Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Valentina Bardi
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Marguerite Yourcenar 2002, sezione narrativa
Tesi di laurea
Si diresse in cucina tenendo gli occhi socchiusi, pieni di un sonno che non aveva dormito. L'odore del caffè appena fatto incuriosì i suoi sensi e sbadigliò, stropicciandosi i capelli. Suo padre lo guardò di sfuggita. Si alzò e mise a scaldare un pentolino di latte.
«Notte in bianco?», chiese al giovane, mentre si sedeva.
«Non riesco ad addormentarmi se non ho un sogno da sognare, lo sai».
«Hai paura?»
«Ho sempre paura della notte. Solo i sogni mi salvano».
«E non ne avevi uno pronto?», chiese il padre rimettendosi a capotavola.
«No. Non ne ho da settimane».
«Te li dovresti costruire. Dovresti prepararli prima», gli suggerì, mascherando una totale mancanza d'esperienza in quel campo.
«Sì... costruirli... E come dovrei fare?»
«È semplice: dovresti sdraiarti e usare il pensiero. Dire... ECCO, ALLORA, QUESTA NOTTE VOGLIO SOGNARE D'ESSERE IN UNA FORESTA CANADESE E...»
«Eh...?».
«Non lo so... ho detto una cosa così, tanto per fare un esempio».
«Vorrei essere come te e non temere la notte».
«No, Andrea. Tu somigli tutto a tua madre. Lei saprebbe cosa dirti. Lo sapeva sempre».
La stanza lasciò risuonare un senso grave di malinconia per una donna che ormai se n'era andata.
 
Andrea pensò che suo padre aveva ragione: se ci fosse stata lei, lui non avrebbe avuto più una paura così infantile. Solo suo padre lo sapeva: persino Alessandro, il suo migliore amico, non sospettava una tale debolezza.
 
Di notte non dormiva, a meno che, dal fondo del suo cervello non comparisse, d'improvviso, un'immagine, un segnale, la traccia di un sogno. Doveva avvenire senza manipolazioni, senza l'intervento della volontà, altrimenti il sogno svaniva prima che lui potesse addormentarsi.
Aveva avuto spesso la tentazione di rivolgersi ad uno psicologo, ma non c'era mai andato. Cosa avrebbe pensato suo padre? Aveva la quinta elementare e faceva il barista da una vita. Lui sapeva che gli psicologi avevano a che fare coi malati e non avrebbe digerito passivamente che suo figlio ne consultasse uno.
E sua madre? Si sarebbe rigirata nella tomba, di sicuro.
Non poteva assumere medicinali: era sempre stato un ragazzo fragile. Il suo cuore non funzionava come quello dei suoi coetanei. Perciò poteva limitarsi soltanto a prendere qualche prodotto di erboristeria, ma non contava a molto.
 
Suo padre ripose il giornale sul tavolo, fissò per un paio di secondi l'orologio e si alzò.
«Comincia il mio turno. Passi nel pomeriggio?»
Andrea tuffò un crumiro nel latte e lo guardò con incertezza.
«Non lo so. Devo scrivere l'ultimo capitolo della tesi. Se non mi ci metto oggi, non mi ci metto più».
«Perché dici così?»
«Perché sono due mesi che vorrei concludere e non ci riesco. Non riesco a far nulla: devo laurearmi in fretta».
«Boh...», borbottò suo padre, mostrando di non capire bene cosa significasse tutta quella premura.
 
Vivevano soli da diversi anni. La sorella di Andrea, Carla, si era sposata ed era andata a vivere a Roma. I due uomini andavano d'accordo: si dividevano i lavori di casa, cucinavano a turno e non invadevano troppo l'uno gli spazi dell'altro. Suo padre stravedeva per lui: fin da quando avevano scoperto i suoi problemi di salute, gli si era affezionato ancora di più e poi, dopo la morte della moglie e la partenza di Carla, Andrea sembrava l'unica persona per cui valesse ancora la pena vivere. La perdita della madre aveva lasciato un vuoto enorme nel ragazzo; non riusciva a concentrarsi per molto tempo, e non trovava le parole per scrivere quella maledettissima tesi di storia; l'ansia che accumulava durante il giorno si raccoglieva tutta tra le pieghe delle sue coperte e i sogni non arrivavano. Allora si girava e rigirava nel letto fino all'alba senza trovare un angolo di conforto. La paura lo faceva tremare come un bambino. Se ne vergognava così tanto che non aveva neanche il coraggio di alzarsi.
 
In quelle ore mattutine i suoi nervi si riprendevano dalle tensioni notturne, ma si ritrovava stanco e spossato, senza quella lucidità indispensabile per studiare. Ogni volta che andava dal suo professore, veniva puntualmente umiliato per la sua poca volontà, la sua lentezza e l'uso di espressioni macchinose. Non ne poteva più. Per questo pensò che quel giorno avrebbe scritto l'ultimo capitolo tutto d'un fiato, senza distogliere l'attenzione del computer.
 
Si fece una doccia, poi si sedette al computer. E scrisse. Scrisse fino a non sentire più la sensibilità dei polpastrelli. Senza nemmeno rileggere. Quando prese coscienza del tempo che era passato, si stiracchiò un attimo e qualcuno suonò alla porta. Aveva voglia di imprecare, ma si limitò a guardare il soffitto con l'aria di chi non può aggiungere altro. Andò ad aprire e fu stupito di trovarsi di fronte Monika, la sua più cara amica, dopo Alessandro.
 
«Lo so, lo so che hai la tesi, ma voglio parlare con qualcuno». Entrò come un fulmine, lasciando una scia di profumo dolce mentre passava davanti al corpo spento e un po' consumato di Andrea. Era così bella che quando la vedeva, lui, per i primi cinque minuti, si sentiva il cuore scoppiare e pensava che nella sua vita non c'era mai stato niente che le somigliasse anche lontanamente. A volte aveva addirittura paura di incontrarla perché pensava che un giorno o l'altro, quel suo cuore non avrebbe retto e sarebbe morto stecchito. Ma questo non gliel'aveva mai detto e lei era fermamente convinta di essere piuttosto bruttina. Non che le interessasse: Monika non badava minimamente a certe questioni. L'unica cosa che le interessava era il teatro. Voleva diventare un'attrice e nient'altro. Sua madre l'aveva nutrita costruendo per lei bellissimi spettacoli nella sua cameretta e le aveva recitato Ionesco e Beckett ancora prima che potesse leggere e scrivere. Quei modi inusuali di farla giocare e farla crescere avevano profondamente plasmato il suo animo sensibile verso un'unica direzione.
 
«Ho scelto il monologo. Farò un pezzo da NOVECENTO e leggerò una poesia di Montale. Non so ancora quale, però».
Andrea distolse lo sguardo dalla ragazza che passeggiava nervosamente avanti ed indietro.
«Baricco e Montale. Connubio perfetto», disse senza lasciar trapelare alcuna emozione dal tono di voce.
«Dimmi sinceramente: che pensi?»
«Te l'ho appena detto: è perfetto».
«Hm... piuttosto: come va la tesi?», chiese Monika, sbirciando lo schermo del portatile.
«Procede. Entro stasera finisco. Domani porterò l'ultimo capitolo al prof.».
«Non ti ho mai visto così certo», commentò sorpresa.
«È ora di finirla. Non c'è più tempo. Io sono troppo stanco».
«Ti capisco. Dev'essere frustrante stare lì e scrivere tutto il giorno».
«E allora, stare sopra ad un palco e recitare? Non è altrettanto frustrante?»
«No, che c'entra. Recitare è giocare». Lo ripeteva spesso Monika. Sorrideva con un lampo negli occhi e diceva quella sua frase. Recitare c'entrava molto con la vita, ma non era come vivere realmente: era tutto vero, eppure intangibile, impalpabile, come un incanto. Sul palco era bello persino soffrire. Monika forse non voleva vivere, ma solo giocare a vivere. E per lei, il teatro era l'unico modo. Andrea glielo leggeva nel volto, sul palmo delle mani. Si sentì profondamente vicino a lei in quel momento e dalla gola gli uscì una voce.
 
«Ho paura della notte, quando non ho sogni da sognare».
Quelle parole sapevano di rivelazione ed Andrea le pronunciò senza pensare alle conseguenze.
Monika posò NOVECENTO sulla scrivania. Scrutò l'amico per un attimo, poi aprì e richiuse l'armadio.
«Paura? Della notte?», chiese per avere un'ulteriore conferma. Poi aggiunse: «Da quando?»
«Da molto tempo ormai. Lo sa solo mio babbo».
«Te ne vergogni?»
«Tu te ne vergogneresti?»
«Se fossi maschio sì. Alle femmine, debolezze del genere sono concesse. Comunque il rimedio è prepararsi i sogni prima di dormire».
Andrea sorrise: «È la stessa teoria di mio babbo. Ma non funziona con me».
«Certo...», concluse Monika «devono venire da dentro...»
«È una cosa che mi tormenta e mi dà ansia. Non c'è soluzione. Mi capita sempre più spesso di non dormire. E se non dormo, i pensieri mi soffocano. Il senso della morte più che altro...»
Monica riprese il libretto e si appoggiò al muro dispiaciuta.
«Tutti pensano alla morte, non sei il solo». Lei guardò l'orologio e si decise ad andare. «Sarà meglio che ti rimetti al lavoro. Ti faccio già le congratulazioni: sarà 110 e lode, vedrai».
Andrea le sorrise ancora, ma non rispose e l'accompagnò alla porta. Un'altra scia di profumo gli confuse le idee e gli venne il desiderio di sfiorarle i capelli. Dopo un istante però ritornò alla scrivania.
 
Quello fu un pomeriggio di grazia: dopo tanto tempo perso per mancanza di concentrazione e confidenza con le parole, ecco che tutto ritornò ad essere semplice. Gli bastava leggere un punto della scaletta, pensarlo e subito le frasi prendevano vigore sotto il ritmo brillante ed energico delle sue dita alla tastiera. Gli sembrava di essere tornato bambino, quando in braccio a sua madre, scriveva i primi pensierini: "Il gatto è sul tetto. Il bambino va al parco". Erano frasi così stupide; eppure sua madre non si permetteva mai di contraddirlo o di suggerirgliene di più perfette. Semplicemente lo teneva sullo scollo per fargli sentire che non era solo.
 
Sapeva che quella tesi non era speciale: le sue considerazioni non sarebbero passate alla storia e nessun editore avrebbe pubblicato quelle pagine. Nonostante ciò, le frasi si stendevano sullo schermo ed evocavano una remota idea di completezza, l'una legandosi solidamente all'altra, senza dover apportare troppe correzioni. Si sentì fiero di sé, delle sue potenzialità che certamente un giorno, non lontano, sarebbero sbocciate e lo avrebbero liberato dalla paura.
 
Verso le venti suo padre rientrò. Posò sul tavolo una busta con dei mignon e tirò fuori dal frigo una birra.
«Andrea, sono tornato».
«Sì, sì, ora vengo», gli rispose una voce da una delle stanze interne.
Intanto lui si mise a cucinare. Dedusse che Andrea non aveva toccato cibo, così preparò degli spaghetti e bistecca con insalata. Aveva bisogno di energie, quel ragazzo. La vita lo stava aspettando. Solo dopo tre quarti d'ora, Andrea fece comparsa in cucina. Si sedette a tavola e versò da bere nei bicchieri.
 
«Ce l'ho fatta. Ho finito».
«Olè...! Bravo! Complimenti!»
«Aspettiamo di sentire cosa dice il professore. Ho appuntamento domani alle dieci. Mi svegli tu?»
«Sì, sì, non ti preoccupare. Ora mangiamo».
Fu una serata allegra. Al momento del caffè, Andrea disse al padre: «Oggi ho detto a Monika della mia paura. Senza sapere perché. Dopo però mi sono sentito leggero, come se mi fossi liberato di un peso».
Il padre ingoiò un mignon. «È bene dire le cose. Sì, tutti hanno dei segreti e a volte è meglio stare zitti, ma non con le persone che ci vogliono bene. Monika è così intelligente. Andrà a lavorare in televisione, vedrai. Quella non ha mica peli sulla lingua. È un vulcano. Devo ammettere che sua mamma è sempre stata un po' grulla. Ma la Monikina è venuta su bene, mi sembra una brava ragazza, no?»
 
Andrea lo guardò teneramente. Se Monika fosse stata lì, avrebbe proclamato il suo totale disinteresse per la televisione. Già s'immaginava la scena: si sarebbe inalberata con forza e avrebbe cominciato uno dei suoi monologhi disquisitori.
«Sì, è una brava ragazza. Ma forse non lavorerà in televisione».
«Televisione o no, nella vita combinerà qualcosa di buono, non ci sono dubbi...»
«Ed io?», chiese Andrea.
«Tu? Ma sì... certo, anche tu. L'importante però è che non desideri qualcosa di più grande del tuo cuore. Perché lo sai, no? Il tuo cuore è piccolo...»
«Sì, babbo, lo so. Me lo ripeti ogni santo giorno».
«Ho l'arterio, Andrea. Ripeto le cose, perché sono vecchio e il tuo cuore è l'unica cosa che rimane. Vai a dormire, ci penso io qui».
 
Il ragazzo fece un cenno con la mano: uno di quei saluti che si fanno quando si è sul treno e si sta lasciando la stazione. Andò in camera e rilegò i fogli mettendoli in una busta trasparente. Preparò i vestiti per l'indomani e prese un pezzetto di carta. Vi scrisse il suggerimento del padre: "Regola numero uno: non desiderare ciò che il tuo cuore non può contenere". Ripassò le parole con un evidenziatore, come per imprimerle dentro la carta, e una sua voce interiore le ripeté fino a farle rimbombare contro le pareti della stanza.
 
Andò a dormire: chiuse gli occhi e non pensò a nulla. Per un attimo ebbe paura di un attacco d'ansia. Invece tutto era tranquillo. Forse perché era soddisfatto oppure perché aveva raccontato quel segreto a Monika. Il giorno dopo lo avrebbe detto anche ad Alessandro perché con loro non doveva vergognarsi: avrebbero capito di certo. In quella calma piatta d'Oceano che sposa l'orizzonte, un gabbiano spuntò dal nulla. Volava a rallentatore e le nuvole lo inghiottivano a tratti. Andava verso un punto immaginario, in fondo al cielo; più che un punto sembrava una macchia violacea, che ricordava i colori delle vesti religiose. Il gabbiano non aveva fretta: il suo volo seguiva una pulsazione che si sarebbe persa nel vuoto da un momento all'altro. Andrea lo vide meglio e gli sembrò davvero vicino. Ancora più vicino a quella macchia violacea che ora si era ingrandita e si era messa anch'essa a pulsare faticosamente. Si allargò fino ad invadere tutto il cielo e continuò a battere. Di colpo il gabbiano sparì, risucchiato da quel lago di viola che il cielo era diventato e ci fu silenzio.
 
«Andrea, è ora». Il babbo avanzò nel buio della camera e aprì la finestra per far entrare il sole. Andrea dormiva così profondamente che il padre si rammaricò di doverlo svegliare.
«Deve aver fatto uno dei suoi sogni buoni», pensò.
«Andrea, oh... è ora!», ripeté il padre scuotendo il corpo del giovane figlio. Lo scosse ancora, con dolcezza, poi con più convinzione e si accorse che il corpo non rispondeva.
L'occhio attraversò la stanza trasalendo e di sfuggita scorse un pezzetto di carta sul comodino.
 
«Andrea! Andrea!». Lo sollevò dal cuscino e gli baciò la testa, disperato. Di nuovo guardò il piccolo foglio e questa volta vi scorse delle parole: "Regola numero uno..."
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 Ins. 10-10-2002