- La
personalità di Eugenio Montale si delinea
con precisione in una sorta di autopresentazione
per una antologia che data agli anni '60. Poche
parole eppure folgoranti: «Non sono in grado
di scrivere nulla su di me, né tanto meno
per il popolo. Le mie poesie sono funghi nati
spontaneamente in un bosco; sono stati raccolti,
mangiati. C'è chi li ha trovati velenosi,
mentre altri li hanno detti commestibili. Il
bosco... non era vergine; era stato concimato da
molte esperienze e letture». Nessun
riferimento alla novità della sua voce ma
alla "spontaneità" delle sue poesie che
nascono da una cultura che le sottintende come un
terreno adatto dove il micelio possa svilupparsi:
«Nacquero per una volontà, un bisogno,
di esprimersi con certe parole, con parole che
suggeriscono un certo mondo fisico e morale.
Incontro, dunque, di sensualità (verbale) e
di ascetismo. Musica più idee, o meglio
compenetrazione piuttosto che addizione». Ecco
il cuore della personalità poetica di
Montale, quelle "certe parole" che sono lo
strumento applicato con rigore per rappresentare
sempre "un mondo fisico e morale".
- La sua vita non
conosce grandi svolte, tempeste o
sussulti.
- Fin dall'inizio
la premonizione, che sarà certezza con il
passare degli anni, che per soddisfare la sua
bruciante voracità culturale dovrà
farlo nei ritagli di tempo, negli spazi tenacemente
conquistati dopo la scuola, dopo l'orario di lavori
incerti, dopo le ore passate nella redazione del
Corriere della Sera nello stesso ufficio di Indro
Montanelli: il poeta stesso ricorderà di
avere sempre letto e scritto «da povero
diavolo e non da uomo di lettere
professionale».
- Ecco il
carattere di Montale, uomo d'indole schiva e
borghese, che, per necessità o virtù,
non ha mai badato all'aureola di poeta, anzi ha
incarnato la figura del poeta solitario con un
comportamento definito da molti di "aristocratico
distacco".
- Il suo amore per
la poesia diventa sostanzialmente un fatto privato
perché così il poeta lo dichiara
quasi con una punta d'orgoglio. Montale sottolinea
con il suo comportamento, fedele, uguale, quasi
monotono, la sua idea che la poesia in quel momento
(o anche al giorno d'oggi?) non aveva bisogno di
gesti eclatanti e per vivere doveva solo attingere
ai moti del nostro essere. La testimonianza
dell'umano sentire disperso tra ordito e trama
dell'avventura dell'uomo moderno: lo sguardo
attento ad un imprevisto incrocio fra un oggetto
insignificante e un concetto esistenziale che fa
rivelare una improvvisa significazione come
osserverà la critica.
- Eugenio Montale
è la rappresentazione di un uomo chiuso
nella sua stanza, costretto dalla vita a compiere
anch'egli un lavoro comune. Come tutti noi.
- La gloria un
effimero idillio senza sorriso; la mente assorta
nella visione di una terra fra spuma del mare,
limoni ed agavi; lo sguardo pietrificato in quella
natura arsa e polverosa, unica realtà
fondamentale, unica presenza d'una poesia-etica
assaporata seguendo una sola direzione, quella d'un
poeta che vede sostituirsi all'antico male di
vivere, l'alienazione e la noia di una
società moderna. E infine l'apparire della
desolazione ancor più irrimediabile,
l'incredulità nella storia e il pessimismo
accompagnati da un sorriso che è smorfia
scettica.
- Un fatto di
stile, di raffinata civiltà, di proverbiale
sintassi di un'arte che ha inciso le sue parole
sulla dura pietra della vita.
- Montale e, con
lui, noi tutti, costretti a scendere "milioni di
scale", a superare il vuoto ad ogni gradino al
pensiero che la donna amata non c'è
più, a convincerci che il nostro viaggio,
breve o lungo che sia, a volte pare non finire mai.
«Ho sceso milioni di scale dandoti il
braccio/non già perché con
quattr'occhi forse si vede di più./Con te le
ho scese perché sapevo che di noi due/le
sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano
le tue». E poi quel disincanto montaliano,
quell'ironia fulminante dell'ultima stagione:
«La sera fui paragonato ai massimi/lusitani
dai nomi impronunciabili/e al Carducci in
aggiunta./Per nulla impressionata io ti vedevo
piangere/dal ridere nascosta in una folla/forse
annoiata ma compunta».
-
- A coloro che gli
rimproveravano di aver volto la sua parola
all'individuale, e agli intellettuali impegnati che
lo criticavano per aver sempre preso una "certa"
distanza dal "ribollire" della vita, per non aver
agguantato spada ed elmo per lanciarsi
irresponsabilmente all'assalto, Montale risponde:
«...No,/non si trattò mai d'una fuga/ma
solo di un rispettabile/prendere le distanze./Non
fu molto difficile dapprima,/quando le separazioni
erano nette,/l'orrore da una parte e la decenza,/oh
solo una decenza infinitesima/dall'altra...».
Quel "prendere le distanze", seguito subito dopo da
quel senso di "decenza", sempre lo accompagnarono
già da quegli anni lontani di fronte al
fascismo, alla guerra, alla morte inutile. E anche
dopo quel periodo di "separazioni nette",
«...dopo che le stalle si vuotarono/l'onore e
l'indecenza stretti in un solo patto/fondarono
l'ossimoro permanente/e non fu più questione
di fughe e di ripari. Era l'ora/della focomelia
concettuale...»: era la stagione della
scaltrezza e della furbizia che miscela, impasta, e
spalma «...materialismo storico e pauperismo
evangelico,/pornografia e riscatto, nausea per
l'odore/di trifola...». Ecco allora venire in
primo piano il diritto-dovere di inventare "la
scienza del cuore", l'esigenza di "cercare la
speranza": «...Lascia che la mia fuga immobile
possa dire/forza a qualcuno o a me stesso che la
partita è aperta,/che la partita è
chiusa per chi rifiuta/le
distanze...».
- Agli altri
lascia il facile ottimismo, il riscatto assoluto
che pur aveva intravisto nelle Occasioni e nella
Bufera per una salvezza in un mondo dove non ce
n'è più. La parola, per essere ancora
tale, deve esprimere la sua continua
disponibilità all'ambivalenza, il suo
"ossimoro permanente" finché ha un pur
minimo spazio per farlo.
-
- Eugenio Montale
è un poeta che ha "pensato", scriverà
Enzo Siciliano nel '71, «...e il suo pensare
non si è mai rovesciato come un limite sulla
sua poesia, cosa che spesso accade a scrittori che
desiderano esibire in vitro le loro facoltà
concettuali, quasi fosse un blasone con cui
migliorare la propria fisionomia». E poi
ancora: «...La sua poesia ha espresso una
superiore intelligenza delle cose... ha toccato non
solo una musica dell'esistenza, ma l'interno
segreto di essa, il senso di un destino che
talvolta alla musica sfugge...» e il poeta che
portava con sé l'idea di un cambiamento,
dopo gli anni della guerra, della bufera, che pure
credeva ancora possibile un rinnovamento da parte
dell'uomo, si trovò a fare i conti con una
mancata rigenerazione, con la sentenza «tutto
è fisso, tutto è scritto» e il
poeta metafisico sostituisce all'evidenza
emblematica degli oggetti di un tempo, all'antica
solitudine, all'inerte affondare, al consumarsi
della vita effimera come un «frego bianco su
una lavagna», l'odierno sapore amaro del
disprezzo. La simbologia d'un tempo ha ora, nella
miscela di poetica e poesia, nell'ispirazione di
Satura che tende più alla prosa che al
verso, la sensazione di un riepilogo dal tono
epigrammatico e "sorridentemente demolitore", d'una
«mente vivissima, che si appassiona
irridente-irriverente a un mondo che muta, attorno
al poeta che fortunatamente non si adegua ma, fuor
d'ogni schema, connette, amabilmente e ironicamente
dissacra, sempre inventando e fin liricamente
cantando» come osserverà Marco Forti in
una delle più ampie e interessanti
monografie critiche su Eugenio Montale. E ancora
una volta il poeta si rivolgerà al non
essere piuttosto che all'essere, a quella
conoscenza delle cose che non può essere che
negativa, alla loro imperfezione, al loro
trasmutarsi rapido; e vibrerà colpi tremendi
alle mitologie storiche ed ideologiche che hanno
generato disastri. Nella lirica La storia si legge
che «La storia non si snoda/come una catena/di
anelli ininterrotta», non ha una logica
interna, «non è prodotta/da chi la
pensa e neppure/da chi l'ignora...»,
«...la sua direzione/non è
nell'orario»" perché il suo senso
è capriccioso ed imprevedibile, «non
somministra/carezze o colpi di frusta...».
«...non è magistra/di niente che ci
riguardi./Accorgersene non serve/a farla più
vera e più giusta». Eppure la storia
non è poi così "devastante"
perché lascia sempre uno spazio, un rifugio,
una cripta o impensabili nascondigli dove i
sopravvissuti trovano posto per ricominciare la
loro vita. «La storia gratta il fondo/come una
rete a strascico/con qualche strappo e più
di un pesce sfugge»: coloro che sono scampati,
ignari di essere fuori, sono contenti perché
han trovato la via d'uscita, la salvezza, e gli
altri, quelli rimasti nel sacco (dell'ideologia)
credono "illusoria-mente" di essere finalmente
approdati ad una vita libera e
migliore.
-
- La novità
di Montale è in quella espressione di un
atteggiamento nuovo verso la vita e in quella
concezione della poesia come "dolorosa" e "severa":
quel primum esistenziale tra sofferenza e
inadattabilità che ha visto nascere la sua
poesia.
- Il senso della
vita dell'uomo che non può essere che
solitaria, arida e senza scopo nonché la
concezione di un'esistenza nella quale i sogni sono
preclusi e la felicità è impossibile:
l'unica certezza è conoscere
«ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo».
- Il mondo di
Montale è un mondo senza un filo di
speranza, l'arida pietraia, la «muraglia che
ha in cima cocci aguzzi di bottiglia», e
tutt'intorno sterpi: una disperante situazione che
non prevede una via d'uscita, non contempla una
salvazione dal continuo travaglio della
vita.
- La sua posizione
di estremo individualismo, costantemente e
tenacemente mantenuta, trova in uno scritto del
'52, il cui titolo emblematico è La
solitudine dell'artista, l'affermazione del
carattere fittizio e fallimentare di ogni pretesa
di comunicazione tra gli uomini che non sia
affidata al misterioso segno della poesia:
«L'uomo, in quanto essere individuato,
individuo empirico, è fatalmente isolato. La
vita sociale è un'addizione, un aggregato,
non un'unità di individui. L'uomo che
comunica è l'io trascendentale che è
nascosto in noi e che riconosce se stesso negli
altri. Ma l'io trascendentale è una lampada
che illumina solo una brevissima striscia di spazio
dinnanzi a noi, una luce che ci porta verso una
condizione non individuale e dunque non umana. Il
nostro tempo ha il merito di avere scoperto o
accentuato come mai prima era avvenuto, il
carattere totale, il carattere drammatico
dell'esperienza artistica. Il tentativo di fermare
l'effimero, di rendere non fenomenico il fenomeno,
il tentativo di rendere comunicante l'io
individuale che non è tale per definizione,
la rivolta, insomma, contro la condizione umana
(rivolta dettata da un appassionato amor vitae)
è alla base delle ricerche artistiche e
filosofiche del nostro tempo... Ritengo che anche
domani le voci più importanti saranno quelle
degli artisti che faranno sentire, attraverso la
loro voce isolata, un'eco del fatale isolamento di
ognuno di noi. In questo senso, solo gli isolati
parlano, solo gli isolati
comunicano».
-
- Il carattere
drammatico dell'esperienza artistica in un
tentativo di fermare l'effimero, la rivolta contro
la condizione umana, la voce isolata, e quindi la
parola che viene da un uomo isolato, l'unico
individuo veramente (e ancora) capace di
comunicare. Già nel '65 Montale fissava il
punto della situazione: «Oggi le idee sono
scomparse: tutto è ipotetico, tutto è
vero finché è vendibile ed è
falso tutto ciò che non fa gola all'uomo
economico».
- L'iter del poeta
passa dal «doloroso riconoscimento della
creatura solitaria di fronte alla mostruosa
macchina cosmica» come scrive Sergio Solmi,
con lo sconforto e la vertigine d'una generazione;
poi incontra il reperimento delle "occasioni" di
un'autobiografia dove si poteva ritrovare la
necessità di riscoprire un senso di
autenticità da contrapporre ad un clima di
falsificazione, di corruzione e dissolvimento dei
valori; e infine una sequenza di lampi, di barlumi,
di "visioni supreme" e ricognizioni della Bufera
dove prevale una "intimità".
-
- La poesia di
Montale è qualificata da una passione
metafisica, sofferta come lacerazione esistenziale
ma anche come tensione al ritrovamento di un
riscatto ultimo. È il tema degli Ossi di
seppia ma anche dell'intera opera di Montale,
è il filo conduttore, la necessaria
continuità seppur nel variare delle stagioni
poetiche: è quel dualismo metafisico tra
essenza ed esistenza con la ricerca di una
salvazione che redima l'uomo dallo scacco cui
è destinato.
- L'esistenza
è un dramma ineffabile, un mistero per la
ragione che solo l'illuminazione della poesia
può svelare: il poeta è il portatore
di quel divino dono, quasimodianamente,
dell'esperienza poetica.
- L'atteggiamento
che vede l'uomo "in solitudine", nel suo
"aristocratico distacco", individualista e
romantico, poeta con quel gusto scabro della parola
come del resto la poesia ligure dei primi decenni
del ventesimo secolo d'un Roccatagliata Ceccardi,
d'un Boine e ancor più di
Sbarbaro.
- Poesia che
nasceva da un "terreno bruciato dal salino" per
rifarci alle parole di Montale con quella parola
"inusitata, tecnica o vocabolariesca" come
osserverà ancora Francesco Solmi, e poi,
grazie ad essa «la speranza di carpire
l'ultimo segreto delle cose, un filo da
disbrogliare che finalmente ci mette nel mezzo di
una verità».
-
- Eugenio Montale
rappresenta l'icona del poeta del nostro Novecento,
la sua figura assume un valore emblematico nel
mettere in primo piano, le contraddizioni, le
inquietudini e una profonda coscienza morale. Ogni
tentativo per capire il lungo percorso letterario
ed intellettuale di Montale deve necessariamente
partire dall'uomo, dal fatto che "la sua esistenza
è stata lo specchio più fedele della
sua poetica e della sua etica": da un lato, acuto
osservatore ed indagatore, poeta e critico e,
dall'altro, severo "spettatore della
coscienza".
- Montale non ha
mai sentito l'esigenza di essere un maestro, eppure
gradualmente ed autorevolmente diventa il "maestro"
per eccellenza; non ha mai accettato catalogazioni
od effimere etichette eppure assurge al ruolo di
austero detentore d'un messaggio di una
verità capace di situarsi nella storia, di
interpretarla e di resistervi; non ha l'intenzione
di estrarre dal cilindro trovate da perfetto mago
ed affascinare con suggestioni e prodigi d'ogni
sorta ma offrire la parola d'un poeta che vive una
interiore visione negativa e pessimistica, un
rifiuto che non conosce medicina sin dalle prime
poesie degli Ossi di Seppia eppure quell'invisibile
"male di vivere spesso incontrato" è sempre
accompagnato da una impensabile urgenza, quasi
un'ansia insopprimibile, di descrivere ed
inventariare quel mondo a cui non crede, a cui non
offre speranza. La poesia di Montale «in tanto
suo dubbio sull'esistenza ci aveva appassionati in
gioventù alla vita» scriverà
Vittorio Sereni ed è proprio quella
condizione così contraddittoria eppur densa
d'impulsi vitali che alimenterà il valore
della poesia di Montale con la trama di rivelazioni
delle occasioni quando il dubbio sull'esistenza
diventa appassionamento alla vita e gli oggetti e
le presenze salvifiche si fanno bagliori nelle
tenebre d'una rinuncia alla vita, creature che
conducono dall'inesistenza all'esistenza offrendo
con i loro segnali una nuova visione, una nuova
tensione, un nuovo stato di "sospensione" tra
l'enigma e il privilegio.
- Il mestiere del
poeta, con lui e grazie a lui, è stato
radicalmente stravolto come per una trasmutazione
alchemica, e sempre presente è stata la sua
intenzione di mischiarsi tra la folla di uomini
come lui, di non ergersi al di sopra di tutto e di
tutti, di abbandonare il piedistallo che sappiamo
essere sempre vacillante, poteva essere un
protagonista attivo e godere di eclatanti e
roboanti squilli di trombe e invece fu un attore in
negativo, nel senso che non calcò mai
l'arena, non si offrì mai alla pugna,
tutt'al più qualche monito, un cenno
d'insofferenza, qualche sommessa parola, e poi
quella sensazione di disgusto verso la politica,
prima nei confronti del fascismo e poi del partito
d'azione, ma propina del veleno anche ai critici
militanti che, come egli stesso scrive, sono
«condannati a inseguire lo straripare della
produzione con l'obbligo d'informare e giudicare ma
ormai senza più la possibilità di
avere un'idea e un metodo in comune e per di
più costretti, dalla stessa
mediocrità dei testi, a farsi leggere tra le
righe». Montale non è un combattente,
«si limita a registrare le perdite e le
sconfitte subite dagli altri» e la sua scelta
è quella del poeta solitario, del custode a
protezione della propria poesia. Montale fin dal
suo esordio aveva scoperto la regola preziosa del
rifiuto o del minimo indispensabile mentre, al
contrario, gli esempi che aveva davanti avevano
dato l'assalto alla letteratura, adeguandosi alle
regole comuni, accettando i compromessi,
incontrando i profeti; ed invece lui escludeva di
proposito dai suoi progetti certe figure e
determinati ambiti in una sorta di sedimentazione
di negazioni critiche per lasciarsi andare in un
cupio dissolvi fin quasi a scomparire dalla scena
(per fare i conti in privato) nelle poche prove
necessarie a far sentire la sua voce, insomma un
poeta di "pochi libri". Nel discorso pronunciato in
occasione dell'assegnazione del Premio Nobel
all'Accademia di Svezia il 12 dicembre del 1975
dirà: «Sono qui perché ho
scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli
traduzioni e saggi critici. Hanno detto che
è una produzione scarsa, forse supponendo
che il poeta sia un produttore di mercanzie; le
macchine debbono essere impiegate al massimo. Per
fortuna la poesia non è una merce. Essa
è una entità di cui si sa assai
poco...» «Il tempo si fa più
veloce, opere di pochi anni fa sembrano "datate" e
il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare
prima o poi diventa bisogno spasmodico
dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova
del nostro tempo che è lo spettacolo,
un'esibizione non necessariamente teatrale a cui
concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una
sorta di massaggio psichico sullo spettatore o
ascoltatore o lettore che sia». Devastante
è l'interrogativo che il poeta si pone:
«In tale paesaggio di esibizionismo isterico,
(di sterilità, d'immensa sfiducia nella
vita), quale può essere il posto della
più discreta delle arti, la
poesia?».
- «La poesia
così detta lirica è frutto di
solitudine e di accumulazione».
- Quello che
Montale chiama il "sedicente poeta" è colui
che si "mette al passo coi nuovi tempi", colui che
fa "schizzare" le parole in tutte le direzioni in
una deflagrazione caotica, ed allora non esiste
più un vero significato ma un "terremoto
verbale con molti epicentri": capire le intenzioni,
comprendere appieno, decifrare non è
più un lavoro necessario e in molti casi
"può soccorrere l'aiuto dello psicanalista".
Esistono due poesie: una è di «consumo
immediato e muore appena è stata espressa,
mentre l'altra può dormire i suoi sonni
tranquilla» con la speranza che «un
giorno si risveglierà, se avrà la
forza di farlo».
- «La vera
poesia è simile a certi quadri di cui si
ignora il proprietario e che solo qualche iniziato
conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri
o nelle antologie scolastiche" perché "il
poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo
vero destinatario».
- Eppure l'idea di
scrivere per pochi beati non è mai stata la
sua «l'arte è sempre per tutti e per
nessuno» ma quel che resta imprevedibile
è il suo destinatario.
- «Si
può incorniciare ed esporre un paio di
pantofole (io stesso ho visto così ridotte
le mie), ma non si può esporre sotto vetro
un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo
naturale». Nemmeno un'emozione che è
stata generata da tali visioni, direi.
- La poesia lirica
ha rotto le "barriere", ha frantumato gli argini, e
«milioni di poeti scrivono versi che non hanno
nessun rapporto con la poesia».
- Tutto ciò
per Montale significava poco o nulla perché
si trattava di fare i conti con il costante
divenire d'un mondo culturale di massa già
definito dal suo carattere "effimero e fatiscente"
eppure vedeva lo spiraglio per una cultura che
fosse anche "argine e riflessione".
- Potrà
sopravvivere la poesia nella bolgia infernale della
cultura delle comunicazioni di massa? Certamente.
- A patto di
limitarsi alla poesia che «rifiuta con orrore
il termine di produzione», quella che sorge
quasi «per miracolo e sembra imbalsamare tutta
un'epoca e tutta una situazione linguistica e
culturale»: ecco allora che non c'è
morte possibile per la poesia.
- «Nella
civiltà consumistica quale può essere
la sorte della poesia?»
- «La poesia
è l'arte tecnicamente alla portata di tutti:
basta un foglio di carta e una matita e il gioco
è fatto. Solo in un secondo momento sorgono
i problemi della stampa e della
diffusione».
- «L'incendio
della biblioteca di Alessandria ha distrutto tre
quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un
incendio universale potrebbe far sparire la
torrenziale produzione poetica dei nostri
giorni».
-
- L'ambizione di
Montale era di dire soltanto il minimo
indispensabile ed era palese la preoccupazione di
non ripetersi e di non cedere ad avventate
sperimentazioni. Non ha mai tradito quella sua
interiore urgenza e, del resto, a guardare le date
dei suoi libri, si può ben comprendere come
abbia seguito alla lettera tale comandamento. Gli
Ossi di seppia sono del '25, Le Occasioni del '39,
La Bufera del '56: tre libri in trent'anni. E se
pensiamo che una delle sue prime liriche Meriggiare
pallido e assorto è datata 1916 quando il
poeta aveva vent'anni, ci troviamo di fronte ad un
poeta che ha pensato e mirato solo ai risultati
indispensabili eliminando un vasto repertorio di
esperimenti. La resa dei conti veniva fatta "in
privato", tra meditazioni e letture, senza macinare
a vuoto, senza solfeggiare troppo, seguendo il
precetto del far poesia in economia: «...La
poesia non può macinare a vuoto... Un poeta
non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo, non
deve perdere quelle qualità di timbro che
dopo non ritroverebbe più. Non bisogna
scrivere una serie di poesie là dove una
sola esaurisse una situazione psicologica
determinata, una occasione».
- «...Non
nego che un poeta possa o debba esercitarsi nel suo
mestiere, in quanto tale. Ma i migliori esercizi
sono quelli interni, fatti di meditazioni e di
letture d'ogni genere. Non occorre che il poeta
passi il tempo a leggere versi altrui, ma neppure
si concepirebbe una sua ignoranza di quanto
s'è fatto dal punto di vista tecnico,
nell'arte sua. Il linguaggio d'un poeta è un
linguaggio storicizzato, un
rapporto».
- «Il bisogno
di un poeta è la ricerca di una
verità puntuale, non di una verità
generale... che conti ciò che unisce l'uomo
agli altri uomini ma non neghi ciò che lo
disunisce e lo rende unico e irripetibile»
così Montale nell'Intervista immaginaria del
1946.
-
- ***
- La fuga non
è mai sotto forma di evasione o di sogno, in
realtà è un misurarsi continuo con la
storia, una intenzione di rifiutarla in nome di un
ideale morale assoluto.
- La
partecipazione morale, il mondo sentimentale e il
vigore stilistico sono tutt'uno nella
personalità umana e poetica di Montale. La
severa coerenza dell'uomo con il poeta, la
fedeltà a se stesso in quanto partecipe
attivo seppur riservato della società,
l'impegno al massimo della lucidità poetica
e al massimo della responsabilità morale
sono il segno costante della sua personalità
fin dalle prime esperienze letterarie. Il senso
tragico della realtà che permea la sua
intera opera è sia in una direzione storica
che in una percezione del mistero
esistenziale.
- Il fascismo, la
guerra, il dominio della tecnologia, la
massificazione non sono altro che l'incarnazione
del dramma del singolo: la storia e l'esistenza
sono la condizione dell'uomo colta nel momento del
suo immediato vivere la realtà e poi nel
superamento, grazie alla mediazione
dell'illuminazione poetica, nella stoica
pacificazione, che non è abbandono ma
"virile assunzione di un fato che non può
tingersi di colori provvidenziali".
- È una
concezione della poesia in quanto «abolizione
del dualismo fra l'Io e il mondo» come scrive
Assunto ed è enunciata dal poeta fin dai
versi posti in limine agli Ossi di seppia «Un
rovello è di qua dell'erto muro.../Cerca una
maglia rotta nella rete/che ci stringe, tu balza
fuori, fuggi!». La poesia apre il varco che ci
porta dall'effimero della cronaca quotidiana alle
regioni trascendentali, fonda il reale mediante la
parola che diventa creatrice e rivelatrice in
assoluto di ciò che è al di là
dell'immediata esperienza.
- Questa
sperimentazione del senso drammatico dell'esistenza
con quello della storia fa sì che tutta la
vita e l'opera di Montale sono sotto il segno di un
austero pessimismo seppur non è quello
dell'uomo disperato ma «la saggezza pervenuta
all'ultima coscienza che nulla può
giustificare una prospettiva positiva per l'uomo,
sempre atteso dal dolore della storia e dal nulla
dell'essere, ma che si accompagna alla convinzione
irremovibile della impre-scindibilità del
suo adoperarsi per essere
migliore».
- Ma il segno
negativo si rovescia in un significato positivo che
fa dell'impegno morale in sé il fine della
stessa azione morale e dell'intera vita dell'uomo:
l'essenza del suo insegnamento è questo
invito ad una sorvegliata riflessione sulle scelte
che dobbiamo operare e, come non conosce
l'esaltazione per i brevi successi, così
ignora il pianto per le immancabili sconfitte e
delusioni. Il punto fondamentale è
conservare il lucido giudizio da affiancare ad una
prudentia senza dimenticare l'indignazione per chi
abusa dell'uomo. Le stesse parole di Montale
rendono nel miglior modo possibile la
qualità del suo costante impegno: produrre
«una poesia in cui vita intellettuale e vita
morale coincidono indissolubilmente».
-
- Gli anni passati
nello stesso caffè delle Giubbe Rosse che
era stato il ritrovo delle avanguardie fiorentine
di Lacerba e della Voce fu per lui "stare nel posto
di tutti ma comportarsi diversamente": al bando le
provocazioni e le esaltazioni ma piuttosto uno
sguardo attento, a braccetto con la proverbiale
prudenza e quell'innato senso della discrezione, e
la famosa "sapienza del calcolo". Questo
atteggiamento fu sì una lezione per molti
che vennero dopo di lui, un valido aiuto per molte
scelte letterarie, e le sue raccomandazioni che
sollecitavano l'esame sostanziale delle cose e non
davano peso al gratuito o all'apparenza solo per
seguire la moda del momento: tutto quello che
Montale non ha dichiarato o ha preferito tacere
è stato poi intellettualmente valorizzato
con una presenza continua, con gli acuti
suggerimenti e i numerosi moniti.
- Montale sovente
reputava più utile "stare a vedere", magari
raccomandare sottovoce, mostrare una leggera
insofferenza, dire una sola parola a volte era
più importante che dilungarsi in una lunga
prosa piena di scintillii.
- Un atto di
coraggio intellettuale, la lettura più
semplice e anche più significativa, una
riflessione profonda sulla natura e sulle
trasformazioni della poesia, sulla sua
capacità di rinnovarsi e poi spingersi fino
a toccare i nervi scoperti di una cultura che a
fatica accettava la lezione montaliana. Non
prometteva di più di quel che avrebbe potuto
dare: non c'erano rimedi assoluti ma solo la cura
quotidiana, la poesia come mezzo di conoscenza
più che di rappresentazione.
Massimo
Barile
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