Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Veronica Papa
Con questo racconto ha vinto il terzo premio al concorso
Il Club dei Poeti 2004, sezione narrativa

 

"La freschezza e la vivacità

dei ricordi più lontani

è segno che c'è qualcosa

in noi che non invecchia"

 

Arthur Schopenhauer

Manoscritti, 1829


I traghettatori del cielo
 
Domenica pomeriggio.
Sul mare soffia stanca un'aria noiosa da melassa plumbea. Qualcuno in pantaloncini corti passa svogliato in bicicletta o con un ghiacciolo in mano.
E nelle aiuole dormono incolori batuffoli di polline.
È tutto molto calmo. Irreale.
Con una certa provvista di instabile perfezione.
 
Ancora una volta ripercorro la strada di casa.
La rotonda verde macchiata di fiori bruciati dal sole, un groviglio di fontane spente, di salici ricurvi e di deliziose villette a schiera. Due bambine con le trecce giocano a palla in un cortile assolato e un gatto si rotola all'ombra striminzita di un platano.
C'è buio sul pianerottolo che profuma di pulito. Nella posta due o tre bollette, pubblicità di supermercati con sconti disumani e centri di dimagrimento dagli improbabili risultati miracolistici.
Sono a casa. Sento una strana sensazione di malinconica felicità nello scoprire la rassicurante familiarità di ogni oggetto ritrovato e sospiro con un sorriso che non conosco mentre alzo le tapparelle della mia camera, piena della languida essenza di pane abbrustolito. Quattro vetrate si affacciano su un viale alberato che dondola appena, mentre dal nulla il fischio pallido di un treno irrompe nel silenzio.
Dalla radio un ritmo nero in un'altalena rap-soul e in una fotografia, sullo sfondo di un anfiteatro di monti incappucciati di bianco, guizza la coda luminescente e beffarda della cometa Hale-Bopp.
I campi estivi. Gli amici del mare. Le foto di quand'ero piccola... un caschetto alla Piccolo Lord e quell'orribile cappellino da Giovane Marmotta. La maestra delle elementari. Scarpette rosa da ballo, le ginocchia sbucciate, il grembiule della scuola e il vestitino da fatina azzurra. Le caramelle gommose a forma di orsacchiotti e coccodrilli fosforescenti. Le matite colorate, un temperino e gli animali di peluche.
I jeans vissuti e le magliette storiche, impossibili da buttare via. Le notti passate al telefono. Le notti passate a studiare.
I libri. Mucchi di parole sparse su un comodino in disordine. Parole. Nelle storie. Nella musica. Nelle dediche di fine anno. Nelle lettere mai spedite.
E nei ricordi. Ricordi di ogni genere. Di un bacio. Di un giorno di pioggia. Di una spiaggia. Di un cinema. Di un sogno. Di un Natale... uno spettacolo di luci, torte alla panna e stelle filanti.
I mondi paralleli angoscianti e splendidi di un pittore che grida dall'inferno di una pazzia incurabile, e in uno scatolone tra la polvere, vecchie cassette registrate da amici lontani.
E poi la libertà. La vita. L'Università. La guerra.
Il bianco ingiallito di una vecchia lettera ritrovata, un petalo di rosa sbiadito e nell'aria un profumo ovattato di bianco.
Ho voglia di perdere tempo adesso... di far volare via ogni pensiero, di restare immobile e di ripassare lentamente i contorni del tuo viso, cercando di capire perché oramai sei dentro a tutte queste cose...
Metto su un cd dei R.E.M., spalanco le finestre e rimango ad aspettare che quella melassa plumbea entri in camera mia, rallenti il respiro della mia anima e mi porti via con sé...
 
Era solo un bicchiere di CocaCola, che rabbrividiva di freddo davanti al calore invitante di una pizza, tra camerieri in divisa smunti e preimpostati che saettavano tra i tavoli con irritante destrezza e lo sguardo da ameba stressata.
Un momento qualunque della vita.
Ma uno di quei momenti che non si dimenticano.
E se chiudo gli occhi riesco ancora a sentire il vociare disordinato, il tintinnio irregolare delle posate sui piatti e una vellutata penombra sotto un tetto verde e umido di edera. Poi uno strappo azzurro lacera il cielo assonnato tra guanciali di nuvole grigie e siamo ancora noi, nella fotografia di un pomeriggio d'estate, ancora una volta insieme, persi tra esistenzialismi e nevrosi tardo adolescenziali. Due coraggiosi traghettatori del cielo, liberi e felici e alla ricerca di una meta, che si tengono per mano in un palcoscenico senza finzione dove è possibile anche avere paura.
Facciamo i turisti nella nostra città, tra veri stranieri con videocamera e gelato, risucchiati in una immagine senza dimensione né confini in un mondo di un lilla tenue ondeggiante e perfetto, come grappoli di glicine stesa ad asciugare al sole. Approdiamo come due naufraghi assetati nell'aria condizionata di una libreria del centro, tra le sagome tormentate di folli scienziati decomposti, e filosofi barbuti e balbettanti che parlano con gravosa retorica di destino.
E ci sei anche tu, Schopenhauer, anima inquieta e saggia di un vecchio ubriacone zoppicante, a giocare con noi in questo matto girotondo d'inchiostro, raccontaci com'è davvero la vita e aiutaci a scappare dalle false rappresentazioni di noi stessi. Prendiamo un cannocchiale e corriamo tra le stelle, viaggiamo nelle Atlantidi scomparse e dimenticate nelle nostre menti e andiamo alla ricerca di quella fonte sconosciuta di incantesimi buoni.
E tu, adorabile scheggia rinvenuta dal passato, disegna nei miei pensieri i tuoi ricordi più lontani... i dolci lineamenti di una città sotto una neve zuccherata che ancora dorme e che respira in silenzio prima del caffè..., e raccontami dell'incubo di un bosco oscuro tra alberi parlanti e tenebrose presenze e lo specchio fiammante d'argento di un lago dal fondale mostruoso e segreto. Passa un attimo, poi dalla tua memoria compare un bambino che spalanca senza più paura una porta di una stanza vuota e tetra, ricoperta da una soffice polvere dorata e abitata da un fantasma dalle sembianze gentili e familiari. L'ombra maestosa e solenne di una chiesa avanza adagio su una piazza sepolta da piccioni rifiutati dal cielo.
Non so più dove sei adesso, ma riesco a sentirti, in una sfumatura incerta tra il chiaro e lo scuro, respirare vicino a me, rinchiusi in un quadro impressionista che si scioglie in gocce di tramonto. Parlami ancora, di quello che sogni, di quello che vuoi, e non fermarti mai di guardarmi e di sorridere, così che io possa avere per sempre questo momento al quale pensare quando un giorno ti aspetterò davanti ad una finestra sporca di pioggia in una serata fredda e scura d'inverno.
Una tenda si agita nel vento come una vela ribelle in viaggio verso l'Oceano aggredito dall'elegante ferocia di una famiglia di squali in vacanza, mentre un lampo rabbioso cattura le nuvole in una centrifuga d'acqua.
Ogni cosa si cancella intorno a noi, e nel buio appena illuminato e nascosto di una stanza, galleggiano chiuse in una nuova poesia, le nostre parole.
Un brivido si muove veloce sulla mia pelle mentre il soffio di un dolce tremore sfiora i miei capelli. Le tue mani sui fianchi e i nostri occhi persi nello stesso universo. Il tempo ora sembra respirare piano, lento e quasi sottovoce bisbigliano i nostri sguardi, incatenati a un istante e avvolti nello stesso abbraccio.
È quello che cerchiamo per tutta la vita, il senso degli eventi, le pulsazioni dell'anima, l'infinito che ci aspetta. Un attimo di equilibrio nella stessa vertigine.
 
Il giorno ha già spento la luce.
La CocaCola è oramai attaccaticcia e disgustosa. I resti di formaggio solidificati sono abbandonati nei piatti macchiati di fredde chiazze di pomodoro e la musica di un violino stonato di un viandante cieco si posa come nebbia trasparente sui tetti della città.
La gente è scomparsa, i tavoli sparecchiati, e i camerieri escono di scena come inutili attori senza più maschera, nel buio caldo dell'estate...
 
Riapro gli occhi mentre si avvicina il domani.
Dormono i fondali del mare. Svanisce la luna.
Qualcosa vola nel cielo. E tu sei ancora con me.
Ti immergo nel caos ingarbugliato di una città allagata dal primo temporale estivo e respiro la felicità ancora senza nome di un'emozione che vorrei trattenere intatta dentro di me per sempre.

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 Ins. 17-08-2004