Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Francesco De Nigris
Ha pubblicato il libro

Francesco De Nigris - Sotto un cielo senza angeli




 

 

 

 

 

Palomar di Alternative S.R.L

 

pp. 220 - Euro 14,00

 

ISBN 88-7600-172-7

 

Introduzione
Incipit


Introduzione
Ottavio vive selvaggiamente la sua infanzia. Suoi amici sono il fiume, il leccio e le altre creature che popolano la campagna. È' ingenuo, ma non spensierato: sua madre, in preda alla follia, lo maltratta e lo confonde con i fantasmi della sua mente. Fantasmi dal volto ambiguo che Ottavio dimentica solo in presenza di Teresa.
Teresa vive sola, lontana dal centro abitato. La sua diversità sta nel con-cedersi con facilità a chiunque. La sua spontaneità è pari solo a quella di Ottavio e i due finiscono col vivere insieme. Ma la gente comune non può accettare una simile convivenza: il ragazzo è costretto a tornare a casa e a compiere il suo destino saltando oltre il muro di cinta della "villa".
Sotto un cielo senza angeli la morale è solo un'imposizione violenta; sotto un cielo senza angeli vivono personaggi fuori dagli schemi, odiati e desiderati per la loro diversità.

Sotto un cielo senza angeli


 

A Pino,
che non leggerà questo libro





Non tutti nella capitale
sbocciano i fiori del male,
qualche assasinio senza pretese
lo abbiamo anche noi, qui in paese


Fabrizio De Andrè, Delitto di paese

 


 
Capitolo 1
Giugno
Ottavio non capiva come mai la cornacchia che lo puntava, all'erta, da un ramo di leccio incassato nel muro che cingeva la Villa non rinunciasse alla sua elementare differenza, non scendesse a insegnargli a volare; o magari non gracchiasse per radunare le compagne così che lo sollevassero in cima alla parete. Era convinto che una mano gigantesca avesse posato la Villa sulla sommità della collina, e contemplava il muro di cinta che ancora non era riuscito a scalare.
Una volta aveva provato a sfidare il leccio: "Dai, arrampicati! " gli era sembrato che l'albero lo provocasse - aveva ricavato graffi e sbucciature, aveva creduto che quelle ferite fossero il giusto compenso per aver sottovalutato, allora, l'umore insolito dell'albero.
E non aveva capito la furia di sua madre, che per aver scoperto nei calzoni un minuscolo strappo gli aveva imposto il digiuno per un intero giorno. Di più: lo aveva costretto a passare la notte in compagnia delle galline, nel recinto del pollaio; e siccome il guano inacidiva l'aria e gli impediva di respirare, era rimasto sveglio a imitare i gorgoglìi delle galline, giusto per avere di che conversare. Il mattino dopo sua madre non lo aveva riconosciuto: gli si era scagliata contro come posseduta, aveva lasciato cadere la vaschetta con il becchime e lo aveva colpito, e mentre colpiva aveva urlato: "Ancora tu, ma chi sei, chi sei tu, non ti basta la notte per darmi il tormento, via da casa mia, vattene maledetto", e Ottavio non lo aveva capito. Se n'era restato immobile come un sacco di pa-tate sotto le mazzate e aveva aspettato che la furia le passasse. Non era la prima volta, altre volte il suo corpo aveva dovuto farsi carico degli umori bizzarri di sua madre, questo lo sapeva ma non lo capiva.
Sapeva che sua madre non lo avrebbe riconosciuto fintanto che lui non avesse accennato una nenia, una delle tante che sua madre gli aveva insegnato: E chi sei?, Io sono il lupo, Cosa vuoi?, Le tue galline, Che mi dai?, Due fave secche, Che ci faccio?, Le conservi, Per che farne?, Per darle al lupo. Era andata così. Alla carezza della nenia l'ira della madre si era sciolta nello stupore: aveva riconosciuto il figlio, poi il recinto e le galline, aveva raccolto la vaschetta e in ginocchio aveva deposto il becchime nel recipiente, e aveva riso a lungo e Ottavio non aveva capito. Ma aveva visto come il sorriso la trasfigurava. Allora due pensieri avevano cozzato nella sua mente, il primo: correre, correre verso la Villa, nascondersi, scomparire, confondersi con la macchia; e l'altro: cantare tutte le nenie, anche quelle che non conosceva, quelle che sua madre non gli aveva insegnato, per non vedere svanire il sorriso che le distendeva il volto. Aveva immaginato, allora, il sorriso di sua madre smarrito in chissà quale caverna della memoria, e aveva pensato che per vederla sempre così, riappacificata e bella, l'avrebbe volentieri accompagnata per mano laggiù, in fondo al buio, dov'era riposto lo scrigno che solo le nenie riuscivano a forzare.
Era il 1970 quando Ottavio ammazzò sua madre, andava per i quattordici ma non lo sapeva: molte cose non sapeva e non capiva, a quel tempo. Non sapeva, per esempio, che i manicomi ancora prosperavano e che "Villa" era il nome tranquillizzante col quale, spesso, venivano designati.
Oggi no, pensò Ottavio. Forse un giorno, quando il muro lo vorrà: e sarà quello buono per scavalcarlo. Si acciambellò ai piedi del leccio, che da tempo aveva oltrepassato il muro di cinta ed era in grado, fantasticava Ottavio, di vedere quello che accadeva al di là, e pensò che per tutto arriva il momento buono, quello giusto, bastava aspettare.
Non era forse così che l'inverno ingrossava il torrente vicino casa, senza che nessuno vi ponesse mano o glielo ordinasse? E com'era che l'estate lo riduceva una pisciata di vacca? Era così: arrivava il momento giusto. La vite, in fondo all'orto? Verde, poi rossa e gialla, e poi via, secca come una cicala sfiatata. C'era soltanto da aspettare, e quella mano invisibile che da il verde ai campi, che solletica le cime degli albe-ri, che sparge la neve, la pioggia, la grandine, che allaga i campi con l'acqua del fiume, un giorno lo avrebbe sollevato, lo avrebbe portato in cima al muro - sarà quello il giorno buono, lui lo sapeva, e aspettava.
Chiuse gli occhi, si appoggiò al muro, poi si voltò e si attaccò con le mani il viso e il petto ai mattoni che il sole cominciava a scaldare; era certo di poter udire qualcosa, magari le voci che il muro tratteneva, ma non percepì che un debole ronzio, come di una mosca imprigionata nella mente, solitamente placata ma nella quale capitava, a volte, che una moltitudine di passi portasse devastazione, ma per poco, come la picchiata fulminea di un rapace; poi si allontanavano, i passi, lo lasciavano solo a cercare di capire da dove fosse emersa quell'incredibile calca e che strada avesse preso per dileguarsi. Si staccò dalla parete con gli occhi ancora chiusi, si voltò, tese le braccia in direzione dei campi sotto di sé e proiettò in avanti le dita per cercare di carpire il segreto che avvolgeva le cose, quasi fosse egli stesso una pianta, una zolla, il brusìo delle foglie, acqua. Restò così a lungo: non accadde nulla. Tuttavia non dubitò che quel segreto, un giorno, gli sarebbe stato svelato: immaginava, semplicemente, che stesse da qualche altra parte a dare risposte ad altre voci, a riempire spazi ancora più vuoti.
Portò le mani al viso, si accarezzò, si intrufolò le dita nei capelli, poi si percorse il corpo con lentezza, sentì che era molle in alcune parti, in altre ne tastò la durezza.
Picchiettò il turgore delle cosce, inseguì un formicolìo che affluiva verso l'inguine e lo avvolgeva, vi si afferrò, lo tenne stretto e lasciò che un tumulto senza nome lo devastasse con la rapidità di un fulmine e l'intensità di un dolore: credette che da quelle partì, tra le cosce, fosse rimasto impigliato un po' di quel respiro invisibile che stava cercando, e che per poco gli avesse animato il ventre dissolvendosi quindi nelle rapide scosse di un terremoto che ogni volta lo lasciava stupefatto.
Si alzò barcollando - pochi passi e dovette reggersi. Allungò una mano verso il leccio, scosse i frammenti di foglie secche dal fondo dei calzoni: che sua madre non vedesse, non sapesse. Sua madre, a casa, lo stava aspettando. Lo avrebbe tenuto a sedere, immobile, davanti alla finestra giù in cucina a contemplare l'aia, e lui non capiva perché. Tutte le mattine così: lui non avrebbe chiesto spiegazioni, avrebbe fissato tutto il tempo il nespolo che troneggiava al centro del cortile da tredici anni, più o meno gli stessi di Ottavio, e avrebbe ascoltato.
Dal muro di cinta della Villa, dal lato che si affacciava sulla piana, un sentiero conduceva verso casa affiancando per un tratto la strada grande, grigia d'asfalto, che lambiva la casa di Ottavio e si perdeva, poi, in una curva morbida verso un infinito al di qua del quale lui era sempre rimasto. Ottavio si muoveva lungo la stradina come su un percorso privato. Talvolta cercava un arbusto solido, esteso, e vi si intrufolava, si nascondeva, immaginava di trasformarsi a sua volta in pianta per eludere l'angoscia che lo prendeva; altre volte si avvinghiava ai rami, contorceva braccia e gambe, restava immobile più che poteva sino a quando il dolore non lo obbligava a sciogliersi.
Tutte le volte, poi, si fermava davanti a un'edicola mezza diroccata a cinquanta passi dal muro di cinta; a nessuno sarebbe venuto in mente che quei tufi che ancora resistevano potessero custodire l'immagine di una Vergine di fattura grossolana, incerta, di una malinconica bellezza miracolosamente conservata nei tratti del viso e nella delicatezza delle mani; il resto era divenuto alone stinto: il corpo avvolto da un drappo incolore che annullava qualsiasi idea di forma, dando l'impressione che quel volto, quelle mani fluttuassero senza alcun legame col resto.
Ottavio si fermò, come sempre, davanti alla Vergine e diede inizio al consueto rituale. Si mosse in circolo, tre volte verso destra e tre volte verso sinistra, roteò le braccia sopra il capo e poi in giù, fino a toccare il terreno, e solo quando fu si-curo di aver sottratto quella porzione di mondo all'intrusione di elementi estranei si inginocchiò davanti all'edicola e asportò dal basamento una pietra rozzamente squadrata che depose sull'altarino davanti all'icona.
Se gli avessero chiesto conto di quel comportamento bizzarro, avrebbe alzato le spalle: non sapeva perché lo faceva, però sentiva di doverlo fare.
Prima di infilare un braccio nella breccia che gli stava davanti, esitò, quasi indovinasse dietro ogni foglia occhi indiscreti, o temesse in ogni ramo braccia pronte a ghermirlo.
In quello stesso momento sul ciglio della strada grande, la Statale, tre ragazzi si ingegnavano a sperperare il tempo che l'età concedeva loro. Giocavano a formare parole improbabi-li o inesistenti con le sillabe delle targhe che vedevano sfilare sotto i loro nasi; altrimenti si sfidavano a centrare il segnale stradale che avevano di fronte, sul ciglio opposto. Davano l'impressione di litigare, a volte.
Osservati da lontano, parevano marionette. Di colpo si immobilizzarono. Uno dei tre, uno ricciuto, scuro di pelle che gli altri due chiamavano il Marocchino si era messo a dire: "Ma sì che l'ho visto un sacco di volte, lo volete sapere meglio di me che ci passo sempre da quelle parti?".
"No, lasciamo perdere" diceva l'altro, lo Spretato, "che ci frega, dove sta il divertimento, è un povero scemo".
"Appunto, ci facciamo quattro risate, così, tanto per fare" diceva il terzo, che gli altri due chiamavano il Topo per via di una peluria ispida e rada che gli spuntava sotto il naso.
"Se ci muoviamo adesso lo becchiamo di sicuro" diceva il Marocchino, "capace che se ne sta arrampicato sopra un albero, o nascosto sotto un cespuglio" e sorrise all'idea.
"Sì, sì, sì" incalzava il Topo, "e magari lo convinciamo a farci spiare sua madre che parla da sola, quella pazza".
Lo Spretato li rimbrottò flemmatico, disgustato: "Ma vi rendete conto di quello che andate dicendo; che divertimento c'è, santiddio, mi sembrate più scemi di quel poveraccio lì, comesi chiama...".
"Si chiama Ottavio" rispose solerte il Marocchino, e aggiunse: "Non fare il difficile, il solito guastafeste".
"Sentiamo, tu che dici di fare, forza."
"La verità è che stiamo a menarcela da due ore, e quando a qualcuno gli viene in mente di fare qualcosa di divertente, eccolo lui, pronto a pontificare. Vuoi sapere una cosa? Sei un guastafeste e un prete."
Lo Spretato fumò di rabbia, avrebbe volentieri colpito il Marocchino, ma non lo fece. Lo fissò con cattiveria, poi alzò gli occhi al cielo, sospirò, e ironico disse: "Perdona loro, che non sanno..." e ghignò.
"Ha ragione lui" disse il Topo indispettito. "Noi andiamo, e se non ti sta bene, staitene qui a contare le macchine, e vaffanculo."
Lo Spretato fissava l'asfalto in silenzio. Alla fine disse: "Andiamo".
Ottavio contemplava quanto aveva disposto in ordine sull'altarino. Non sospettava di avere degli spettatori, non li ave-va sentiti arrivare. I tre si erano mossi con cautela, e adesso si nascondevano dietro dei cespugli.La voce di Ottavio giungeva loro attutita, una preghiera appena bisbigliata, così che erano costretti a trattenere il respiro, a restare immobili evitando di guardarsi, altrimenti un'alzata di sopracciglio o un'occhiata di sbieco li avrebbe trascinati in un vortice di riso.
"Non mi tradire, mi raccomando" diceva Ottavio, "solo tu conosci il segreto, non andare a raccontarlo a quel chiacchierone del vento, è capace di portarlo dappertutto". Rivolgeva le sue parole accorate a una piccola, rilucente pietra color del rame screziata di bianco e fittamente attraversata da delicate ve-nature di un nero intenso. Chiuse gli occhi e corrugò la fronte, le palpebre serrate. Poi li riaprì, fissò la pietra e la baciò, e se la strinse al petto.
Dal nascondiglio dei tre adesso arrivavano fruscìi e uno scalpiccio disordinato, pareva che un animale fosse rimasto impigliato nei rami bassi e cercasse di svincolarsi. Un sibilo: era il Topo che sussurrava: "Ma che cazzo sta dicendo?" e ridacchiava.
Il Marocchino intimò: "Zitto, zitto che ci scopre".
Lo Spretato non si divertiva, era rimasto in silenzio e immobile tutto il tempo a fissare Ottavio.
"Guarda, guarda che fa" disse il Topo.
 
Ottavio depose con cura la pietra nel pertugio sotto l'altarino. Quindi fece volteggiare le mani, le scosse in direzione della pietra appena riposta; l'icona dava l'impressione di seguire con indifferente fissità la liturgia che le si andava svolgendo sotto gli occhi. Ottavio raccolse dal mucchietto di oggetti disposti sull'altarino uno scampolo di stoffa - pareva un pezzetto di pelliccia color cioccolato. Lo spiegò e lo depose sulla pietra dopo aver scostato gli oggetti, si abbassò e vi appoggiò una guancia, muovendosi lentamente da destra a sinistra, come a farsene accarezzare.
Teneva di nuovo gli occhi chiusi e dalle labbra gli sfuggivano suoni inarticolati; una bollicina lucente si gonfiò sotto la palpebra e precipitò lungo la guancia. "Queste sono le sue carezze" bisbigliava, "questa è la sua mano".
Lo Spretato sembrò destarsi dal torpore nel quale pareva scivolato e disse: "Facciamola finita".
Il Marocchino lo abbrancò, giusto in tempo, poiché si era già mosso in direzione di Ottavio. "Aspettiamo un po', dai" implorò, e lo trattenne per braccio; la presa era energica e quando se ne avvide mollò, si ritrasse disorientato, schiacciato dallo sguardo sprezzante dello Spretato che scosse le spalle infastidito.
"Sì, aspettiamo" disse il Topo, "vediamo come va a finire".
Ottavio stava ripiegando con scrupolo il pezzetto di pelliccia che, come la pietra, finì in fondo alla buca. Prima di raccogliere un foglio di carta incrociò lo sguardo stinto della Vergine. Era la pagina di un giornale, un quotidiano locale che pochi leggevano e utilizzavano, invece, per incombenze diverse.Era un foglio stinto, giallo di umidità, tuttavia il tempo e il lavorìo degli elementi avevano soltanto sbiadito i caratteri, la notizia di un fatto di sangue - il corpo di una donna accoltellato e smembrato.
Ottavio lo spiegò, lo depose per terra. "Dovevi farlo" bisbigliava, "era l'unica maniera". Sopra la pagina sbiadita eseguì una complessa sequenza di gesti, intrecciò le dita, le sciolse, le picchiettò prima su una mano poi sull'altra, le agitò con forza davanti agli occhi; infine scosse la testa con frenesia, come se fosse nel gorgo di una trance, quindi sbarrò gli occhi e rimase a fissare l'icona.
Il Topo e il Marocchino erano rimasti accovacciati al riparo degli arbusti, invece lo Spretato era rimasto in piedi, ammaliato dai rituali incomprensibili cui assisteva, senza sapere cosa pensare.
In realtà, una contesa oscura e inconfessabile stava minando la base di un'architettura mentale, quella dello Spretato, che all'apparenza esibiva svettanti guglie di stabilità e distacco, maestosi portali di presunzione e orgoglio e arroganza, complessi pilastri di supponenza e profonde navate di disprezzo; luce filtrava, di tanto in tanto, attraverso vetrate - di cartone come il resto. Tuttavia non si sarebbe sognato di parlarne, non ai due compagni, poiché aveva da sostenere la fama di duro che gli valeva la sottomissione del Topo e del Marocchino. In realtà non riusciva a staccare lo sguardo da Ottavio, nonostante la crescente irritazione che gli veniva dal dover essere costretto ad assistere a una grottesca messinscena, ma doveva compiacere i compagni, far mostra di magnanimità.
Riemerso dalla momentanea assenza, Ottavio si chinò per raccogliere il foglio di giornale che crepitò leggermente sotto le sue dita; lo ripiegò e lo infilò di sotto con gli altri oggetti. Pareva rasserenato, Ottavio, come chi ha assolto con coscien-ziosa diligenza un compito gravoso.
Poco più avanti, sulla stradina verso casa, lo attendeva un cunicolo: lo aveva scavato con tenacia sottraendo un poco per volta il terriccio che colmava l'imboccatura di un vecchio pozzo trasformato in discarica e da tempo inutilizzato. Prima di separarsi dall'icona, però, le si avvicinò, la sfiorò appena come se temesse un contatto rovinoso; nonostante il tocco apprensivo, non riusciva a staccare le dita dalla superficie dipinta, quasi che una spinta antagonista volesse attentare alla leggerezza con la quale Ottavio sfiorava quel che restava dell'immagine. Le dita gli si rattrappirono in una stretta nervosa, il braccio percorso da un impulso incontenibile a colpire. Lottò, Ottavio.
Lottò contro la forza che lo calamitava in avanti. Provò spavento, la sensazione di essere risucchiato in una voragine.
Alla fine il terrore gli deformò il volto, lo costrinse a rannicchiarsi su se stesso, come se tentasse di contenere quanto di sé sembrava sul punto di disgregarsi. Sudava, e una sensazione di spossatezza rendeva il suo corpo disarticolato, un involucro vuoto.
"Allora, cosa mi combini, eh?" si rivolse a Ottavio lo Spretato, mentre lo scuoteva con un piede. Ottavio si sbilanciò da un lato, e si ritrovò sdraiato su un fianco. I tre gli stavano intorno.
Doveva sembrare uno strano animale: lo fissavano, ridacchiavano, si scambiavano occhiate. Il Topo e il Marocchino si davano di gomito. Lo Spretato aveva l'aria di sovrintendere, scettico, a un evento che la mente si rifiuta di accettare; ma non riusciva, tuttavia, a nascondere una sincera curiosità, come chi si disponga a prendere atto, con riluttanza, della veridicità di un fatto la cui evidente irrazionalità non necessiti di ulteriori conferme. La smorfia di incredulità sul suo viso si mutò in sorriso, ma una profonda ruga verticale fra le sopracciglia irradiava una ferocia insospettata. "Di' un po', cos'è tutta quella mercanzia, cosa nascondi sotto la cappellina?" chiese, e accennò con un corto movimento della testa in direzione dell'immagine. "Di' la verità, è roba tua? Non ti sarai messo, per caso, a fare l'accattone! Cos'è, la tua discarica personale?" Ghignava e teneva Ottavio sotto il controllo dello sguardo, un incantatore col suo serpente. Piccoli segnali, intanto - l'arcuarsi del sopracciglio sinistro, la torsione del collo - stavano mettendo sull'avviso gli altri due. "Sto parlando con te" esplose lo Spretato. "Hai sentito, oh? Cos'è che nascondi?"
"Non spaventarlo, aspetta" intervenne il Marocchino. "Vedrai che adesso ce lo dice quello che tiene nascosto, non è vero?" Poi, rivolgendosi a Ottavio: "Me lo dici cosa ci facevi inginocchiato davanti alla Madonnina? Di cosa stavi parlando, stavi pregando, vero?".
"Macché! Gli stava facendo la dichiarazione d'amore" intervenne il Topo, "e quelli erano i regali di fidanzamento".
"Stronzate" sentenziò lo Spretato, e sputò di lato.
 
Ottavio era riuscito a rimettersi in piedi. Stava provando a dire qualcosa ma il Marocchino lo bloccò: "Oh! Finalmente parla". Si affiancò a Ottavio, gli pose un braccio sulla spalla e lo tirò verso l'icona. "Allora, vediamo" disse, e intanto continuava a tenerlo con fermezza. Si abbassò verso la buca, si tirò dietro Ottavio che accennò a reagire ma fu subito immobilizzato dallo Spretato: "Eh, no. Adesso te ne stai bravo bravo e ci lasci dare un'occhiata. Sta' tranquillo, non abbiamo mica intenzione di portarti via la mercanzia, vogliamo solo dare un'occhiata, tutto qui".
Il Topo si era affiancato al Marocchino che, intanto, aveva infilato un braccio nella buca e portava alla luce quanto vi era nascosto.
"Che cazzo di roba è?" si domandava il Topo stupito. "Pietre, stracci, cartaccia, e guarda... c'è pure un coltello arrugginito."
"Un vero tesoro" dichiarò lo Spretato, "e chissà quanto deve valere". Scoppiò in una risata sincopata, affrancato da un'ansia che lo aveva tenuto in tensione fino a quel momento.
Il tentativo inconcludente di opporsi alla presa del Marocchino non aveva il senso di una ribellione a quanto stava accadendo: piuttosto, era il riflesso istintivo di chi tenti di salvaguardare un suo mondo che gli oggetti rendevano palpabile, tangibile. Ottavio fissava lo Spretato di sbieco, la testa reclinata e un sorriso di resa rassegnata. Non poteva sfuggire al cerchio ipnotico nel quale la volontà dei tre lo teneva. Era una di quelle situazioni che Ottavio non capiva.
"Senti un po', tu" disse lo Spretato, "quanti anni hai?".
Ottavio mutò espressione, si incupì e rispose: "Non lo so".
Lo stupore del Topo gli fece eco: "Non lo so! Come sarebbe non lo so?".
E Ottavio ripetè: "Non lo so; ma so che il leccio, quello attaccato al muro della Villa, c'è sempre stato, questo lo so. So anche che il fiume non si è mai fermato, è sempre andato avanti, dalla prima volta che l'ho visto, e quando ho cominciato ad arrampicarmi sul nespolo davanti alla porta di casa, era già alto. Anche i nidi sotto la tettoia della scala sono sempre stati lì".
Il Topo mormorò: "Secondo me, ci sta prendendo per il culo". Scambiò un'occhiata con gli altri.
"Insomma" intervenne il Marocchino, "non sai quanti anni hai".
"Tredici, quattordici, a occhio" sentenziò lo Spretato, e intanto osservava gli oggetti che il Marocchino gli passava: li teneva tra le mani, poi a sua volta li passava al Topo, che li ripassava al Marocchino. "Senti un po'" disse a Ottavio, "vuoi diventare amico nostro?". Mentre lo diceva gli pose una mano sulla spalla e con l'altra gli sollevò il mento. "Vuoi essere uno dei nostri? Noi ci divertiamo, mica come gli altri, quelli che passano il tempo davanti al caffè: siamo diversi, ci muoviamo, andiamo qui, là, siamo sempre in movimento, noi." E guardò il Marocchino che annuiva, e poi il Topo che aveva sulla faccia un'espressione incredula, come a dire: ma che vai dicendo, portarci appresso questo peso morto!
Ottavio indagò con candore: "Ma voi mi fate del male?".
E fu un coro di "Nooo! ".
"Come ti viene in mente, noi vogliamo essere tuoi amici, te l'ho detto" spiegò lo Spretato. "Vogliamo che vieni con noi, mica vogliamo farti del male, e poi perché? Vogliamo che diventi nostro amico, se ci sarà da divertirsi, ti divertirai con noi, ci divertiamo insieme: si fa così tra amici, non lo sapevi? "
"I miei amici" disse Ottavio, "non dicono così". Esitò. "I miei amici dicono altre cose."
"Ah! Hai degli amici" disse curioso il Topo. "E che dicono, che ti dicono? "
Ottavio non parlava.
"Allora, ce lo dici cosa ti dicono i tuoi amici" intervenne il Marocchino, "o facciamo notte?".
"Mi parlano del vento, di come li porta in alto, mi dicono se è stata una buona giornata, se sono stati contenti di volare e se hanno trovato da mangiare per gli uccelletti, se i vermi si sono fatti acchiappare o se li hanno fatto i dispetti. Quando i vermi vogliono fare i dispetti ai passerotti si nascondono sotto le foglie, in mezzo alle radici. Eh, ce ne sono tanti" spiegava Ottavio. "Allora i passerotti si devono accontentare di qualche seme, o di una mosca capitata nel becco, e allora tornano a casa, che gli uccelletti stanno ad aspettare. Mi parlano di quello che riescono a vedere da là sopra." Indicò il cielo. "Mi parlano dei colori, degli orti verdi e della terra marrone, del colore del cielo quando è blu o grigio o celeste, di come le macchie di colore si confondono, si gonfiano, si allungano, prendono tutte quelle forme strane che da qui non ho mai potuto vedere da vicino. Qualche volta gliel'ho chiesto se per piacere mi portavano con loro, se mi insegnavano a volare, se mi facevano provare la loro leggerezza, ma non mi hanno mai ascoltato."
Il Topo e il Marocchino si guardavano sconcertati. Lo Spretato annuiva: "Ho capito". Soggiunse: "Senti, ne hai altri di amici come questi? "
"Il fiume" rispose sicuro Ottavio.
"Anche il fiume è amico mio. È un po' noioso, certe volte, ma mi sono abituato: è che vuole parlare sempre lui, è prepotente, non gli piace di ascoltare, ma non importa" aggiunse rassegnato. "Non ci sto più a badare alla sua prepotenza, mi basta sapere che è là, io devo solo sedermi e ascoltarlo brontolare. Poi c'è il leccio, quello della Villa." E qui si fece lamentoso: "Non vuole che mi arrampico, tutte le volte che ho provato mi ha graffiato, però non è cattivo, è solo geloso perché non vuole che guardo oltre il muro. Ma ha molta pazienza e con lui parlo spesso, quasi tutti i giorni. Ascolta, ascolta ma non mi risponde mai". Fece una pausa. "Cioè, non fa come gli altri amici miei: lui sospira, ogni volta che deve darmi una risposta si agita, muove i rami, qualche volta pare che sbuffa..." E aggiunse sottovoce: "Penso che non mi sopporta, non lo so".
A questo punto si intromise il Marocchino: "Ma tu, amici veri in carne e ossa, delle persone come noi, non ce li hai? ".
"Ma cosa stai lì a domandare" chiosò il Topo, "non l'hai ancora capito che sta sparando cazzate, che ci sta facendo fessi?".
"Ascolta, come ti chiami?" tagliò corto lo Spretato.
"Ottavio."
"Sì, lo sapevo, dicevo per dire. Senti, abbiamo in mente una cosa divertente per stasera, vuoi venire con noi?"
"Davvero?" esultò Ottavio, "Volete portarmi con voi, mi volete davvero? Ma cosa debbo fare, io non so...".
"Non ti preoccupare" lo rassicurò lo Spretato, che intanto spiava la reazione degli altri. "Vieni con noi e non ti preoccupare, andiamo a trovare una ragazza. Ti piacciono le ragazze?"
"Non ci ho mai pensato" dichiarò Ottavio, e fece spallucce.
"Meglio" concluse lo Spretato, "così potrai renderti conto, e se poi la ragazza ti piace...".
Allora intervenne il Topo: "Ma chi, Teresa? Quella vacca?".
"Non ti permettere" si accese il Marocchino. "Tu non la conosci, non ti devi permettere di dire quello che hai detto di Teresa."
"Eh! E che ho detto?" si schermì il Topo. "Lo dicono tutti che è una vacca, mica me lo sono inventato io." Indicò lo Spretato: "Chiedilo a lui".
Lo Spretato grugnì: "Ma prova a tenere la bocca chiusa, e se è una vacca, beh, affari suoi". Poi cambiò tono: "Non vorrete litigare davanti a Ottavio, adesso che è diventato nostro amico". Poi, rivolto a Ottavio: "Non ci badare, non ti preoccupare, ricordati che adesso sono amico tuo e se farai quello che ti dico vedrai, non ti succederà nulla, ti divertirai e basta. Adesso noi ce andiamo ma ci troviamo stasera fuori dal paese, all'inizio di via del Lavatoio, la conosci via del Lavatoio non è vero?".
"Dove c'è quel cipresso alto alto" confermò Ottavio.
"Proprio lì." Rivolto agli altri due disse: "Andiamo".
"Via del Lavatoio, e non fare il furbo" cantilenò il Topo.
"Sotto il cipresso, all'inizio di via del Lavatoio" ribadì il Marocchino. Strizzò un occhio e pizzicò Ottavio su una guancia.
I tre si diressero incolonnati verso la Statale.
 

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Ins. 14-12-2007