Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Wilma Avanzato
Con questo racconto ha vinto il secondo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«Delfina dei cappelli»


Il sole spento di dicembre comincia a filtrare attraverso il piccolo abbaino della mansarda sotto ai tetti del vecchio e maestoso palazzo comunale, ed ecco che la Delfina dei cappelli si sveglia. È un risveglio sereno e senza pensieri il suo, da tanti anni ormai. Si guarda intorno e si stringe ancora stretta stretta sotto alla montagna di stacci luridi che sono le sue lenzuola e le sue coperte. Accidenti che freddo! La donna scorge i timidi raggi di sole che fanno capolino ai vetri opachi della finestrella. È un sole che brilla poco e scalda anche meno. È il sole dell'inverno.
La stufa a legna, avuta in omaggio da chissà quale anima pietosa, è sempre spenta in quella specie di casa. Non ci sono soldi per la legna, ma tanto non serve perché la Delfina sta lì dentro la notte, solo per dormire. È in un letto ci si può coprire, per fortuna. Più fa freddo e più aumenta l'altezza della montagna di pezze, coperte e indumenti smessi che le suore del convento di Santa Chiara mettono da parte per poi darli a lei. E lei prende tutto con molta dignità e ringrazia... Non si sa mai... meglio averne di roba, perché possono sempre tornare i tempi grami.
La Delfina si alza non senza fatica, vecchia e grassa com'è, dall'ammasso informe che lei chiama letto. È già vestita. Ha indosso due lunghe gonne, una sopra l'altra, una marrone e l'altra a grossi quadri blu e grigi. Quest'ultima è scucita su un fianco. Sembra uno spacco voluto da una sarta audace... ma non fa niente. Dalla vita in su ha due maglioni infeltriti e dai colori molto sgargianti ed un golfino nero, aperto sul davanti, a cui mancano quasi tutti i bottoni. Nei piedi invece ha calze molto spesse, in lana, color rosa carne. Queste non gliele hanno date le suore, no. Gliele ha regalate la signorina Francesca che fa la commessa nel negozio di calze e biancheria per signora giù all'angolo tra via Carducci e piazza Mazzini. Com'è stata carina la signorina Francesca: l'ha chiamata dentro al negozio, non sul retro o nel cortile interno, come fanno tutti gli altri negozianti che un po' si vergognano di lei, e le ha spiegato che la padrona le regalava tutte quelle calze lì perché sono oramai fuori moda, di un colore che non va più. Strano, ha pensato la Delfina, il rosa carne fa tanto elegante e qualunque donna di classe deve avere nel suo guardaroba un bel paio di calze di quel colore, perché con la scarpa nera decolleté è proprio un incanto. Ma su quelle calze la Delfina non mette un decolleté con tacco a spillo, no, mette gli stivaloni grigi con pelo finto dentro. Tengono il piede tanto caldo, sono una mano santa almeno sei mesi l'anno. Poi, va vicino alla specchiera tutta rovinata dal tempo e dall'umidità (ma la Delfina ha l'occhio allenato e riesce a vedersi benissimo attraverso tutte quelle macchie), e ad uno ad uno prende dal piano del comò dove li ha appoggiati la sera prima, i suoi otto cappelli. Mentre ammira la sua immagine riflessa, la sua chioma grigia e spenta, fatta di capelli spocchiosi e pieni di nodi che sembrano un nido, adagia sul capo, con una cura maniacale e in una sequenza matematica perfetta, dal più piccolo al più voluminoso, i suoi otto cappelli. Ciascuno di essi, bello o brutto che sia, è un autentico testimone di un'epoca, di una moda, del tempo che fu, con la veletta o senza veletta, con la visiera o senza visiera, di velluto, di pelle, di paglia, di stoffa, sono tutti insieme l'accessorio assolutamente indispensabile. Senza i suoi cappelli la Delfina non si sognerebbe mai di mettere piede fuori dalla sua mansarda. Perché sua madre lo diceva sempre: una signora non è una vera signora (e aggiungeva quel "diffidate dalle imitazioni"... chissà da dove l'aveva preso...?!) se non ha in testa un bel cappellino adatto all'occasione. E per essere sicura di non sbagliare, lei ogni mattina li indossa tutti e otto... che con questi tempi moderni mica si capisce più qualcosa...!, la moda è proprio pazza... scuote la testa sconsolata la Delfina.
Per la verità, fino ad un po' di tempo fa di cappelli ne aveva nove. Poi, un giorno chissà quando e chissà come, ha perso quello più bello, quello blu scuro, piccolo e vezzoso con la veletta che sarebbe piaciuta tanto alla regina Elisabetta d'Inghilterra. La sera, togliendoseli dalla testa, la Delfina ne ha contati soltanto più otto, e quello lì, tanto carino e grazioso, non c'era più. C'è rimasta proprio male. Ha pianto due giorni interi senza uscire di casa e poi, a causa della fame, proprio fame e non semplice appetito, si è decisa ad uscire con in testa solo gli otto cappelli sopravvissuti. Sì, perché la Delfina esce tutti i giorni e va a racimolare il cibo che le serve per quel giorno stesso. Non nella spazzatura eh, intendiamoci, lei è una vera signora, qualche volta dice di ricordarsi di essere stata una principessa. Lei va di bottega in bottega, ma non passa dalla porta come tutti i clienti. I commercianti la conoscono già, tutti in paese sanno chi è la Delfina dei cappelli, e l'aspettano nei cortili interni dei loro negozi.
Il panettiere le dà il pane del giorno prima, il salumiere qualche fetta di salame o di prosciutto dentro la carta oleosa, il fruttivendolo due mele, un mandarino, una banana, un grappolo di pomodorini... Lei si schernisce, basta, basta, dice, che sono sola e mangio poco e niente, ma poi allunga quelle sue mani sporche e rugose e afferra tutto prima che l'altro cambi idea.
Quando ha fame, la Delfina, d'estate come d'inverno, si siede su una panchina del viale, sempre la stessa, apre le sue buste e le sue carte e mangia con le mani. Tutto crudo. Addenta i pomodori succosi con avidità e il succo rossastro le sbrodola giù agli angoli di quella bocca che sembra senza labbra. Mangia le fette di salame in un unico grosso boccone, incurante del budello intorno, anche quando è sintetico. Butta giù tutto come se il cibo potesse scomparire senza un motivo e da un momento all'altro. Se arriva nel viale e la "sua" panchina è già occupata, comincia a brontolare e a prendere a male parole gli occupanti, puntando inquisitore il dito indice. È contenta e soddisfatta solo quando riesce a farli andar via. Eh insomma, ha anche ragione: mica si può occupare così il "tavolo da pranzo" della Delfina dei cappelli. Tace e anzi sorride solo se, seduta al suo posto, c'è una coppia di innamorati. Davanti all'amore la Delfina si intenerisce, si commuove. Poi, dopo aver mangiato da re (perché lei risponde sempre così a chi le chiede se ha mangiato bene: "Oggi ho mangiato da re"), anche se ha sbocconcellato soltanto una pagnotta di pane raffermo, la Delfina va in stazione e guarda passare i treni. Non perde mai d'occhio i convogli in arrivo. Osserva con occhio attento tutte le persone che scendono, soprattutto i giovanotti. Poi, immancabilmente, scuote la testa. Dice a se stessa: «Anche oggi Herbert non c'è. Tornerà domani».
La Delfina dei cappelli non è sempre stata così. Non è nemmeno mai stata una principessa, come qualche volta racconta.
Non lo fa per darsi importanza. Lei racconta quello che vagamente ricorda di un passato che fino ad un certo incontro è stato bello. E ricorda anche, forse, che suo padre, da bambina, la chiamava "la mia principessa".
La Delfina si chiama Enrica Delfina Petrini, e in famiglia l'hanno sempre chiamata Enridelfi. A scuola la sua amica Carla Mastrangelo le ripeteva spesso che quel nome era particolarmente bello ed importante ma a Delfina non piaceva un granché. Le sembrava un nome vecchio. Avrebbe preferito di gran lunga chiamarsi Carla, come l'amica, oppure Marisa che era un nome che andava tanto di moda in quegli anni. È figlia unica del fu notaio Egisto e della fu maestra di pianoforte Annarita Bongiovanni ed è cresciuta davvero come una principessa, in una casa bellissima dove ogni suo capriccio per i suoi genitori e la sua tata era assolutamente un ordine.
Fu un capriccio anche Herbert, l'ufficiale tedesco di cui, nel lontano 1944, Delfina, giovane e bellissima ventenne, si innamorò?
Ormai nessuno se lo ricorda... Ma, finita la guerra, Herbert tornò senza troppi scrupoli nel suo Paese. Pare avesse promesso di scrivere, di ritornare presto dalla giovane amata per sposarla ma... mai più nessuno lo vide, più nessuno ebbe ancora sue notizie.
La giovane Enridelfi cominciò a recarsi ogni giorno in stazione e ad osservare con occhio attento i treni in arrivo. Ogni sera tornava a casa sempre più triste e pian piano perse ogni ragione di vita. Per la mamma era uno strazio continuo vedere quella figlia bella ed amata spegnersi come una candela... finché un giorno...
Finché un giorno la candela si riaccese, di rinnovata speranza, di fiducia inattaccabile verso l'amato Herbert. Quanto a tutti era ormai chiaro che l'ufficiale tedesco, per scelta sua o del destino, non sarebbe mai più tornato tra le braccia del giovane amore italiano, Delfina cominciò a vivere la sua nuova vita fatta di sogni, illusioni, speranze. Tutte le mattine si alzava di buon'ora e si vestiva come se dovesse partecipare ad un matrimonio, con un bel cappellino elegante a completare il suo ricercato abbigliamento. Poi usciva e cominciava a vagare per il paese. Camminava saltellando, felice come una bambina che sta andando a comperare il gelato. E a tutti quelli che incontrava diceva: «Che bello! Che bello! Oggi torna il mio Herbert! Oggi torna il mio Herbert!», e ancora:
«Sono la ragazza più felice del mondo!». Col tempo la gente aveva imparato a conoscerla e a cullare la sua penosa illusione, anche molti anni dopo, quando più nessuno si ricordava chi diavolo fosse questo Herbert che le aveva fatto saltare qualche rotella.
Alla morte dei suoi genitori, la Delfina era ormai anch'ella una donna vecchia, se non nell'età anagrafica, nell'aspetto e nell'anima. E poiché non c'era nessuno che potesse prendersi cura di lei, le trovarono una sistemazione decorosa nella casa di riposo del paese. La Delfina acconsentì a malincuore e solo alla condizione di potersi portare dietro tutti i cappellini che avrebbe trovato in casa. Ne trovò nove.
Ma la vita nella casa di riposo si rivelò molto diversa da come la donna aveva immaginato. E lei no, non ci poteva mica resistere senza uscire ogni giorno per correre alla stazione ad attendere l'arrivo dell'amato! Senza contare che la Pinuccia, un'inserviente acida come un limone, le ripeteva spesso: «Eh, cara mia! Non mi dire che credi ancora a quella grandissima frottola che si chiama amore... Va là!, svegliati, che magari il tuo Herbert è già persino morto! ». La Pinuccia parlava per esperienza e per rabbia, tradita dalla vita com'era stata... con un marito che l'aveva abbandonata con quattro figli ancora da crescere ma... ma la Delfina dei cappelli non poteva sapere e soprattutto la sua testa malata non avrebbe potuto capire. Così ci restava male ogni volta e piangeva e piangeva e piangeva. E un giorno, stanca di sentirsi prigioniera senza catene, la Delfina eluse senza troppi problemi la sorveglianza di infermiere ed inservienti e finalmente poté correre alla stazione.
Quella sera non fece ritorno. E alla casa di riposo non ci tornò mai più. Cominciò così la sua vita da "barbona di lusso", come la chiamano in paese, un po' per le sue origini piuttosto altolocate e un po' perché, in fondo, la Delfina un posto dove stare e dove dormire ce l'ha. Glielo ha offerto il Sindaco del paese, una decina d'anni fa. La mansarda, sotto i tetti del palazzo comunale. La Delfina dei cappelli si sente importante. Adesso dice anche di essere la custode del Municipio e aggiunge: «Chissà come sarà orgoglioso il mio Herbert quando lo verrà a sapere...».
E trascorsa un'altra giornata. È inverno e diventa buio presto. Fa molto freddo e, nonostante le calze spesse rosa cipria e gli stivaloni con dentro il pelo fino, la Delfina dei cappelli ha i piedi freddissimi. Piano piano fa ritorno, con passo lento e silenzioso di chi in fondo non vuole disturbare, verso la sua mansarda. Incrocia una giovane mamma che tiene per mano il suo bambino di pochi anni tutto nascosto dentro al pesante cappotto. Il bambino guarda con occhi sgranati la Delfina e dice: «Guarda mamma! La befana!». La mamma lo sgrida. Gli dice che è un maleducato. E il bambino non si scompone, sorride alla "sua befana". Anche la Delfina sorride e non capisce perché quella mamma si sia arrabbiata col suo piccolo. Lei è contenta di essere riuscita a farlo sorridere. Cosa c'è di più bello del sorriso di un bambino? Si avvicina al piccolo e allunga una mano per fargli una carezza. La madre lo tira indietro di scatto e grida alla Delfina: «Vada via! Se ne vada immediatamente!». La Delfina scuote la testa e mestamente si allontana. La gente è strana, pensa, valla a capire! Il panettiere, mentre sta abbassando la serranda del suo negozio, vede tutta la scena. Va vicino alla Delfina e le dice: «Lascia perdere! Non te la prendere. E buon anno nuovo».
«Perché buon anno?», domanda incuriosita la Delfina.
«Perché oggi è l'ultimo dell'anno! Auguri». «Auguri», risponde la donna poco convinta. Arrivata alla sua mansarda guarda il calendario appeso ad una parete. È fermo sulla pagina del mese di settembre. Pensa che il panettiere si sia sbagliato. Anche se fa piuttosto freddo per essere solo settembre, eh! Non ci sono più le stagioni... dice tra se'. Non si accorge neppure che quello è un calendario dell'anno 1994, vecchio di quasi un decennio. La Delfina si stende, vestita com'è, sul suo lettuccio di stracci e in pochi minuti si addormenta. È mezzanotte in punto quando viene svegliata di soprassalto dai botti di fine anno. Festosi fuochi d'artificio illuminano la fredda notte del 31 dicembre.
La Delfina dei cappelli si alza. Cerca di vedere cosa stia succedendo attraverso l'abbaino ma non ci riesce. Poi, improvvisamente, capisce. È tutto chiaro. Si mette le mani tra i capelli. Trema. Ha paura: il suo Herbert è un militare! Vuoi vedere che lo fanno partire un'altra volta? E lei come farà di nuovo sola?, senza il suo uomo? E se Herbert non dovesse rincasare più?
La Delfina dei cappelli torna sconsolata nel suo lettuccio di stracci e si rannicchia come un cucciolo. Congiunge le mani e volge pietosi gli occhi al cielo. Riesce soltanto a sussurrare: «No, Signore ti prego!, Un'altra guerra, no!!».

Wilma Avanzato


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