- La poesia di Sergio
Corazzini è il canto di una breve stagione,
di un poeta fanciullo, di un angelo della
morte scomparso a soli ventun'anni: un poeta
vissuto il tempo d'un battito d'ali eppure capace
di fissare per sempre nelle sue liriche la sua
vicenda terrena, il suo "povero piccolo
sogno".
- Pare di averlo davanti a
legger le parole del "grande fratello" Corrado
Govoni: «Il povero indimenticabile Sergio lo
vedo sempre come a vent'anni, con quella sua
andatura incerta, a corto respiro come il volo
dell'allodola prima di prendere quota, o come
quella di una bella ragazza troppo ammirata: con
quella sua bella faccia un po' reclina, gli occhi
sorridenti, e la voce così soave e calda in
quella bocca sensuale...». E poi l'amico
Alfredo Tusti che offre una fedele immagine del
poeta «un giovane dal volto pallido, la fronte
chiara con la ciocca di capelli bruni sulla tempia
destra, la bocca tumida e rossa e gli occhi pieni
di bontà e di festa». E infine valgano
come ultima testimonianza le parole di Marino
Moretti che ricorda l'incontro con Sergio Corazzini
avvenuto nel 1906, circa un anno prima della morte:
«Entrò elegantissimo, un po' con l'aria
di entrare in scena, se ben col sincero proposito
d'abbracciare un fratello mai visto: giovane
d'appena vent'anni, bello, prestante, aitante e
tuttavia con qualcosa di vecchio nella figura e
negli sguardi errabondi, candido e insieme
letterario nell'espressione... Confidava che stava
per morire con una leggera effervescenza
letteraria, sì che non pareva, dopo tutto,
ch'egli dicesse e facesse sul
serio...».
- Ecco la nascita del mito
di Corazzini: le pose forzate da poète
maudit, la faccia del bel ragazzo tra demonio e
santità, candido e sensuale, dandy
dall'aria viziosa, ricercato nel vestire con
cappelli a larga tesa e cravatte a papillon
nonchè la fama di accanito bevitore di
Pernod.
- Sergio Corazzini pare
avere intorno a sé un alone di martire, di
vittima predestinata fin dall'inizio, fin dal suo
primo contatto con una vita crudele costellata da
delusioni e assai lontana dall'immagine
dell'adolescente fantasticante e sognatore:
obbligato ad abbandonare gli studi a causa delle
difficoltà economiche in cui versa la
famiglia per colpa di errate speculazioni in borsa
da parte del padre; costretto a lavorare come
impiegato per una compagnia assicuratrice in uno
squallido ufficio nell'ammezzato di una vecchia
casa; un ragazzo con tanti sogni nel cassetto
eppure imprigionato e relegato ad un lavoro oscuro,
"senza amore e senza scopo"; giovane malato di
tubercolosi con la morte come compagna sempre
accanto. Povera giovane vita destinata ad essere
spezzata dall'inesorabile male e i ripetuti e
ossessivi accenni alla morte, nelle sue liriche e
nelle sue lettere, sono lo specchio fedele d'un
poeta che "ancora vive" ma si sente già
vittima del nefasto destino.
- Quelle famose parole
«ora, per morire bisogna pur che viva...»
accompagnate dalla lenta malattia delle
lacrime sono la spietata chiusa di un'amara
considerazione sulla propria esistenza: «Tutta
la dolce, rassegnata tristezza della mia vita
è in un pensiero di morte. La dedizione del
mio corpo al Nulla o al Tutto, secondo l'ora che
passa, si intensifica in un desiderio così
folle e così enorme come se nella cessazione
della mia esistenza io intravedessi ciò che
tiene gli occhi del prigioniero, rimasto per un
caso, privo di sorveglianza. E questa voglia di
morire è, talvolta, dolce come il bacio
dell'amata, come il primo bacio... Io mi sento,
allora, grande, o più che grande, vecchio e
tenero come un nonno... E mi sento buono
follemente, poichè la morte è
un'amante pura come la libertà... Io mi
sento forte e sano, provo disgusto di me medesimo e
voglia intensa di piangere... E quando ho pianto,
la lenta malattia delle lacrime mi penetra tutto,
stilla sull'anima mia, simile a rugiada malata
sopra una corolla disfatta, e la grande, l'usata
tristezza mi ha nuovamente. La mia vita sarà
senza dubbio di assai breve durata e me ne
andrò, forse un giorno, il giorno in cui un
incidente fatuo, in apparenza, determinerà
per sempre, la grande risoluzione... Ora, per
morire bisogna pur che viva...»
- Nella sua brevissima e
tragica carriera letteraria (la sua vita si brucia
nel giro di pochi anni, dal 1886 al 1907) comincia
a frequentare il Caffè Sartoris dove
incontra gli amici poeti: Alfredo Tusti, Alberto
Tarchiani, Tito Marrone, Giuseppe Caruso, Guido
Sbordoni e il già ricordato Corrado Govoni.
Con alcuni di loro trascorre le serate in lunghe
passeggiate sull'Appia Antica e la Salaria «a
cercar chiese fuori mano o abbandonate (come San
Saba, San Marcello, Santo Stefano Rotondo,
Sant'Urbano e via dicendo) che saranno motivo
d'ispirazione per molte liriche. In una lettera ad
un amico scriverà: "Sai quando è che
compongo delle meravigliose liriche? Allora che
passeggio, solo, per le vie più ignote di
Roma, nella notte. Canto, canto, tante cose strane,
inverosimili, che mi fanno talvolta anche piangere
un po'! Vedi se sono folle».
-
-
-
- La
sua poesia e la sua vita furono una cosa
sola
-
- Sergio Corazzini fu un
poeta desolato che con la sua voce piangente mise
sul piatto della vita i suoi ideali e scrisse
diverse volte che «desiderava solo dormire
infinitamente»; un povero cuore che seppe
andare oltre i segni sensibili delle cose e le
apparenze degli uomini costantemente proteso a
cogliere ciò che «ancora non
muore».
- Mite e sorridente, timido
e silenzioso, buono e paziente: con il suo sguardo
rassegnato, la sua voce intrisa di mestizia, la sua
fragilità «sono così fragile che
morirei vedendo morire una rondine», la sua
vita fatta di gesti quotidiani e di sentimenti
tristi quasi a limitarsi nell'intento di riuscire
a saper vivere la vita semplice delle
cose.
- La sua poesia vive in un
mondo malinconico, in una realtà
perpetuamente immersa in una desolazione, senza
possibilità di soluzione e senza momenti
illuminanti, solo muri in perenne ombra (l'ombra
corazziniana della morte vicina ancor
più tragico presagio), giardini chiusi o
chiese abbandonate che non conoscono raggi di sole
e le stesse lacrime che si fanno rugiada
malata non sono che le metafore di una lettura
del mondo che «smantella le ultime
sopravvivenze dell'ottimismo
ottocentensco».
- Il linguaggio dei
crepuscolari accogliendo la scelta di un mondo di
piccole cose, di sentimenti umili, di una
quotidianità di gesti, descrive una
realtà rimasta fino ad allora estranea alla
poesia; una rottura contro la retorica del "vivere
inimitabile" dannunziano, l'attivismo, la mitologia
del superuomo a cui si contrappone la
consapevolezza della fragilità dell'uomo:
ecco allora che vengono alla ribalta interni
cittadini, paesaggi comuni ed umili, giardini
chiusi, tristi cortili con i muri vestiti di bianca
tristezza senza nome, chiostri, chiese desolate od
abbandonate, piccole cappelle in campagna,
campanili, candelabri, odore d'incenso,
confessionali con tendine verdi sciupate,
acquasantiere come occhi lacrimosi che diffondon
stille sulle fronti degli uomini, lenti
angosciosi rintocchi di campane, e poi ancora tetre
rovine, tombe e cipressi, marmi urne e bare,
funebri cortei, vetri lacrimosi, freddi e
vani simulacri, portoni semichiusi e davanzali
deserti, torri disabitate tristi e desolate, e
infine speranze perdute, preghiere vane, sogni
infranti, inutili parole, tristi cantilene sempre
avvolte da una muta breve agonia, da una tetra
dolcezza. Le povere piccole cose nell'ombra
soffocante, chiuse le finestre e le porte, passi
silenziosi nel lungo corridoio, pianti senza fine,
inutili attese, perduti sogni pieni di una mortale
nostalgia.
- Un vasto repertorio di
immagini e di oggetti che prendon forma dalla
sonnolenta vita provinciale, tra languori e
malinconie, e passano prima dalla stanchezza del
giorno lacrimoso, dalle tristezze infinite, dai
perduti e tristi occhi rassegnati d'una buona
dolce creatura, per giungere poi
all'armamentario chiesastico crepuscolare
corazziniano e alle suppellettili del piccolo
salotto borghese gozzaniano (il pappagallo
impagliato, il busto di Napoleone, i fiori in
cornice, le scatole senza confetti, i frutti di
marmo sotto campane di vetro, acquarelli scialbi,
stampe d'un tempo, lampadari vetusti, sedie parate
a damasco e via dicendo).
- E proprio attraverso il
recupero di questo armamentario e grazie ad esso si
scopre il valore "confortatorio" di mille piccole
cose che un tempo non avrebbero minimamente
interessato.
- Fu poesia pervasa da una
stanchezza del vivere, da un disilluso ripiegamento
su se stessi, tra sofferenza e autocompianto, in
una dimensione languida, in una atmosfera
sentimentalmente desolata e dai toni malinconici
eppure i poeti crepuscolari introducono un
linguaggio nuovo nella tradizione italiana,
accogliendo le piccole cose e le semplici parole
della vita quotidiana, scelgono la ricerca di un
tono volutamente dimesso e familiare: un tono
diverso di una poesia, senza miti e senza gloria,
che chiude con la tradizione di fine ottocento, con
l'aulicità e la preziosità della
produzione dannunziana, proponendo una tematica
umile assai lontana da ogni compiacimento,
ripudiando il canto pieno a favore di un
andamento prosastico e discorsivo.
- La reazione alle forme
auliche ed eroiche di D'Annunzio, alla figura del
vate e alla retorica di Carducci avvenne con un
linguaggio volutamente dimesso. E a proposito della
poesia corazziniana così scriverà con
accento critico Emilio Cecchi: «Dei
crepuscolari, se Gozzano fu il Messia, il romano
Sergio Corazzini sarebbe stato il Battista» e,
dalla vivacità delle prime esperienze,
Corazzini passerà a ritmi languidi e
malinconici ed approderà infine ad una
espressione sfumata e cantilenante «in cui non
sopravvive che la desolata nota sentimentale ed un
vago alone musicale».
- Di certo abbiamo, da un
lato, l'umana sincerità del Corazzini seppur
con una poesia influenzata dai modelli stranieri di
Jammes e dai componimenti di Moretti e di Govoni ma
in quella sua breve e tragica stagione vi fu sempre
qualcosa di vago, di non determinato, di sterile; e
dall'altro lato troviamo invece l'abile letterato
come il Gozzano che seppe sfruttare alcuni temi e
spunti della lirica corazziniana.
-
- Eppure le prime liriche
sono in dialetto romanesco e vengono pubblicate sul
giornale satirico umoristico Marforio a cui
seguiranno collaborazioni con altre riviste romane
come Rugantino e Fracassa. Numerose
saranno le "poesie sparse" apparse su giornali e
riviste, intrise di riferimenti ed imitazioni
stucchevoli pascoliane e dannunziane. Vi
sarà comunque la volontà di
conquistare un personale linguaggio, di abbandonare
anche le tematiche e i riferimenti dei poeti
d'oltralpe che predicano la semplicità come
il Jammes (la personificazione del silenzio come
nume col quale entrare in comunione), lo
stesso enfant prématurément
sage o l'enfant divin di Guérin
che si ritroverà nell'affermazione di
Corazzini «L'anima del poeta abita nell'anima
del fanciullo», filo conduttore del Piccolo
libro inutile; i poeti intimisti come
Maeterlinck e Rodenbach (ad esempio la tristezza
evocata dal suono delle campane), la tristesses
sans cause di Laforgue, il costante tema lirico
della suggestione delle vetrate delle cattedrali e
il motivo dell'eterna "farce humaine",
l'éternel sanglot di Albert Samain:
sempre nel tentativo di giungere ad una
originalità della propria materia
poetica.
- Il percorso è breve
ma intenso quasi a svelar le cose a mano a mano, a
ridestarsi per riuscire a fissare i contorni: e le
prime raccolte Dolcezze e L'Amaro
calice non sono che le basi gettate per le
opere a seguire, forse più uniformi, come
Piccolo libro inutile e Libro per la sera
della domenica.
- Nelle "poesie sparse" le
scelte tematiche sono certamente frutto di
innegabili riferimenti e di numerose imitazioni:
l'amore come trionfo dei sensi, il binomio
amore-morte, la donna pervasa d'ineffabile mistero,
eppure tali motivi denotano già una
connotazione personale. Il pianto pascoliano, il
sole come fonte di vita e l'ombra come simbolo di
morte che diverrà sogno, i motivi decadenti
e religiosi e poi la figura femminile già si
fa donna amica, sorella, la chère douceur
delle Elégies di Jammes, la
soeur di Samain.
- Nelle liriche di
Dolcezze il motivo del sogno presente nella
poesia Acque lombarde «Acque serene
ch'io corsi sognando... su voi la sognante anima
mia/muove per suo spiritual viaggio» e poi in
Giardini «O piccoli giardini
addormentati/in un sonno di pace e di dolcezze... o
ritrovi di sogni immacolati...» sembra
già unire queste prime esperienze alle
visioni oniriche finali della famosa lirica La
morte di Tantalo.
- Il tono della confessione
sommessa, la poesia unita indissolubilmente alla
vita stessa, quella sorta di entusiasmo per la
poesia, l'atteggiamento ancora fiducioso osservando
oggetti e piccole cose: il dolore "lieve" è
ancora quello d'un giovinetto che soffre per pene
d'amore «cuor nostalgico in preda al doloroso
senso/di cercar, vanamente, per sé un amore
immenso!»
- Nella seconda raccolta de
L'Amaro calice si avverte la dolorosa
condizione dell'anima, si assiste ad un
ripiegamento sulla propria anima triste e inizia a
farsi strada quella perdita di senso della poesia
«il poeta viene a patti con la
disperazione»: è un passaggio dal sogno
al timore che al rispuntar del sole non rimanga che
un "cuore morto" ed emerge prepotente il pensiero
della morte. Il crollo dei sogni, delle vane
speranze, quel morire di nostalgia e di malinconia
in una vita semplice e umile.
- Nella successiva raccolta
Aureole, il poeta ormai è testimone
unico della crisi della propria vita e i motivi del
sogno e della speranza sono ormai "miseramente
falliti", privi di significato: la lenta morte e lo
sfacelo delle cose accompagnano l'abdicare alla
vita d'un poeta malato «io sono, veramente
malato!/E muoio un poco ogni giorno...». Il
poeta stanco, solo e perduto è paragonato
alla figura di un pellegrino, curvo e pensoso, che
cammina senza una mèta: il malinconico
destino è già segnato.
- Nel poemetto in prosa del
Soliloquio delle cose verrà poi
anticipato il motivo fondamentale del Piccolo
libro inutile: e cioé quel ripiegamento
sul silenzio "vi parlo dall'ombra e dal silenzio",
quella rinuncia alla vita quando essa non è
più in grado di procurare alcuna
gioia.
-
- Al fanciullo triste,
"sempre più piccolo, sempre più
povero", di Desolazione del povero poeta
sentimentale, non sono rimaste che misere
tristezze comuni, nel silenzio si consuma
l'abbandono alla malattia del lento morire: e la
rinuncia alla vita attrarrà anche quella
alla poesia «Io non sono un poeta./Io non sono
che un piccolo fanciullo che piange./Vedi: non ho
che lacrime da offrire al Silenzio». Il lento
morire, ogni giorno un poco, condurrà la
parola al silenzio, la parola diventerà
inutile e vana, emergerà il senso del
disfarsi delle piccole cose del
Soliloquio.
- La "vocazione" alla
propria malattia, la rassegnata sottomissione al
proprio destino nel Piccolo libro inutile e
il "sentirsi morire" di Desolazione del povero
poeta sentimentale condurranno all'estremo
sogno in una dimensione "oltre la morte" della
lirica La Morte di Tantalo: l'acqua d'oro
della fontana sfugge dalla bocca, i dolci frutti
saporosi son negati e non rimane che errare per
sempre.
- Nella poesia di Corazzini
la morte, inesorabilmente, prende il sopravvento e
la poesia scompare, poco a poco: ecco allora la
lenta eliminazione di oggetti e descrizioni
d'ambienti, la parola si riduce all'essenziale, i
versi frantumati, numerosi i rimandi e le pause: un
inesorabile umile volo verso l'astrazione. Rimane
una «povera offerta di pianti mendicati
disperatamente per le vie dell'anima» come
scrive Corazzini nella dedica sulla copia del
Piccolo libro inutile per l'amico Aldo
Palazzeschi: nient'altro che una dichiarazione
d'inutilità, d'impotenza verso la vita e la
poesia. E la stessa poesia si fa monologo
interiore, dialogo rivolto a sè, colloquio
d'anima, una confessione d'una semplice anima ormai
rassegnata «sono un fanciullo triste che ha
voglia di morire», e poi «Oggi io penso a
morir», e infine «Io non so, Dio mio, che
morire./Amen».
- Quando manca poco meno di
un anno alla sua morte non v'è ormai che un
unico approdo e la realtà appare ormai un
"pallido riflesso" nel povero specchio melanconico:
l'eterna strada del viandante e del
pellegrino sarà il sentiero della morte
perchè le speranze sono tutte svanite, la
parola è vanità di un'offerta,
nessuno ascolta, nessuno raccoglie il
pianto.
- Sono passati pochi anni
dai suoi primi versi «Il mio cuore è
una rossa/macchia di sangue dove/io bagno senza
possa/la penna...» e dall'iniziale
inscindibile connubio vita-poesia si è
passati alla fine dei sogni, al venir meno delle
speranze e delle illusioni: unico residuo la
mortale tristezza di un vano pianto. La
dichiarazione di un fallimento.
- La "lenta malattia delle
lacrime" accompagna lo sfacelo delle cose come
nella Finestra aperta sul mare e in
Soliloquio pervade i vecchi mobili, i vecchi
abiti, le morte cose: la stessa morte giunge
liberatrice, leggera e soave, in una dimensione
senza tempo dove la poesia non è più
neanche pianto ma solo silenzio.
- Sarà infine
nell'ultima raccolta Libro per la sera della
domenica che cadranno le principali tematiche
corazziniane: le cose religiose, gli oggetti
crepuscolari, i sentimenti intimi come l'amore, il
sogno, la morte, l'illusione. La poesia
perderà ogni valore e diventerà
preghiera incomprensibile, pianto ostinato e
inascoltato, liquidazione delle proprie idee. La
poesia abbandonerà ogni dignità,
annullata nel pianto, destinata al silenzio eppure
il poeta non potrà e non riuscirà a
rinunciare alla poesia e sarà condannato a
scriver versi «non morremo più... e
andremo per la vita/errando per
sempre».
- La condanna alla
"sofferenza della vita", senza neppure la speranza
nel sollievo della morte, anticipa il significato
dell'ultima lirica di Corazzini La Morte di
Tantalo, l'enigmatico testamento poetico
pubblicato postumo sulla Vita Letteraria nel
giugno del 1907, che rappresenta una condanna alla
vita nella sua eterna quotidiana tragicità:
v'è l'esistenza degli uomini con l'angoscia
profonda, il tormento di chi é preda di
inappagati desideri, la ricerca di una spiegazione
trascendente al quotidiano morire, ad una vita di
fatica, ad una vita priva di desideri che non vale
la pena vivere.
- «La sua poesia non
era se non l'ombra proiettata sul suo volto di
giovinetto esangue della morte imminente che
l'aveva in suo dominio da quando aveva cominciato a
conoscere e amare la vita» così
scriverà Fausto Maria Martini. Il pianto
della povera anima smarrita e il dolore d'un
fanciullo sovrastano tutto ed egli si rende conto
che non può superare il sofferto dramma, la
desolata coscienza di questa incapacità:
quasi una morte per troppo amore nel piccolo sogno
d'un poeta che ha amato tutti.
-
- Il fascino della poesia e
della figura di Corazzini è proprio in
quella sua struggente delicatezza, in quella
inesperienza giovanile, nella visione della vita
sovente penosa, nell'umile dolore e nella precoce
stanchezza di ogni cosa. Indubbiamente Guido
Gozzano ebbe la forza e il tempo di elaborare
integralmente la sua esperienza letteraria e quei
toni dimessi e l'umile tematica furono filtrati
attraverso una consapevolezza ironica mentre, al
contrario, l'incompiuto Corazzini, nella sua breve
stagione, offrirà sì una poesia
frammentaria, autobiografica, tutta densa d'un
realismo interiore, sentendo il bisogno di
esprimere nel verso libero, al di fuori di schemi
metrici, i sentimenti e le riflessioni ma le sue
istanze espressive saranno percepite e diventeranno
motivo di ricerca fondamentale per la poesia
successiva.
- La sua poesia ai confini
del sogno e della tristezza quasi sospesa nella
rarefazione e nello disfacimento, in quella
effusione di una estenuante malinconia, senza
colori e senza illusioni, in un dolente abbandono:
la poesia di un fanciullo malato che si sente
morire giorno per giorno. La tragica confessione
è offerta con nuda semplicità ed
è sentita come un lento affondare nell'ombra
proprio durante la giovinezza: il triste fanciullo
rinuncia subito ad ogni cosa più grande di
lui e si offre indifeso al suo triste
destino.
- «La sua poesia ha
l'incanto della giovinezza e Corazzini fu poeta che
parlò», scriverà Umberto Saba,
«senza amplificazioni, senza montare sui
trampoli e fu semplice e straziante». Lo
stesso Corazzini affermerà: «I libri di
poesia da me pubblicati sono lo specchio umile
della mia semplice anima».
- Fu un breve viaggio che
vide da un lato il desiderio di "dissolversi nel
mare", di "sommergersi nell'azzurro del cielo" e
dall'altro la visione, l'attrazione e il desiderio
di rinchiudersi in uno "spazio chiuso"
(l'ossessione della bara ne è un esempio con
i versi anima prigioniera nei confini/come una
bara nella sepoltura), di perdersi in un
"anonimato cosmico". La poesia del dolce e pensoso
fanciullo con cui si identifica il poeta ha il suo
avvenire nella morte e la malattia per Corazzini
è «consustanziale, connaturata
all'esistenza umana, una qualità della vita
che preannuncia e presentifica la morte»
così come, ad esempio, ne Il canto delle
crisalidi di Michelstaedter «nella
vita/viviam solo la morte» e come per Italo
Svevo la vita è una malattia
mortale.
- Se le malattie hanno una
missione filosofica si può ben dire che
è quella di mostrare quanto sia illusorio il
sentimento dell'eternità dell'esistenza e
quanto sia fragile il "povero piccolo sogno" della
vita. È inutile negarlo: la malattia rende
la morte sempre presente. Le sofferenze lacerano,
dissanguano, rendono la vita una prolungata agonia
anzi rendono visibili e percepibili diversi modi di
morire. La presenza inesorabile della morte, nel
momento in cui si impadronisce di noi, giovani o
all'ultima stagione della vita poco importa, fa
perdere tutte le illusioni e le
speranze.
- L'uomo scopre la morte
nella propria soggettività e questa
interiorizzazione parossistica scopre una regione
dove la vita e la morte si intrecciano e si fanno
una cosa sola. L'inquietudine, l'insoddisfazione,
avvertire la presenza della fine, rassegnarsi per i
momenti irrimediabilmente perduti non sono altro
che la consapevolezza che non si può
concepire la morte senza il nulla: davanti ad essa
il silenzio assoluto o l'ultimo grido disperato.
L'arte di morire non s'impara perchè non
v'è una regola, nè per il poeta
nè per chiunque, ma solo l'irrimediabile
agonia, lenta e rivelatrice, e una sofferenza
sconfinata.
- È questo il
carattere demoniaco del tempo: c'e la vita e la
fine di tutto, la creazione e l'annientamento.
- Essere persuasi, come il
giovane Corazzini, di non poter sfuggire a una
sorte amara, essere sottomessi ad una
fatalità implacabile: il distacco
progressivo da tutto ciò che è
concreto porta all'espansione verso il nulla e la
stanchezza di vivere separa l'uomo dal mondo e
dalle cose ed ecco prevalere l'abbandono totale al
sentimento della propria finitudine.
- Solo con la morte è
ormai concepibile il vanificarsi dello spazio
chiuso che serra l'anima in eterna
prigionia, il dissolversi del progressivo
restringimento di ogni orizzonte, di quella
cella che chiude, di quella grigia bara
inchiodata. In questo rapido accompagnamento
funebre della morte di ogni desiderio ormai il
poeta è disperso in spazi indescrivibili e
remoti dove è la sua anima.
-
- L'opera di Corazzini
produce quindi risultati in un certo modo esemplari
e trova un posto ben definito nella nostra lirica
novecentesca: la sua lezione è nella
confessione dell'incapacità di dare una
risposta alle domande della vita «E non
domandarmi/io non saprei dirti che parole
così vane», sempre in bilico sul
silenzio, nel rifuito delle strutture metriche
tradizionali fino ad assurgere a nuova poesia d'una
generazione malinconica e scettica.
- Sergio Corazzini fu un
giovane poeta condannato alla fatica della poesia e
alla pena della vita: eppure nel suo breve viaggio
c'è infine un giorno di rivolta contro un
mondo ferito e straziato dalle pallide
verità delle immagini liriche dove la vita
si rifrange come in uno specchio, lacerata
estenuata anemica, eppur tirannica con
l'obbligatorietà del fatal destino
dell'uomo. Fuori ci son le strade in ombra, le
chiese in rovina, i giardini chiusi con statue
corrose dal tempo, le diverse forme della
verità, le piccole cose quotidiane che vedon
le ore passare eguali così cariche del
diverso destino per cui un'esistenza s'impantana e
un'altra fiorisce, da un lato si apre un antico
cancello arrugginito d'un camposanto e dall'altro
si vive ascoltando una languida musica d'un
organetto, s'illividisce nella morte e s'accende un
amore. Dentro la poesia, nelle reiterate parole,
tutto è uniforme, neutro ed isolato: tutto
è stravolto dalla morte, l'intera
l'esistenza deve fare i conti con il calendario, e
la vita e la morte sono stampate nella stessa
matrice. Il respiro è soffocato dalle mura,
l'anima è prigioniera in ristretti confini,
il lento incedere è simile a un cadere di
foglie, la commedia umana è straziata e
rinchiusa tra le solide pareti di antichissime
sale: ogni cosa è livellata nella
polvere che ci seppellisce quotidianamente,
nell'odore appassito, nello sfacelo totale. Tutto
è perduto: l'esile richiamo a un sogno di
gioventù, la fonte della gioia, le fiorite
primavere, il profumo della vita e dell'amore.
Senza distinzione alcuna. Non un volto che le
distingua non un gesto che le tradisca: solo una
pagina morta.
Massimo
Barile
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