Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Vincenzo Napolitano
Con questo racconto ha vinto il settimo premio del concorso Città di Melegnano 2002, sezione narrativa

Il guardaroba di Noè
 
Un'introspezione casereccia, arricchita dal bagaglio d'esperienze che l'età, a saldo stagionale, regala, mi ha dato la consapevolezza di essere per molti versi più un Noè che un Prometeo.
Non rifiuto le proiezioni in avanti ma godo nello stipare nella mia arca, ricordi, emozioni o avvenimenti, anche tutto quello she sembra a prima vista insignificante, perché confido che prima o poi torni utile. È una regola di vita che mi porto dietro da sempre. È la targhetta di riconoscimento mia e credo dei miei coetanei.
La mia generazione, quella immediatamente dopo la guerra, ha nel suo DNA un anticonsumismo istintivo; siamo cresciuti in famiglie dove non si buttava via niente.
Il riciclaggio, il concetto di riciclaggio attuale, non ci ha colto affatto di sorpresa.
Negli anni quaranta, cinquanta e sessanta il problema dello smaltimento dei rifiuti era ultrainesistente.
Già nelle nostre case c'era un pudore atavico nel disfarsi di qualsiasi oggetto che sembrava dovesse aver esaurito la sua carica d'utilità ma quando questo accadeva c'era sempre qualcuno che riciclava il riciclato in un processo concentricamente infinito.
Ricordo in casa quelle scatole di latta dei cioccolatini (di rigore quelli floreali di Gay Odin) utilizzate per conservare spezzoni di spago, gomitolini di lana, bottoni d'ogni tipo e tante cianfrusaglie che prima o poi si svuotavano della specificità dell'utilizzo primordiale per rivelare una nuova vigoria nell'adattamento successivo.
Eravamo ben lontani dall'era del consumismo più sfrenato ed anche con l'ausilio di una manualità particolarmente esercitata e stimolata dal bisogno di salvaguardare un bilancio domestico precario si allertava la fantasia per la soluzione dei quotidiani problemi casalinghi via via affioranti.
L'acquisto per la sostituzione era in definitiva l'ultima ratio.
All'occorrenza si rovesciava sul tavolo il contenuto delle magiche scatole e si cercava il chiodino, il bottone o lo spaghetto da riutilizzare.
Non c'era niente che non si riciclasse: in primis il vestiario.
E nessuno se ne vergognava.
Era una concreta possibilità di affrontare gli eventi con dignità.
Con questa finestra sul modo di vestire, sul suo successivo evolversi ed ai suoi intrecci con circostanze ed avvenimenti che si riesce anche a ricostruire un percorso.
Ricordo ancora il cappotto grigio scuro di mio padre rivoltato come un guanto che, con gli opportuni aggiustamenti, divenne il primo cappotto "importante" della mia vita.
Inizialmente talmente maxi da costringermi ad imitare quel gesto di sollevamento delle gonne, tipico delle suorine della mia scuola quando scendevano le scale, ma scientemente progettato per accompagnare per un quinquennio almeno il mio celere sviluppo fisico che avrebbe altrimenti reso immediatamente inadeguato un cappotto rigenerato con misure esatte.
Come non citare, poi, quegli scarponcini indistruttibili di classica matrice militare che dopo aver contribuito alla guerra principe del millennio mi erano stati assegnati d'autorità e mi avevano accompagnato per un triennio segnalando con anticipo la mia rumorosa presenza e terrorizzando nei tackles gli avversari nelle interminabili partite a pallone della "campagnella"?
Per le scarpe poi ogni considerazione estetica che cozzasse contro una indubbia e collaudata resistenza all'usura era bandita a priori. Nell'affannosa ricerca di qualsiasi escamotage che potesse contribuire alla quadratura del bilancio familiare, già pesantemente compromessa da un atteggiamento di rivalsa postbellica proiettato ad una sana e corposa alimentazione, non di rado io e mio fratello eravamo vestiti con abiti identici.
La scoperta nei mercatini o nei fondi di magazzino di scampoli economici di stoffa di una qualche entità poteva decidere le sorti del nostro comune abbigliamento.
Le ultime cinque matasse di lana del bottegaio potevano rappresentare un affarone?
I maglioncini, naturalmente stesso modello, fatti in casa con quella lana erano divisi equanimemente tra noi due.
Per anni persino i nostri costumi da bagno, ne rammento le bretelline e la pesantezza una volta immersi, occupavano lo sferruzzare invernale.
Ed il vestire allo stesso modo non poteva che generare equivoci.
"Si, sono gemelli!", mia madre era arcistufa di quella domanda che le era rivolta ad ogni pié sospinto.
Eravamo due fratelli, infatti, con un anno di differenza ed una struttura fisica per molti versi simile tanto da indurre al dubbio.
Poiché vivevamo al Sud nessuno resisteva alla curiosità di poterlo sciogliere.
Dapprima mia madre si era affannata a descrivere lo stato anagrafico reale ma poi si era arresa di fronte al reiterato ripetersi del quesito ed aveva escogitato il sistema per troncare sul nascere la discussione: "Si, sono gemelli!"
Non che non le piacesse parlare, cercare il contatto con gli altri, tutt'altro, ma le piaceva fiondarsi con la sua fantasia significativamente napoletana sugli avvenimenti, arricchire con coloriture ed humor il racconto di una realtà che ai più appariva sbiadita cogliendone tra le pieghe aspetti insoliti o umoristici ed inaridirsi nel riaffermare solo le banalità la infastidiva.
E per anni siamo rimasti ufficialmente due gemelli.
Non ci piaceva ma avevamo ben pochi mezzi per opporci.
Tra me e mio fratello corrono tredici mesi di differenza e, dalla sua nascita, una competizione ad oltranza originata da gelosie e desiderio di prevalere.
Questo faceva sì che, senza mezzi termini, coltivassimo con costanza le potenzialità omicide che due adolescenti potevano permettersi.
Avevo due anni, infatti, quando tentai di liberarmene spingendolo per le scale e lui si rifece con gli interessi qualche anno dopo con un tentativo d'annegamento, quasi più consapevole, nelle acque di Acquamorta (la spiaggia di Monte di Procida) riuscendoci quasi.
Ma dopo questi maldestri tentativi, rassegnati alla coesistenza, ci siamo impegnati al massimo perché quel "Sono gemelli!" con tutte le implicazioni relative suonasse come una frase blasfema e lontanissima dalla realtà.
Una battaglia difficile perché nel frattempo continuavamo a procedere tra riciclaggi e scampoli convenienti in perfetto parallelismo formale con abiti nel migliore dei casi simili ed inoltre con la possibilità fisica di scambiarceli.
Pantaloncini di velluto marrone, camicetta bianca e gilet verde pisello, per esempio; alle cerimonie, le foto ufficiali certificano, questa era la nostra divisa da festa.
Pantaloncini anche con i capricci invernali e con la solita nevicata quadriennale.
Fino a che...
Sì, perché ad un certo punto fecero la loro comparsa i pantaloni alla zuava.
E non per un capriccio della moda o per un'esigenza climatica. Non c'era alcuna motivazione estetica all'abbraccio con quest'indumento classicamente sassone.
La moderna Saticula non echeggiava atmosfere Gallesi nonostante l'estensione dei verdi parchi reali ed il golf non era certamente lo sport che occupava i nostri pomeriggi.
Continuavamo, infatti, nonostante ed a dispetto di quegli strani pantaloni, che martoriavano con i loro elastici i nostri polpacci, a tirar calci ad improbabili palle realizzate con stracci racchiusi in calzini riciclati.
Erano piombati improvvisamente nel nostro guardaroba e fummo costretti a subirli senza aver la possibilità di un minimo di contestazione (a stroncarla sul nascere bastava uno sguardo, severo come da copione).
Divagando e a questo proposito per anni sono stato convinto che ci fosse un'apposita scuola che insegnasse a roteare la pupilla con quella fredda severità paterna e magari, prima o poi, avremmo dovuto frequentarla, una specie di corso prematrimoniale, per avere un diploma di genitori in pectore. Erano comparsi dal nulla quei goffi pantaloni alla zuava e solo qualche anno dopo n'avevo scoperto il recondito motivo.
Frequentavo una scuola cattolica ed i nostri genitori erano stati convocati ad una delle riunioni consuntive mensili di quelle, per intenderci, dove si ripeteva la solita frase: "È intelligente ma svogliato. Potrebbe fare molto di più...", ed in quell'occasione il direttore ieratico aveva sfoderato il divieto dei calzoncini corti per tutti gli alunni.
Insomma, per farla breve, quelle nostre gambette nude avrebbero potuto scatenare la libido e provocare desideri morbosi in quell'ambiente clericale ingessato nel vincolo della castità.
I pantaloni alla zuava: come le foglie di fico sui capolavori Cinquecenteschi...
Era vero che con cadenze ravvicinate l'unico comandamento che era ricordato era quello riguardante gli atti impuri ma nessuno si era preoccupato di informarci di cosa si trattasse.
Sapevamo solamente da una minaccia angosciante della nostra possibile cecità.
"Voi capite a cosa mi riferisco!"
E chi aveva il coraggio di assicurargli che oltre a non capire vivevamo nel continuo terrore del buio assoluto senza sapere quale scellerata azione non avremmo dovuto compiere per salvaguardare i nostri nervi ottici?
Io, prototipo nella media, a nove anni avevo atteso in giardino, con i pantaloni alla zuava, scrutando il cielo e nascosto in un gabbiotto disattivato per allevamento di galline, l'arrivo inevitabile della cicogna (che sicuramente passò poi dal resto...) il mattino che mia madre partorì, in casa, il terzogenito. Nonostante le precauzioni però qualcosa di torbido dovette ancora accadere nell'Istituto facendo scattare l'inevitabile repressione con l'allontanamento, in tempi diversi ed improvvisamente, di professori sostituiti da altri anche in corso d'anno mentre alcuni alunni si trasferirono alle scuole statali ed il tutto ovviamente tra cortine fumogene e completa omertà.
Noi però continuavamo a pascere ignari nella nostra ignoranza, paludati alla zuava, ed a non essere allertati...
L'ho ritrovato quell'indumento solo qualche anno fa in occasione delle vacanze estive in montagna.
In quella circostanza, per inserirmi meglio nel contesto, mi travesto da alpinista con i miei scarponi, camicia di flanella classica, zainetto e pantaloni alla zuava stavolta di velluto.
Accuratissima preparazione per poi percorrere a piedi i miei trecento metri in falsopiano ed ignominiosamente ma molto comodamente stravaccarmi sull'invitante verde prato a leggere il giornale...
Rientriamo ora cronologicamente nel percorso.
Dovetti aspettare il Liceo per potermi permettere i calzoni lunghi ed il terzo liceo per un vestito, grigio a strisce verticali ammiccante a quelli dei boss americani Anni Trenta, con giacca e cravatta.
Naturalmente fu un vestito a doppio petto, forse anacronistico per l'età, ma che aveva il pregio di poter essere indossato anche in occasione di una certa importanza.
Quell'abito aveva caratterizzato il mio abbigliamento alle prime festicciole da ballo, tutte rigorosamente in famiglia, un passo a destra e due a sinistra sull'aria di "Moulin Rouge" in allenamento davanti allo specchio dell'armadio, anche se conservava per settimane quell'odore penetrante di naftalina quando in novembre sostituiva gli abiti più leggeri.
Si sposava, lo ricordo nitidamente, con quello di velluto marrone di Mariella, sorella di un nostro amico che portava con sé dalla nascita un odore d'antico, indossato per più volte in occasione dei suoi compleanni ed estratto solo nell'immediata vigilia dalla previdente conservazione antitarmica.
Un abito alla "Via col vento" con una qualche rigidità interna per facilitarne la campana tanto che quando Mariella tentava quello che poteva allora apparire un abbraccio più ardito, ribellandosi quasi all'assenza dei nostri, le si alzava la gonna sul di dietro.
Utilizzava, però, un tipo di naftalina che mi era familiare.
Durante un valzer dalla gonna plissettata una volta ne era schizzata via una pallina e ne avevamo riso insieme.
Naturalmente il vestito "buono" era fatto su misura da un sarto che godeva d'ottima fama.
Alto, imponente, assumeva un'aria altamente professionale durante la prima misurazione e le successive prove con quegli occhialini sul naso e quel dischetto bianco-grigio di gesso che piroettava alla ricerca dell'imperfezione da correggere.
La prima volta che all'improvviso si piegò sulle ginocchia e guardandomi dal basso verso l'alto mi chiese a bruciapelo: "Dove lo porti il disturbo?".
Non capii, diventai rosso ma non capii immediatamente a cosa si riferisse.
Rimasi un attimo indeciso anche perché se si riferiva a quello che impudicamente pensavo lui pensasse non l'avevo mai annoverato fra i disturbi di cui soffrivo e poi sopravvenne l'angoscia.
Non avevo mai notato a dove riponevo il "disturbo"; m'infilavo i pantaloni e basta.
Incominciai a riflettere ma senza alcun risultato e la risposta a questo punto avrebbe dovuto essere: "Non lo so", ma ne andava della mia dignità.
Se me l'aveva chiesto così repentinamente era normale e doveroso che avessi fatto ricerche approfondite in proposito.
Non potevo non aver studiato il fenomeno anatomico ed allora risposi dall'alto verso il basso: "A sinistra!".
E quel pezzetto di gesso tracciò un segno di moltiplica laddove avevo indicato.
Mi sarei adattato, sì, mi sarei senz'altro adattato ma non potevo certo smentirmi perché mi era venuto il dubbio o quasi la certezza, subito dopo, che avrei dovuto indicare la destra e siccome il futuro dei miei vestiti su misura non c'era dubbio sarebbe passata da quelle mani, ed i sarti bravi non dimenticano!, mi sarei trovato per anni il "disturbo" dalla parte sbagliata.
La notte mi svegliai di soprassalto e le mani corsero a verificare la posizione che... a sinistra, era a sinistra... ma quando analoghe constatazioni portarono a conclusioni diversificate dedussi d'essere ambidestro e finirono gli incubi. Ci ritrovavamo alla fine degli anni cinquanta ed avevo cominciato ad ascoltare il genere musicale che vedeva protagonisti Sinatra, Crosby e Perry Como che poi condusse un suo show in TV.
Cominciai ad innamorarmi del loro modo di cantare e di vestire, anticonvenzionale ed elegante allo stesso tempo.
Mi era rimasta impressa una giacca luccicante, io l'avrei preferita senza lustrini, molto più lunga del normale e con un solo bottone che costituiva la "divisa" della Voice.
Si appressava l'epoca di una ritoccatina al guardaroba e discretamente cominciai a proporre in famiglia una simile eventualità.
Il no reciso della prima ora cominciò nel tempo ad ammorbidirsi sino ad arrivare alla conclusione che si sarebbe chiesto il parere tecnico del sarto.
L'addio mentale era di prammatica poiché mai e poi mai da quella sartoria sarebbe uscito un vestito non tradizionalmente testato ma dopo un rinvio dettato dall'indisponibilità fisica del "mago del doppio petto" ed il successivo annuncio del suo ritiro dall'attività per artrosi si dirottò su di un'altro sarto emergente.
Fu un successo, ne aveva già confezionate almeno tre di quelle giacche..., e quando andai a ritirarla l'indossai immediatamente facendo il percorso sino a casa ondeggiando come avevo visto fare dai miei idoli e fischiettando un motivetto swing.
Fu la prima e l'ultima volta che l'indossai.
Quella stessa sera mio fratello era stato invitato ad una festa di ballo in una casa della Napoli bene e trafugò letteralmente, lo facevamo per la verità sovente entrambi, la giacca-simbolo.
Ed avvenne l'imprevedibile.
Si era ubriacato per la prima volta e se ne vergognava tanto da vomitare, nascondendo la testa nella giacca, nel suo taschino interno.
Ce lo portarono a braccia ed io già impallidii vedendolo con indosso quell'indumento ma non mi accorsi dell'inghippo.
Al mattino successivo un odore nauseabondo mi portò fino al mio sospirato indumento sul quale spiccava crudelissima una vistosa macchia rossiccia.
Tetragona a qualsiasi tentativo di smacchiatura rimase per qualche tempo, non riciclabile, sull'appendiabiti dell'ingresso consentendomi ad ogni ingresso od uscita di casa un solido rimpianto all'eliminazione tentata e mancata nell'infanzia.
Primo ed ultimo vagito di personalizzazione senza la rituale coercizione di fattori esterni.
Ci pensò infatti subito il servizio di leva a ripristinare l'indirizzo primordiale.
Nei primi giorni del Corso ufficiale ci fu l'inevitabile "vestizione".
Avemmo in dotazione il corredo militare che in qualche modo si adeguava alle nostre caratteristiche ad eccezione di un maxi cappotto che costituì un caso simbolo di burocrazia surreale.
A me ed a due altri commilitoni furono assegnati gli ultimi cappotti disponibili che molto probabilmente corrispondevano alle proiezioni statistiche della fornitura che prevedevano in ogni plotone almeno tre coscritti d'altezza superiore al metro e novanta.
Ed in quello scaglione quei tre non c'erano.
Così le nostre elefantiache palandrane solleticavano il terreno e le suole dei nostri anfibi.
Rascel con il suo corazziere ne aveva fatto una macchietta ma noi ci esibivamo dal vivo con simili risultati d'ilarità.
Ci era stato impedito di presentare ricorso ad un sarto per un adattamento poiché il regolamento disponeva che il timbro della fornitura militare non potesse essere rimosso e lo stesso faceva bella mostra di sé proprio sul fondo della parte interna.
Fortunatamente in possesso di una buona dose d'autoironia ed ormai inseparabili ci presentammo per alcuni giorni, l'ora della libera uscita, per l'abituale rassegna dall'ufficiale di picchetto, cui malcelati moti d'ilarità rischiavano di compromettere l'aplomb tradizionale, che sistematicamente ci ricacciava in camerata senza peraltro fornire una motivazione plausibile in termini di regolamento.
Routinariamente e consapevoli della situazione pirandelliana chiedevamo di essere messi a rapporto dal colonnello comandante che, non faticando ad identificarsi col personaggio della commedia ormai in scena, ci leggeva il paragrafo regolamentare.
Restò il fatto che per dieci giorni fummo gli unici a non aver usufruito del permesso di varcare quel cancello presidiato.
Fu, poi, il trionfo dell'ipocrisia a risolvere i ghirigori alienanti della burocrazia.
Mandammo da un sarto esterno alla caserma i nostri cappotti che furono bellamente accorciati senza autorizzazione ma senza l'inevitabile controllo successivo che ci saremmo dovuti aspettare.
Poi venne il posto in banca e nel frattempo poiché mi rimproverano spesso di non aver fatto il sessantotto (io credevo d'averli fatti tutti ma... può darsi...) ho bellamente evitato di intrupparmi in eskimo e similia.
Decidere, nel tempio dell'economia, di derogare al tradizionale abbigliamento d'ufficio con giacca e cravatta di stile classico sarebbe stato un karakiri ed a curare questo aspetto formale, con gli accostamenti ed i modelli dettati dalla moda, dopo il matrimonio si sono autodesignate moglie e figlie.
Ora ci pensano Valentino, Missoni od altri stilisti coordinati dal sopraggiunto comitato femminile preposto all'addobbo del marito o del babbo se la tredicesima è ricca o provvede il mercatino rionale con lo stesso comitato se c'è la ritenuta IRPEF.
Di riciclaggio, a questo punto, manco a parlarne.
Mi spariscono dintorno ed improvvisamente indumenti in cui mi sento comodo, cui magari sono affezionato, (si, lo confesso, mi ci affeziono...) con una tecnica che farebbe invidia a Silvan.
M'immagino già, spero almeno tra un cinquantennio, disteso dopo l'ultimo anelito costretto a subire l'ultimo "addobbo"...
"No, c'è l'abito nero... lo snellisce... con la cravatta rossa..."
"Rossa?... In questa occasione?..."
"Allora quella d'Armani che gli abbiamo regalato all'ultimo Natale..."
Spero proprio che non ripeschino alla fine quella giallina, quella che chiaramente mi era pervenuta dopo un affannoso giro di regali riciclati, che ho nascosto nell'ultimo cassetto.
Sarebbe, allora proprio sì, uno sfregio per l'eternità...
Insomma riciclo o non riciclo ma, scontato, un concreto filo di dipendenza estetica-formale.
Chissà come sarei apparso, esteticamente voglio dire, senza tutte queste persone che si sono affannate a decidere sul mio aspetto esteriore fidando anche sul fatto che non ne facessi una questione di fondamentale importanza?
Gianni, per esempio, lo si riconosce anche da lontano con le sue anomale giacche rosse e Achille che indossa sempre i jeans, anche al suo matrimonio ricordo, sono identificati anche per il loro modo di vestire.
È vero che l'abito non fa il monaco ma in questa società frettolosa ci sono non pochi che presumono, anche se è questo un clamoroso sintomo d'imbecillità, da un primo approccio formale di saper stilare un giudizio definitivo.
Per cui devi continuamente fare i conti con frasi del tipo: "Non avrei mai pensato che tu..."
Che dire poi del fatto che le motivazioni dell'ingerenza siano sintetizzate dalle frasi del tipo: "Se ti lascio (o ti lasciamo...) uscire conciato in questo modo la gente cosa penserà di me?"
Di lei, kafkiano, o di loro, non di me che esco concitato secondo i loro gusti...
In balia di quest'insonnia che mi accompagna da qualche tempo rimugino una soluzione-escamotage che mi era familiare un secolo fa...
Da pensionato, ricorrere ai miei trucchi da ragazzino quando di nascosto andavo a giocare a pallone: nascondere i panni nello sgabuzzino e cambiare identità appena fuori dall'uscio.
"Lo vedi quello? è un pensionato e si veste da ragazzino!"
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 Ins. 10-01-2003