Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconto di
Claudio Malatini
IL LATO SINISTRO


Mal si adattava al suo carattere la tradizione di esporre la salma in casa. Per fortuna l'avevano trasportata subito all'obitorio dell'ospedale anche se era morta sul colpo battendo la nuca sul marciapiede e, quindi, fu lì che addobbarono sommariamente la camera ardente, senza tanti orpelli, in modo semplice, com'era vissuta.
Erano sposati da circa cinque anni, si erano conosciuti sui cinquantacinque, coetanei, per quel che conta l'età.
Era il terzo figlio di uno statale velleitario, un maniaco dello sport, li aveva praticati tutti, quelli non dispendiosi, senza successo ma non gli importava.
Lui, con due sorelle che avevano primeggiato negli studi, non nel lavoro, troppo dimesse, timide e con un impieguccio da quattro soldi, si era diplomato ragioniere a calci nel sedere, metaforici, s'intende.
Degli studi non gli era rimasto nulla se non quel tanto che gli interessava: storia e geografia.
Dell'educazione famigliare si trascinava l'abitudine a fare la pipì seduto, come l'avevano costretto le donne di casa, per non bagnare fuori.
Avrebbe voluto fare il marinaio, per questo prese la patente di guida d'autocarri con estrema facilità e si mise a girare l'Europa come camionista.
Guadagnava bene anche perché divorava miglia.
Viaggiava rigorosamente solo, spesso fuorilegge, nel senso che non rispettava i tempi di sosta né i riposi tra un viaggio e l'altro ma a lui e al padrone andava bene così.
Adorava l'intimità della cuccetta di notte, le aree di sosta con i caffè ventiquattro ore e le trattorie più strane.
Respirava le albe più fresche e ascoltava sempre il cinguettio vitale degli uccelli prima di girare la chiave e accendere l'innaturale sferragliare del diesel.
Aveva tolto il fascione bluastro dal parabrezza per rimirare, al naturale i cieli diversi.
Per lui divorare lentamente la strada con il camion, come un ruminante, non era fatica ed anche durante i viaggi più noiosi o ripetitivi, trovava sempre il modo di scoprire qualcosa d'affascinante.
Non lo faceva solo per i soldi, era la sua vocazione, si sentiva realizzato, stava bene ed era in pace con se stesso.
Intendiamoci, non che sottovalutasse l'importanza del denaro ma l'utilizzava per quel che serviva. Non si faceva mancare nulla: una modesta casetta con mutuo, un armadio con vestiti decorosi, una gran tv, lo stereo, ecc.
Poi, si sa, come i marinai, ad ogni porto una donna.
Le sue non erano prostitute, o per lo meno non lo manifestavano apertamente, erano affezionate; insomma, erano delle compagne un po' facili, certamente non monogame, tuttavia, a loro modo, sincere e comprensive.
E poi c'erano i racconti che quel tipo di vita gli consentiva di fare ai pochi e selezionati intimi e, più tardi, ai nipoti che le sorelle avevano sfornato.
Visse dunque così per tanti anni. Trascorsero pieni e in un attimo.
Amava soprattutto la Francia, dove poteva cullarsi sui saliscendi delle colline e ciondolarsi nei numerosi rondò.
Quando poteva, abbandonava l'autostrada per le dolci discese e salite con rincorsa.
 
Fu così anche quella sera d'inverno.
Si stava crogiolando nel tepore della cabina quando tutto congiurò contro di lui, effetto ipnosi: la pioggia battente sul parabrezza, la danza a ritmo costante dei tergicristalli, il nessuno davanti, l'effetto psichedelico dei paracarri illuminati a frazione uniforme dal faro anabbagliante di destra, il più potente, e il motore a giri e ronzio costante, con cadenza cantilenata.
Si risvegliò giù dalla scarpata, stretto nella morsa metallica della cabina con un dolore acuto al braccio sinistro, nel mezzo di uno spettacolo lunare dato dai caschi a visiera dei pompieri, luccicanti per le scintille della fiamma ossidrica.
Vedeva in lontananza le torce sulla strada sovrastante e, nonostante il suo precario francese, percepiva quasi tutte le concitate parole dei soccorritori, soprattutto quelle dell'uomo in camice bianco che dirigeva gli altri con ordini secchi e perentori.
Quando finalmente lo caricarono sull'ambulanza, scorse i lenzuoli che coprivano completamente i corpi di due figure riverse sull'asfalto bagnato, a fianco di un groviglio che doveva essere stato un'auto.
Duplice omicidio colposo, di cui era senza ombra di dubbio l'unico responsabile e l'amputazione dell'arto sinistro, all'altezza della spalla.
Era rovinato. Non poteva più guidare e fu licenziato senza tanti giri di parole; gli rimanevano solo "le pezze sul sedere" ed un'invalidità permanente.
I primi mesi li trascorse davanti allo specchio studiando ogni dettaglio del suo lato sinistro monco, vestito e nudo, e a rintuzzare le parole e gli sguardi di commiserazione dei parenti.
Suo padre, ancorché ottantenne, si ostinava a praticare lo sport. La mattina trotterellava per le strade ingobbito e confezionato in una tuta troppo larga trascinandosi sino alla doccia purificatrice. Al pomeriggio si addormentava davanti alla tv, dove scorrevano le più insignificanti manifestazioni sportive, non prima di aver spento sul pavimento le cicche di sigaretta della sua dose quotidiana.
Razionalizzando lentamente che non vi era nulla da fare, pensando che in ogni caso non avrebbe voluto tener di conto con un impieguccio da ragioniere ed entrare in quella piccola borghesia che odiava visceralmente, si rassegnò.
Accettò, si fa per dire, un posto di posteggiatore offertogli dal Comune, al parcheggio dell'ospedale, ottenuto grazie le perorazioni porta a porta della madre.

Della donna che incontrò ricordava soprattutto le mani da pianista che prendevano delicatamente la sua, gli accarezzavano dolcemente le labbra, scendevano, farfalle maliziose, sul suo corpo e poi giacevano abbandonate sul cuscino, illuminate dalla luna, nelle sere d'estate.
Aveva studiato dalle suore e si notava. Chissà come aveva fatto ad interessarsi ad uno come lui.
E' vero che, nonostante il suo handicap, ormai superato (non si esaminava più allo specchio dal lato sinistro), a cinquantacinque anni, era ancora d'aspetto giovanile, robusto e gradevole ma non perdeva occasione per rendersi antipatico e scontroso.
Eppure lei era riuscita ad infrangere quella cortina di dolore e a riversare su di lui tutto il suo bisogno d'amare.
Ciò, all'inizio, l'aveva insospettito: dubitava che, in realtà, si fosse innamorata dell'amore. Poi, costatando come ignorava i corteggiatori di turno, ogni dubbio svanì, come le nubi del mattino in una solare e fresca giornata di primavera.
La conobbe al bar-minimarket del campeggio che gestiva da dipendente, assieme ad un tunisino che parlava talmente rapido da non capirsi niente.
Dal quartiere ove era stato costretto a trasferirsi dopo il disastro, doveva prendere due bus ma gli piaceva andare a quel bar in mezzo al bosco da dove, in riva al fiume, poteva guardare in lontananza le case e i palazzi con le finestre degli uffici illuminati tutta la notte che si riflettevano sulle pigre acque nere.
E poi poteva studiare i nuovi arrivi e, a volte, intrattenersi con qualche turista.
La loro vita in comune trascorreva tranquilla e si accorgeva di stare bene poiché sentiva scorrere i giorni troppo in fretta come se stesse dissanguandosi lentamente.
Una notte, di quelle buie senza luna, si addormentò presto accanto a lei di cui intravedeva spuntare i capelli dal piumone sul cuscino. Lentamente assunsero l'aspetto di un pelo grigio-bruno di cane lupo. Non si spaventò, anche perché aveva sempre desiderato un cane lupo che rappresentava per lui: forza, fedeltà e sicurezza; anzi lo accarezzò.
Con le orecchie all'indietro, girò il muso verso di lui che riuscì ad intercettare il suo sguardo protettivo nonostante il buio. Sentiva battere la coda sotto le coperte e le zampe posteriori che si accostavano alle sue gambe.
Provò invece un profondo senso di sconforto quando, nel sogno, comparvero al capezzale i parenti di lei, quasi sconosciuti, per rendere omaggio alla scomparsa, allibiti alla vista della lupa che nel frattempo aveva abbracciato, per proteggerla da quegli sguardi di orrore.
Al mattino il sole lo colse impreparato.
Quel sogno l'aveva profondamente turbato ed ora, sveglio, era ancora presente come un tragico segno premonitore.
Lo consolò la presenza di lei che stava preparandosi ad uscire per la spesa. Fu una consolazione che durò solo un attimo, il tempo di cogliere nel suo sguardo quasi un addio che lo lasciò impotente nell'attesa del peggio.
La notizia non tardò ad arrivare e lo trafisse come la sentenza che, ancorché prevista, pone fine alle ultime speranze del condannato.
Uno scippo. Due motociclisti. La caduta. La nuca sul marciapiede. La morte sul colpo.
Ritornò davanti allo specchio, nudo, ad esaminare il suo lato sinistro.
Cercò di evitare la notte ubriacandosi ma non ci riuscì.
Pensò di andare al bar del campeggio, poi si mise come una furia a riempire dei cartoni con gli indumenti di lei e allora, finalmente, lo sorprese uno sbocco di pianto. Dovette sedersi per non cadere. Appoggiò il capo sul tavolo e si assopì.
Quando si riprese la lupa era lì mentre la porta di casa batteva socchiusa. Lo fissava nella penombra della grande cucina in tono interrogativo e, scorgendo che si era svegliato, iniziò a scodinzolare e ad ondeggiare sui fianchi in segno di gioia.
Le andò incontro traballante e prese della carne macinata dal frigorifero, la mise in una fondina e gliela porse.
Disdegnò il cibo, come se volesse fargli intendere che la sua non era una visita di interesse, tuttavia bevve avidamente l'acqua che le aveva versato in una ciotola.
Era sollevato per quella insperata compagnia. Si spogliò e decise di dormire sul sofà della cucina. Di ritrovarsi solo nel letto matrimoniale, proprio non se la sentiva.
La lupa si accucciò a fianco e bastò un cenno che saltò su sdraiandosi pesantemente a lato con la testa sul cuscino.
Si svegliò che il sole filtrava rabbiosamente attraverso le persiane e la lupa non c'era più.
Trovò la forza di andare al bar del campeggio e lì il tunisino l'affrontò parlando così rapidamente che, come il solito, non capì niente ma non era difficile intuirne il senso, sicché si abbracciarono commossi.
Gli venne improvvisamente in mente una citazione di Charles Bukowski che aveva letto da qualche parte: "Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare".
Bighellonò tutta la mattina e poi pranzò in cucina con il tunisino, a base di cuscus vegetariano, giacché quest'ultimo affermava che "non amava cibarsi delle agonie degli animali". L'accontentò.
Musulmano, non beveva ma, verso sera, smontato di servizio, fu lui ad accontentarlo bevendo in sua compagnia mentre tentava di ubriacarsi.

Arrivarono in quattro, pallidi come cristi, robusti come gladiatori, feroci come belve, ceffi che presero ad insultarli senza ragione. Il tunisino s'immolò e reagì.
Fu facile tenerlo fermo per l'unico braccio mentre riempivano di botte il tunisino e poi lo ripulivano dei quattro soldi che aveva. Ripulirono anche lui costringendolo in ginocchio.
Ricoverarono il tunisino con le costole rotte e la mascella fratturata. Lui sapeva che sarebbero rimasti impuniti come gli assassini di sua moglie.
Prese il bus e rientrò a casa specchiandosi nelle vetrine dal lato sinistro con un profondo senso di umiliazione.
La lupa era lì che l'aspettava sulla porta. Questa volta mangiò ma non come un animale, con delicatezza.
Sapeva approssimativamente dove i ceffi abitavano e spadroneggiavano. La fierezza della lupa gli diede coraggio. Prese dal cassetto un coltello ed uscì. Lei lo seguì.
Girovagò inutilmente finché udì alle sue spalle: "Che ci fai qui, monco!". Quasi istantaneamente avvertì una forte botta sul collo come se gli fosse caduto addosso un masso e si ritrovò riverso sull'asfalto da dove poteva vedere, ritto, uno dei quattro, quello più grosso.
La lupa mirò diritto alla carotide che squarciò in un attimo.
Riuscì a rialzarsi con il cane che guaiva d'intorno e lasciò l'aggressore lì, in una pozza di sangue.
Dormirono assieme come la prima notte, stavolta comodi, nel letto matrimoniale. Ogni tanto la sentiva scodinzolare per la felicità.
All'alba era di nuovo solo.
La lupa tornò tutte le sere successive.
Aveva comperato un guinzaglio ed un collare e così cominciarono ad uscire. La portava sul bus e poi lungo il fiume. Al ritorno si fermava per una birra in qualche bistrot dove lei trovava sempre qualcuno che le faceva una carezza mentre lui era orgoglioso di quella splendida creatura.
Poi a letto, lui leggeva e lei scodinzolava sotto le coperte.
Una notte, dopo una buona mezz'ora che la guardava fisso, in cucina con la testa sul tavolo, uscì e lei dietro.
Si addentrò nella zona del ponte grande, scese i gradoni lasciando la strada sopraelevata, costeggiando il fiume, al buio interrotto solo dai fuochi delle prostitute.
Non ci volle molto perché si ritrovasse con le spalle al muro sotto minaccia e l'ordine perentorio di vuotare le tasche.
Questa volta lo addentò al polpaccio e lui vide che la lupa sputava un brandello di carne prima di addentare l'altra gamba facendolo cadere, mentre il complice scappava inorridito. Infine un morso ed uno strattone secco, di violenza inaudita, che gli ruppe l'osso del collo.
Rientrarono tardi, prima le lavò il muso ad una fontanella e si fermò ad un bistrot, per una birra, dove lei ricevette la solita carezza.
Pensò più volte che stava trascinando quella povera creatura verso un destino che non meritava ma si chiese altrettante volte se non era proprio quello che lei voleva: riversare su di lui tutto il suo amore seguendolo anche all'inferno, con una fedeltà assoluta.
D'altro canto il loro legame era divenuto indissolubile e lui era ormai predestinato.
Trascorsero alcune serate tranquille pur nella consapevolezza che, tuttavia, erano solo una parentesi fisiologica in attesa della prossima uscita.
Stavolta andarono nella zona dei casermoni nuovi, nei pressi di uno in perenne costruzione con le scale a cielo aperto, senza protezione e lo scheletro dei piani senza pareti, lì ad offendere il cielo.
Buttò male, li circondarono in quattro. Lui riuscì a ferirne uno con il coltello ma la lupa ebbe la peggio, con alcune costole sicuramente rotte dai calci.
L'unica via di scampo, solo temporaneo, era quella di fuggire salendo per le scale e così fecero: lui arrancando faticosamente sui gradini e lei dietro che rantolava e guaiva per il dolore, sino al quinto piano, poi lui si arrese.
Con uno spintone lo buttarono giù. Riuscì ad aggrapparsi con l'unica mano al bordo del pavimento, sospeso nel vuoto. Non lo finirono, restarono ad irriderlo in attesa che mollasse la presa.
Guardò negli occhi la lupa che si era trascinata accanto e non vi scorse alcun terrore, bensì una rassegnata serenità.
Si abbandonò precipitando nel vuoto e vide, in quell'istante, che, con un ultimo sforzo, lei si era gettata dietro ed era in caduta libera appena sopra di lui.
Pensò che fino all'ultimo aveva voluto non lasciarlo solo costringendolo a guardare all'insù verso di lei per distoglierlo dalla disperata attesa del tremendo impatto finale.

"Mi chiedo se Cristo avesse un piccolo cane nero tutto riccioluto e lanoso come il mio, con due lunghe e seriche orecchie, un naso umido e rotondo e due teneri occhi marroni e scintillanti. Sono sicuro, se lo avesse avuto, che quel piccolo cane nero avrebbe saputo sin dal primo istante che egli era Dio; che non avrebbe avuto bisogno di alcuna prova della Divinità del Cristo, ma che avrebbe semplicemente venerato il suolo su cui Lui fosse passato. Ho paura che non lo avesse, perché ho letto come Egli pregasse nell'orto da solo poiché tutti i suoi amici erano scappati, persino Pietro, quello detto "una roccia". E, oh, sono sicuro che quel piccolo cane nero, con un cuore tanto tenero e caldo, non lo avrebbe lasciato soffrire da solo, ma, spuntandogli da sotto il braccio, avrebbe leccato le care dita, strette nell'agonia. E, aspettandosi qualche coccola, ma incerto, quando Egli fu portato via, gli avrebbe trottato dietro seguendolo fin sulla Croce".

Edward Bach




I FIORI DEL TIGLIO


I fiori del tiglio sono ermafroditi, la corolla è composta di cinque petali giallo chiaro, il profumo è di un dolce intenso e il nome deriva da "ptilon": ala.

Da lassù, appollaiato sul cornicione della terrazza, all'ultimo piano, poteva cogliere ogni respiro della brezza che andava a morire più in basso, tra le chiome dei tigli sottostanti. I primi raggi di luce lavavano l'asfalto assieme ai lampioni ancora accesi, in attesa del giorno.
Aveva sempre pensato di saper volare, fin da piccolo quando, vestito d'angora, immaginava di librarsi nell'aria svolazzando leggero sopra i tetti, i campanili, le scuole, gli alberi, le insegne…., a braccia aperte.
Leonardo aveva espresso la sua fede nella possibilità del volo umano ma lui non aveva mai considerato la scienza e la forza di gravità se non come un dettaglio trascurabile, troppo reale, concreto.
Nel suo caso si trattava di una convinzione irrazionale, da custodire segretamente e riservare all'ultimo atto, un'opportunità immateriale, trascendente.
Era certo di essere predestinato, il volo non si sarebbe esaurito nell'eventuale impatto finale ma sarebbe proseguito altrove, in perpetuo.
Il senso del vuoto l'aveva accompagnato tutta la vita, sin dalla placenta.
E che cos'è lo spazio se non un cielo stellato immanente, statico e freddo che ti piomba addosso con tutta la violenza del silenzio?
Avrebbe dovuto volare, oppure precipitare: quale la differenza? Solo questione di velocità, tempo e durata.

Di sotto gli uomini, in quell'alba di primavera, avevano assunto la loro dimensione cosmica: puntini radi e insignificanti, legati ai propri turbamenti da un filo impercettibile che si sarebbe spezzato per ognuno, senza eroismo, al primo stormir di foglia.
I batuffoli del polline dei pioppi non riuscivano ad arrivare sino all'ultimo piano e in ogni caso stavano facendo un percorso inverso al suo, un volo finto, falso.
Gli venne in mente che da qualche parte aveva letto dei "pioppi transessuali" e cioè che le autorità di Pechino avevano lanciato una campagna per cambiare sesso ai pioppi allo scopo di bloccare l'invasione del polline, dannoso alla popolazione della capitale. Avevano fatto bene.

Il falco vive quasi esclusivamente negli ampi spazi ma in alcune città si annida sui tetti di palazzi alti, sulle guglie delle chiese e nelle case abbandonate, in agguato, volando in circolo o in picchiata.
Ora, però, toccava a lui.
Non che vi fosse una ragione precisa ma forse era proprio per questo che doveva farlo. Librarsi nell'aria fresca o non, era indifferente; sarebbe stato in ogni caso un volo.

Guardò giù gli spazzini meccanizzati che iniziavano a svegliare la città, di lì a poco sarebbe pure passato il primo tram.
Vide un vecchio che faceva colazione e cercò di penetrare l'intimità di altri appartamenti.
Tutto era irreale mentre il sole cominciava ad apparire all'orizzonte e si apprestava ad ingoiare la città.
Gli arrivò, d'improvviso, il pianto di un bambino. Riuscì a scorgere la figura della madre che, postolo dolcemente sul tavolo, lo rincuorava.
Gli venne in mente, prepotentemente, un pensiero dell'Alfieri: "Mi disturba la morte, è vero. Credo che sia un errore del padreterno. Non mi ritengo per niente indispensabile, ma immaginare il mondo senza di me: che farete da soli?"

Si scosse come ad un risveglio e non poté fare a meno di pensare alle due donne che aveva lasciato fiduciose nel sonno, giù, al terzo piano, in casa, soprattutto a quella dai lineamenti fini di sua madre.
Gli giunse il profumo dei fiori del tiglio e pensò che se fosse rientrato subito avrebbe potuto preparare loro la colazione, sorprendendole, in quella tersa mattinata di domenica.

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Agg. 24-05-2008