevano male i piedi e gli occhi
bruciavano. Non conosceva nessuno e l'idea di
gironzolare senza meta per le strade non aveva nulla
di attraente.
- 'Domani,
domani, domani riuscirò a fare tutto e a
quest'ora starò festeggiando il primo impiego
in questo posto.' Ripetè qualche volta il nome
della città come fosse una filastrocca
beneaugurante prima di preparasi a dormire. Non
ricordava di essersi sentito così stanco negli
ultimi tempi. Pensò che doveva essere colpa
della tensione nervosa. Mentre accartocciava le
lattine e appallottolava le carte piene di briciole
sentì la voce dell'anziana proprietaria della
pensione che rimproverava il suo gatto. Il giorno
prima, era arrivato da poco in città, era
entrato nella pensione Eden, un edificio a due piani,
grazioso, dignitoso nella sua modestia senza fronzoli
con un piccolo giardino senza fiori sul davanti. Era
entrato e aveva chiesto se c'era una stanza libera.
L'anziana donna che sedeva dietro al bancone aveva
annuito senza guardarlo e con poche cortesi parole si
era offerta di accompagnarlo a vedere la stanza. La
sua voce era roca ma non spiacevole, parlava a basa
voce, frasi brevi, essenziali. L'aveva seguita per le
scale, poi lungo il corridoio su cui si affacciavano
poche porte di legno scuro e levigato. Il bagno era in
fondo, accanto alla scala, la donna lo additò
senza aggiungere nulla alla parola 'bagno'. La stanza
gli era piaciuta appena l'aveva vista. Gli piacevano
gli spazi piccoli, funzionali, essenziali. Una stanza
quadrata, pochi mobili, il soffitto non troppo basso e
un pavimento pulito senza essere brillante,
pensò, andavano più che bene all'inizio.
Fino a quando le cose non si sistemano. Era la frase
preferita di sua madre, quella, e piaceva anche a lui,
lasciava sempre un discreto margine di speranza e di
aspettativa per il futuro. Il gatto della donna,
smilzo e nervoso, un pezzato grigio e bianco con una
grossa macchia gialla fra gli occhi, si era come
materializzato nella stanza ed era saltato sul letto.
Via di lì, subito! Aveva gridato la donna e
Maurice era stato colpito da un accento nuovo nella
sua voce, qualcosa di profondo e ostile. Il gatto era
schizzato via all'istante e Maurice, nel seguirne la
traiettoria agile aveva intravisto sul pavimento come
delle orme gelatinose seguire le zampe del gatto. Era
durato un attimo, come se sotto i cuscinetti felpati
del gatto le piastrelle si fossero sciolte
invischiandone come fango i movimenti. Maurice aveva
distolto lo sguardo e accanto al comodino, a pochi
passi dal letto, una strana ombra dai contorni
difficili da definire era emersa dal pavimento. Anche
questo era durato pochissimi istanti, era come se un
volto sfigurato dal fuoco avesse cercato di emergere
da un lenzuolo bagnato. Maurice ne aveva intravisto la
fronte gibbosa, gli occhi e parte della bocca
spalancata in una smorfia inarticolata e poi il
lenzuolo, che non era altro che il pavimento coperto
di piastrelle quadrate, si era appianato ed era
rimasto immobile. Anche il gatto era sparito,
nonostante sia la porta che la finestra fossero
chiuse. La donna lo stava guardando con sollecita
apprensione. 'Si sente bene, signor Decan ?' Maurice
aveva annuito, un po' stordito 'è impallidito.
' Di nuovo Maurice aveva fatto finta di niente e aveva
borbottato qualcosa sulla stanchezza e sul lungo
viaggio che aveva fatto. Non aveva voglia di cercare
altrove, si sentiva stanco e frastornato, si disse che
l'unica cosa di cui aveva bisogno era dormire.
Seguì la donna fino alla Reception e prese la
stanza. Lei disse di chiamarsi Rose e dopo alcune
raccomandazioni di carattere generale e alcuni
convenevoli lo congedò. Era una donna dalla
pelle chiara, gli occhi di un celeste venato di giallo
e malinconia che gli aveva ispirato simpatia sin dal
primo istante, doveva essere alta poco più di
un metro e quaranta per una trentina scarsa di chili.
I capelli erano finissimi, radi, di un bianco incerto
che sfumava in un viola misterioso e in cima qualche
ricciolo superstite. Gli ricordava la zia che l'aveva
allevato, al paese. Non la vedeva da sei mesi
nè aveva fretta di rivederla. Si accorse di
desiderare che morisse durante la sua assenza, poi si
pentì e quando si coricò tutto attorno a
lui era avvolto nel buio artificiale dei tendaggi
senza fiori. Fuori un vecchio lampione sporcava la
notte con la sua luce untuosa.
-
- Si
svegliò di soprassalto con l'impressione che ci
fosse un terremoto. La terra sotto di lui tremava,
poteva sentire il letto vibrare. Cercò di
alzarsi ma uno scossone più violento lo
mandò a sbattere contro la parete, sopra la
tastiera. Guardò il soffitto. Temeva che da un
momento all'altro tutto gli sarebbe crollato addosso.
Spalancò gli occhi cercando di distinguere
qualcosa fra le ombre. Il lampadario era sopra la sua
testa, non oscillava. Attorno a lui tutto taceva,
nessun rumore, tutto era immobile. Accese la luce. Il
lampadario era immobile, ogni cosa era esattamente
come l'aveva lasciata poche ore prima. Nessuna crepa
sui muri. Guardò l'orologio. Erano le due e
mezza di notte. Andò ad aprire la finestra e
si sporse, sapeva che dopo le scosse di terremoto la
gente si riversava nelle strade. Doveva per forza
essere successo qualcosa. Non vide nulla se non un
vecchio che pisciava contro il lampione.
- Richiuse
la finestra con cautela mentre un senso di sollievo si
diffondeva lungo la schiena fino a mani e piedi ancora
formicolanti. Si girò per tornare
all'interruttore. Un urlo rimbonbò nella sua
testa fino a mischiarsi con il rombo del sangue nelle
orecchie e il rumore di vetro tritato che veniva dal
soffitto. La superficie del pavimento era cosparsa di
piccole onde concentriche alte poco meno di una spanna
che avanzavano vero di lui. Era come se qualcuno
avesse gettato un pietrone nel centro di uno stagno
solo che non c'era nessun pietrone e le piccole onde
che partivano da sotto il letto erano fatte di
ceramica.
- Maurice
arretrò fino a urtare contro la finestra,
sentì la pressione precaria e fredda del vetro
contro la schiena madida. Le piccole onde regolari, ne
contò cinque, si appianarono prima di arrivare
ai suoi piedi, scomparvero le une dopo le altre
esaurendosi fino al livello del pavimento che giacque
immobile. Maurice si passò più volte la
mano destra sugli occhi. 'Non è possibile...
non è possibile..!'
- Era
scalzo, mosse un passo verso la parete. Fissava il
pavimento con un'intensità dolorosa. 'Non
può essere vero', un altro passo insicuro,
'queste cose non succedono'. Quando fece il terzo
passo, questo un po' più lungo e più
sicuro dei primi due sentì qualcosa di molto
caldo sotto il piede. Saltò di lato e
atterrò in un punto ancora più caldo. Il
pavimento era bollente come una lastra di pietra sotto
cui avessero acceso un fuoco. Cominciò a
saltellare imprecando, un terrore roccioso cominciava
ad avvolgergli la pancia in una stretta dolorosa.
Riuscì a raggiungere il letto e a buttarcisi
sopra in una sorta di tuffo. Sentì il metallo
cigolare. Il pavimento si era fatto color porpora.
Acri folate di fumo si levavano dalla sua superficie.
Maurice cominciò a gridare.
- Una
voce che conosceva urlò qualcosa da dietro la
porta. La signora Rose gli ordinò di smetterla
di fare baccano. Maurice disse che il pavimento
ondeggiava, che c'era stato un terremoto, che ora
tutto bruciava sotto i suoi piedi. Sentì una
lunga risata dall'altra parte che finì in un
eccesso di tosse. Signor Decan, la smetta di fare lo
stupido, lo sa benissimo che le cose che dice non
hanno senso.' Quella voce non apparteneva alla
signora Rose, era di un uomo, di un vecchio stizzoso.
Maurice scese dal letto furente, puntò dritto
verso la porta. Il pavimento era di nuovo freddo e
solido. Sentì la porta scricchiolare come se
qualcosa di molto grosso e pesante stesse per
sfondarla. S'immobilizzò quando fra lui e la
porta sorse una grossa gobba simile a una collinetta
che arretrò fino alla porta. 'La smetta di
opporre resistenza, signor Decan.' Di nuovo la voce
del vecchio, ma questa volta non venne da dietro la
porta ma da dietro di lui. Maurice si voltò
dimenticando la collinetta che gl'impediva di
raggiungere la porta. Dietro di lui c'era una statua
dello stesso colore del pavimento, alta come un uomo.
Era fatta male, sembrava appena abbozzata, più
una sagoma che una figura. 'Chi... chi siete... che
diavolo... cosa volete da... me.' La superficie del
pavimento si era increspata attorno alla statua e alla
collinetta, Maurice vide altre figure spingere dal
basso per emergere, erano volti senza occhi nè
bocca, grosse mani con dita tozze dalle unghie rotte e
contorte, vide il busto di una donna e vari abbozzi di
bambini. Le pareti ondeggiarono e il vetro della
finestra andò in frantumi. Anche la porta si
sfondò, la collina vibrò come una gran
massa di gelatina e poi si riversò nella stanza
come una secchiata di fango. Era bollente. Maurice
indietreggiò andando a sbattere contro la
statua del vecchio. Questa cadde e andò in
frantumi. Tutte le altre figure emerse poco prima dal
pavimento andarono in frantumi, ci furono nuove
piccole onde concentriche poi tutto tornò come
prima.
- Dove
c'era la porta Maurice vide una luce rossa molto
intensa e avvolta in essa c'era Rose che lo fissava.
Indossava una vestaglia a fiori aperta sul davanti. Lo
guardava senza espressione. Maurice cercò di
dire qualcosa. Si accorse con distacco che non era in
grado di parlare. La cosa non gli fece paura, al
contrario sentì un misterioso senso di
sollievo. La paura era scomparsa, constatò con
distacco sempre crescente, lasciando spazio a un senso
di solitudine e di curiosità. Rose
avanzò verso di lui a piccoli passi e solo
quando lui cercò d'imitarla si rese conto di
non poter muovere i piedi. Guardò in basso e
vide che il pavimento gli aveva inghiottito tutte e
due le gambe fino a metà delle cosce. Era come
se fosse sprofondato nella sabbia. Ricordò in
un lampo tutte le storie degli esploratori che aveva
letto da ragazzo, c'erano sempre di mezzo leoni e
sabbie mobili. Mosse le braccia avanti e indietro come
se volesse cercare di mettersi in equilibrio, tutto
inutile, il pavimento lo stava inghiottendo.
Sprofondava lentamente. Non faceva male; man mano che
affondava perdeva sensibilità. Non sentiva
più i piedi, le caviglie, i polpacci, le
ginocchia, le cosce. Quando Rose lo raggiunse smise di
affondare. Potè guardarla negli occhi senza
muovere la testa. Cercò di sorriderle ma i
muscoli del volto non risposero. Non sentiva niente.
- -
Non devi avere paura, ragazzo.- La voce era quella di
Rose ma lei non aveva aperto la bocca. Maurice
sgranò gli occhi. 'Non ti farà male,
neanche un po'. Le labbra di Rose s'incresparono e poi
si tesero in un sorriso superficiale. Maurice ne fu,
chissà perchè, molto rassicurato. La
pelle della signora Rosa aveva perso ogni consistenza,
le rughe si erano come rimarginate, i capelli svaniti
in un'unica massa senza forma, gli occhi scomparsi.
Stava diventando una sagoma appena abbozzata. I colori
si allontanarono da lei quasi strisciando, come
tintura sotto un temporale. Maurice fissava questi
mutamenti affascinato. Si sentiva avvinto e felice
come quando da piccolo guardava i cartoni animati.
Rose, o quello che ne restava, aveva ora lo stesso
colore del pavimento, la stessa consistenza solida e
lucida. Senza pensarci Maurice allungò un
braccio e la toccò. Era pietra, pietra lucida,
fredda e levigata. Andò in frantumi cadendo al
suolo. Maurice ritrasse la mano di scatto. I pezzi
colarono lungo il pavimento come fango misto ad acqua
e un istante dopo erano stati assorbiti. Tutto taceva,
la stanza era di nuovo immobile e deserta. Maurice
mosse prima una gamba e poi l'altra. Attorno ad esse
il pavimento aveva la stessa consistenza della neve
fresca. Le liberò una dopo l'altra con
facilità. I buchi dove fino a poco prima le sue
gambe erano state imprigionate si colmarono subito.
Fece alcuni passi incerti, guardandosi attorno. Sotto
di lui il pavimento era di nuovo solido. La porta e la
finestra c'erano ancora, intatte. Maurice
barcollò leggermente, la testa aveva preso a
girargli. Pensò che avrebbe fatto meglio a
raggiungere la porta e andarsene subito ma una voce
gli parlò nella testa. 'Lo sai che resterai qua
con noi per sempre, signor Decan,' Si guardò
attorno ma non vide nulla. 'Siamo qui, sotto di te,
sopra di te, ovunque, Maurice, siamo anche dentro di
te, nella tua mente, ormai... stai diventando uno di
noi, per sempre, è inutile resistere.' Non era
più una sola voce che parlava ma un insieme di
voci diverse, tante voci, di donne, uomini, bambini e
vecchi, decine di voci che gli parlavano nella testa.
Per alcuni istanti ebbe l'impressione di riconoscerne
alcune oltre a quella del vecchio stizzoso e delle
signora Rose... sua zia, suo padre e perfino sua
madre. Gridò qualcosa portandosi entrambe le
mani alle orecchie. Barcollò ancora ma non
perse l'equilibrio. Si appoggiò all'armadio che
non era più di legno ma di pietra lucida e
molto fredda. Lo guardò staccandosene con un
brivido. Ora era una porta di pietra, massiccia e
decorata, sembrava il portale in miniatura di qualche
smisurata cattedrale antica. Qualcosa sotto i suoi
piedi scricchiolò più volte. Maurice
guardò in basso. C'era come una crosta di
ghiaccio sotto di lui. Era trasparente e non tanto
spessa. Sotto vide qualcosa di liquido che premeva dal
basso. Qualsiasi cosa fosse era molto profonda.
Maurice cercò di spingere il suo sguardo in
profondità ma incontrò il buio siderale
degli abissi. Delle forme indistinte ondeggiavano
verso il fondo dove la luce si spegneva. Erano sagome
appena accennate che seguivano una corrente
misteriosa. Sotto i suoi piedi si aprirono nuove
crepe. Sorrise ai nuovi scricchiolii che sembravano
venire dall'interno della sua testa. Non riusciva a
distogliere lo sguardo dallo spettacolo tenebroso
sotto i suoi piedi. Alle geometrie incerte e alle
sagome sfumate si stavano aggiungendo nuove forme che
sembravano emergere dagli abissi come grandi scogli
sommersi. Maurice ne seguiva i movimenti senza
muoversi, era immobile e teso sul sottile pavimento
coperto di crepe che si ramificavano attorno ai suoi
piedi.
- Attorno
a edifici senza porte, torri opache e pendenti, piazze
cinte da mura ondulate e fontane una folla di sagome
percorreva cammini sommersi. Le lisce nudità
erano coperte da ombre minerali, i volti appena
abbozzati erano privi di espressione, avanzavano
fluttuando senza movimento. Maurice cercò di
contarli, arrivò a dieci, quindici,
venticinque, trenta e poi perse il conto, ne
comparivano sempre di più, nuovi, identici agli
altri, perfetti nella solitudine abissale che la luce
non riusciva a ferire. Erano tanti, come un popolo
senza storia, immersi nella placida incompletezza di
sagome senza dolore. Pace. Maurice sentì il
bisogno di raggiungerle, di unirsi a loro, per sempre,
nell'assenza di ogni ansia, di ogni attesa e angoscia,
di ogni dolore. Una voce flebile s'insinuò fra
gli scricchiolii del pavimento, sottilissima lastra di
vetro crepata come ghiaccio. Ora ci hai visti, sai
dove viviamo... si tratta di fare una rinuncia...
più di una, vedrai, siamo eterni, come la
pioggia e la notte, come le ombre. Sai che diventerai
uno di noi, lo sapevi da sempre, e ora verrai da noi,
sarai come noi per tutti i tempi futuri e
passati.
-
Maurice socchiuse gli occhi e ricordò anni di
sogni e incubi. C'erano le immagini a fuoco, nitide
precise, e c'erano quelle sfuocate. C'erano paesaggi,
uomini e mostri e poi le ombre indistinte che si
affollavano ai margini di ogni cosa. Erano loro. Le
ombre indistinte, le sagome senza definizione, il
popolo delle ombre. Ora erano sotto di lui, non
più al limite del campo visivo dei sogni. Stava
per raggiungerle. Si accorse che non desiderava altro.
La sua ultima parola non la sentì nessuno,
neanche lui. Mosse le labbra e la lingua sfiorò
il palato. Colpì il pavimento con i piedi un
paio di volte, senza forza. L'involucro si ruppe e
Maurice cadde nell'abisso, gli mancò il respiro
ma non fu doloroso. Le tenebre lo avvolsero,
sentì il suo corpo che scendeva verso il basso,
sospeso, avvolto in un liquido denso, tiepido. Non
respirò più, non ne aveva bisogno,
chiuse gli occhi sapendo che non li avrebbe più
riaperti. La calma gli entrò in ogni cellula, i
pensieri svanirono come vapore. Sentì
l'abbraccio protettivo dell'abisso e dei suoi nuovi
fratelli e sorelle. Sentì di essere al sicuro,
per sempre, in pace per l'eternità, invisibile,
impercettibile. Eterno in una dimensione senza tempo.
Non scorse le creature che gli si affollarono
incontro, non vide le loro mani protese verso di lui.
Non percepì le loro bocche spalancate, le file
di denti invisibili. Non scoprì mai la trappola
onirica che l'abisso affamato gli aveva teso. Non
sentì i morsi nè gli artigli che lo
lacerarono.
- L'abisso
aveva fame.
-
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