Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Valentina Pascarella
Con questo racconto ha vinto il decimo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«Doll's House»


La bimba canticchiava nella stanza accanto. La sua bimba. Era un rumore cantilenante, a cui non era più abituata. Era il suono dolce del giapponese, con le sue "ci" e le sue "ji", così estranee all'inglese, snocciolato con una naturalezza e degli acuti disarmanti. Sarah non aveva mai capito come un essere umano potesse pensare in una lingua assurda come quella, figurarsi poi cantare. Entrò nella stanzetta. Notò la divisa appesa con cura militare alla gruccia. I giocattoli certo non mancavano a sua figlia. Aveva passato mesi ad arredarle la stanza; le tende di pizzo e il baldacchino erano il sogno di ogni bambina. L'unica cosa che le mancava, aveva detto Dolores, erano i cartoni animati: in Giappone ne trasmettevano molti di più. Ciò che più aveva incuriosito Sarah di sua figlia, era la gigantesca casa delle bambole che si era portata sulle ginocchia per tutto il viaggio, anche a costo di rimanere vigile come un cane da guardia per evitare che un'hostess troppo zelante gliela portasse via. Era stata fatta tutta a mano, da lei e dalla nonna.
Intanto la bimba si era accorta della sua presenza «Avete bisogno di me, madre? » Lei ridacchiò «Chiamami mamma, ok?» Dolores piegò la testa, il caschetto nero scese obliquo insieme a lei. In giapponese non c'erano termini meno formali per dire mamma.«Che differenza c'è?» «È meno formale, Dolores». Dolores... le sue amiche l'avevano sempre chiamata Doll-chan, perché sembrava una bambola. Loro le mancavano, ma nella nuova casa aveva un pianoforte enorme e sua madre adorava sentirla suonare. Con la nonna non poteva mai fare baccano, soprattutto se la vecchia era di umore instabile, ovvero sempre. La grande casa delle bambole che avevano costruito insieme e terminato poco prima della partenza per l'Inghilterra, però, era stupenda. Lei si era dedicata alle rifiniture, come le tende, la moquette, le mattonelle e tutto ciò che di inutile c'è in una casa, diceva sua nonna. Fosse stato per la vecchia signora, infatti, la villa sarebbe stata costruita in puro stile tradizionale giapponese, assi di legno, mobilio scarso. Sua nonna aveva poi ceduto e l'edificio era stato costruito all'occidentale, ma per poter dar sfogo al proprio innato istinto sadico, non aveva potuto fare a meno di seminare pericoli mortali in ogni dove. Già alcune delle sua bambole avevano perso la testa per la camera da letto.
E non perché era davvero bella, ma perché nel baldacchino era nascosta una piccola mannaia. Una volta, mentre la bimba serviva il tè alle sue bambole, unica cerimonia sacra tanto a Tokyo quanto a Londra, una di loro, Tomoko, era stata cerimoniosamente decapitata da un lampadario di cristallo. Non c'era da fidarsi della nonna.
Sarah era preoccupata. Sua figlia era troppo tranquilla... Un uccellino silenzioso rinchiuso nella sua gabbia. La bimba giocava con la sua casetta. Le si avvicinò, e guardò nel punto dove lei fissava. Sbarrò gli occhi. Vide il giardino botanico all'interno della villa. Ma non furono le microscopiche opere di ikebana a incantarla, anche se quel giardino era più puntellato di fiori di un quadro impressionista, fu la pioggia. In quel giardino stava piovendo. «La nonna? ». La bimba annuì. Afferrò con cautela il comignolo, tirando con entrambe le mani. Non lo aveva mai fatto prima, perché la nonna non voleva. Ma non fece nemmeno in tempo a scostare l'intelaiatura che il tetto si richiuse di scatto, mordendole la mano. Si guardò le punta delle dita: sanguinavano. Sua madre era allibita. Decise che durante le vacanze imminenti avrebbe nascosto quel giocattolo pericoloso.
Per festeggiare il primo Natale insieme andarono ai Carabi. La bimba aveva insistito per portarsi dietro la sua casetta, ma Sarah non aveva voluto. Dopo mille giustificazioni, smontate una per una, aveva perso il controllo e urlato «Guai a te se ti porti dietro quella cosa!» Doll l'aveva guardata a lungo; i suoi occhi scintillanti di rabbia le avevano scatenato un tremito, ma non aveva ceduto. Il sole era caldo, la bambina giocava nell'acqua. Poco prima aveva riempito l'album da disegno di bozze e schizzi di stanze, finestre e sottotetti, ma quando aveva visto lo sguardo della mamma, aveva smesso. Adesso svolazzava, con quel suo vestitino bianco e spiegazzato, a prendere l'acqua con il secchiello. Sorrideva sempre, da quando erano in vacanza, e correva a tavola con le gambe ancora bagnate e l'abitino incollato addosso. La mattina fatidica Doll fu tredici volte più euforica di un bambino normale nel vedersi letteralmente sommersa di doni. Sul fondo di quella ciclopica montagna, però, trovò qualcosa di familiare: una scatolina in miniatura, con un biglietto in kanji. Il regalo di Natale della nonna era stato molto particolare: una chiavetta per il computer, che ripose con cura in valigia. Appena rientrata a casa l'avrebbe provata subito.
Il ritorno rivelò, però, un'amara sorpresa: la sua casetta era scomparsa, sostituita da un orribile agglomerato di plastica, oltretutto rosa. Sua madre aveva sempre adorato le Barbie e sperava proprio di poterci giocare con lei. Con tono paziente e fermo, però, la bimba le spiegò che le bambole di plastica non avevano un'anima; preferiva le sue, che avevano tutte un carattere ed un'espressione diversa. Chiese alla mamma se voleva giocare con le sue bambole, ma lei scosse la testa. Le disse che odiava i loro grandi occhi di vetro, le facevano impressione, sembrava che le leggessero nel pensiero.
Quando, dopo una lunga e accurata ricerca, Doll ritrovò la sua casetta in cantina, scoprì che all'interno si celavano ampi spazi vuoti. Nel solaio doveva nascondersi un vano grande almeno come il salotto, ma nel muro non vide nessun varco. L'unica entrata poteva essere il tetto, ma i tagli sulle dita erano stati un buon monito. Forse c'era una botola da qualche parte. Un'altra cosa strana, poi, erano gli specchi. Ve ne erano disseminati ovunque in tutti e tre i piani. Si ricordò di certi dipinti fiamminghi dove l'artista, non potendo ritrarre tutta la scena, si serviva di specchi per dipingere anche i dettagli che si trovavano alle sue spalle. Doll si chiedeva cosa potesse esservi di così misterioso in quella casa da essere celato con tanta cautela. Forse un segreto sulla sua famiglia? Magari qualche notizia su suo padre? Forse la nonna aveva nascosto dei misteri sul suo passato, magari una lettera in cui ammetteva di aver accettato il matrimonio dei suoi genitori solo a patto che questi le affidassero il primogenito? Doll sistemò la sua bambola più vecchia davanti allo specchio per prepararla alla seduta spiritica che si sarebbe tenuta in salotto. Quando posò di nuovo lo sguardo su di lei, però, vide che era priva della testa. «Oh no!» sbuffò «Dovrò riscrivere tutta la linea di successione!»
Ora toccava alla principessa mezzana indagare sulle cause della morte. Non che le dispiacesse troppo, probabilmente, immaginò la bimba. Stava per controllare lo specchio, quando ebbe una visione: proprio nel punto dove prima c'era la testa della ragazza, ora era riflesso un piccolo pulsante. Premette, la casa si mosse... scricchiolò paurosamente, Doll tremò, se il rumore fosse stato solo un po' più forte, sua madre sarebbe accorsa subito. Le venne in mente un vecchio documentario in cui venivano svelati i trucchi dei maghi: uno di questi riguardava la classica casa delle bambole con gli oggetti che si muovono al suo interno. Era stato spiegato che, in realtà, dentro si nascondeva una collaboratrice del mago che, senza farsi vedere, spostava gli oggetti con le mani, piegata com'era sotto il tetto.
La bimba era terrorizzata... e se la nonna... non era possibile, no, era lì da troppo tempo... la parete si era allargata, lasciando libero un varco! Brividi sulla schiena... proseguì... e un urlo lacerante squarciò la notte.
La casa venne chiusa in soffitta. Sua madre non gliel'avrebbe mai più restituita.
E se non avesse avuto così paura, forse l'avrebbe bruciata.
Dolores aveva già finito il college. Stava per trasferirsi, sarebbe andata a vivere sola. Sarah aveva provato in tutti i modi a dissuaderla, ma lei era stata irremovibile, non era più una bambina.
Ora era in garage. Voleva portare con sé tutti i suoi ricordi, anche i più infantili.
Cos'era quel cubo di legno in penombra? Non le sembrava di riconoscerlo, eppure era familiare... e sopra, c'era scritto "Doll's". Lo nascose nel baule della macchina, non sapeva perché, ma preferì non dirlo a sua madre. Arrivata nella nuova casa, aprì lo scatolone. Conteneva una meravigliosa casa per bambole... un flash... perché si trovava in garage? Avrebbe adorato un giocattolo del genere, perché metterlo da parte? Come era possibile che si fosse stancata di una cosa simile?
… Ma poi le venne in mente, in un lampo, un dottore, delle scale, gli incubi...
C'era stato un periodo, nella sua infanzia, in cui non riusciva a dormire e si svegliava di notte urlando... sua madre l'aveva portata da un medico, forse la casa c'entrava qualcosa? Ma certo!... quella non era la casa della nonna?! Chissà cosa poteva essere successo per terrorizzarla a tal punto. Sollevò quella che, ora ricordava, era stata la sua bambola preferita, quella che portava il suo nome, la seconda che aveva costruito insieme alla nonna. C'era qualcosa in quella casa. Qualcosa che era rimasto sepolto nel buio per molto tempo. Fece spingere alla bambola un pulsante che aveva scoperto anni prima. Rumore metallico. Uno scricchiolio arrugginito, ma efficiente e indifferente al tempo. Il corridoio rivelò una scala... La soffitta era vuota.
Nessuna finestra. Frugò in giro, finché non notò l'elaborato, minuscolo tappeto... lo scostò, e trovò una botola. Il coperchio era collegato ad un complicato meccanismo, perché quando lo sollevò le assi del pavimento si fecero da parte. Quella era... la stanza segreta di cui aveva sempre cercato l'accesso! Con un brivido di anticipazione entrò nella camera da letto. Nascosta tra le tende del baldacchino, una bambola bianca come i ricami di pizzo dell'abitino... era bella, ma strana, costretta in un vestitino infantile, troppo piccolo.
Dalla finestra si vedeva il giardino interno...anche quello aveva dimenticato... i bonsai c'erano ancora, minuscoli e leggiadri, immutabili. Il giardino era bellissimo, ma di una grazia innaturale, sembrava un cimitero. C'era una porta, nella stanza... portava ad un bagno. Antico, in maiolica. La vasca doveva essere grande, sentiva lo scroscio dell'acqua, però non vedeva bene, era immerso nel buio. Nonostante il infatti era stato riattivato immediatamente dal pulsante che ne azionava il meccanismo. Accese una torcia e puntò il raggio di luce sul bagno. Ammutolì. L'acqua era rossa, nella vasca da bagno. Ribolliva e rigurgitava come un vulcano iroso... era stato usato lo stesso principio delle fontane! L'acqua fluiva e ritornava. Ma... dentro... dentro c'era qualcosa! Un... qualcosa di minuscolo, orribile. Una bambola giapponese, dalle fattezze di una neonata. Che scherzo era questo! Doll era allucinata. Ricordava il carattere della nonna, ma questo superava ogni limite! Si ricordò appena in tempo di non fare movimenti bruschi. Ora rammentava: anni prima, le avevano fasciato il braccio perché si era dimenticata del meccanismo e le era rimasto intrappolato il gomito. La nonna era folle! L'indomani avrebbe bruciato quella cosa orribile... ma... cosa c'era sul fondo del baule? Una chiavetta. Già, anche quello era un regalo della nonna. Conteneva diversi documenti, non era mai riuscita leggerli tutti, perché la mamma le aveva confiscato anche quella. Riluttante, Doll la collegò al pc. Non avrebbe dovuto farlo.
Sapeva che avrebbe trovato qualcosa di orrido e disgustoso. Ma la curiosità prevalse sul buonsenso. Il primo era un trattato d'architettura, poi degli articoli di giornale che non aveva mai letto.
Tokyo, tredici anni prima. Il primo articolo parlava dell'omicidio di una bambina. Il nome del killer non era indicato, perché era un malato di mente, anzi, una malata di mente... era la stessa madre della piccola! Doll sbuffò disgustata, tipico esempio di racconto della buonanotte della nonna. L'articolo era breve e asciutto, corredato dal profilo psicologico dell'assassina. La sua salute mentale era stata messa a dura prova dal divorzio e il tribunale aveva affidato la custodia al padre. La donna ne era rimasta distrutta. In un raptus, aveva affogato la bimba di appena un anno nella vasca da bagno e accoltellato l'ex-marito. La donna era, però, di nuovo incinta e la custodia del nascituro fu affidata alla suocera. Dopo sette anni di cure, l'accaduto fu completamente rimosso dalla coscienza della paziente che, giudicata completamente guarita, ottenne addirittura l'affidamento della figlioletta, grazie soprattutto alla pressione dell'ambasciata inglese. Dolores fissò lo schermo, muta. Afferrò l'album di famiglia... c'erano decine di foto con la mamma che la teneva in braccio, e papà, l'ospedale... era lei, certo che era lei, le didascalie con scritto "Dolores", era il suo nome, no? Ma... lei era veramente nata nel'85? Recentemente aveva avuto dei problemi con i documenti, alcuni dicevano che era nata nell'85, altri nell'86... certo, probabilmente perché venivano dal Giappone, e poi con il fatto che era andata a scuola un anno prima, aveva spesso avuto disguidi... ma... qualcosa la fulminò. Prese l'album.
Lo esaminò con cura, prese una lente. E poi tremò. Lei non aveva mai avuto angiomi sulla guancia sinistra. La bimba della foto, invece... le osservò tutte, con cura maniacale... tutte le foto del primo anno di età ritraevano una bimba con un angioma sulla guancia destra. In quelle successive, invece, non c'era più... Doll rabbrividì. L'album l'aveva compilato la mamma. Afferrò le chiavi. Doveva uscire... ma sentì dei passi, per le scale... una chiave, nella toppa. Eppure, nessuno aveva una copia delle sue chiavi, se non... «Mamma! » esclamò. Calma, doveva fingersi calma. «Quanto mi sei mancata, beviamo un tè?» esclamò. La donna sorrise. Doll non fece in tempo ad avvicinarsi alla porta che aveva le unghie della donna puntate alla gola. «Vuoi abbandonarmi, tesoro?» sua madre aveva uno sguardo implorante, ma la sua presa era di ferro. «Vuoi lasciare la mamma?» Lo sguardo era angosciato, la voce alta e isterica. Doll non riusciva a respirare.
La stava strozzando. Con terrore incontrollato, vide che la stava trascinando in bagno «Tutti mi abbandonano! Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?! Con tutto quello che ho fatto per te... e tu mi lasci da sola così?» La presa stringeva e stringeva. Sua madre non era fragile come lei, anni di palestra l'avevano resa forte... La ragazza non riusciva nemmeno a risponderle.
Lottava con ogni forza per riuscire a respirare, scalciava e si dimenava, ma non sortiva alcun effetto... strabuzzò gli occhi, indicò la casa. La donna volse il suo sguardo da folle in quella direzione... e vide... «QUELL'ORRORE! L'avevo buttato, da dove l'hai preso!» La presa si alleggerì di poco, Doll si gettò di peso sulla donna, che sprofondò sul tetto del casetta «Qui, la nonna ha nascosto mia sorella, che tu hai ucciso» spiegò lucidamente «È diventata una bambola». Alla parola "bambola" la donna impazzì. Doll sapeva perché.
Sua madre era terrorizzata dagli occhi delle bambole. Fin da bambina era stata ossessionata dallo sguardo fisso del vetro e, probabilmente, vedere quello della sua prima figlia farsi vacuo ed eterno fra le sue mani l'aveva distrutta. «E anch'io sono una bambola» la guardò con occhi enormi. Sua madre iniziò ad urlare, e si artigliò su di lei. Doll arretrò di scatto, ma qualcos'altro si mosse: era il tetto, che aveva intrappolato una gamba della donna. Quella lanciò un grido, e lei scappò via veloce come il vento. Doll guardò la fotografia della nonna. La vecchia sorrideva sollevata.

Valentina Pascarella


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