-
Dal
volume
- Poesie
per un "diverso"
- SINE TITULO
(Elegia)
"...
le tue impennate improvvise,
la tua dolcezza estrema, il tuo
coraggio".
-
- Ecco,
già sono scomparse le lucciole
fienaiole,
- è
la tua ora questa, già
trascorso
- il giugno
in un baleno (ove più il
cielo
- d'un tempo
cristallino e azzurro e terso,
- limpido,
il cielo ormai fatto di piombo
- (oh!, il
maggio ch'era un tempo il mese
già
- della
calura, dei carri di fieno,
- lente
passavano in coppia aggiogate
- candide
vacche per via - l'effetto
- certo -
sentenzia, armato, il contadino
- - delle
esplosioni atomiche - e
s'arresta,
- mentre la
falce affila colla cote;
- ora,
spetazzi e fumo, traballando,
- passano
rapidi in corsa i trattori),
- l'ora che
stanco e innanzi il tempo chiedi
- ti si
faccia salire prima che
- (paterno
t'accompagna l'infermiere)
- gli altri
risalgano in gruppo, ed a volte
- davvero
sei precocemente stanco;
- o non
più spesso a volte la
vergogna
- di doverti
spogliare, Tu restio,
- mentre ti
osserva il compagno di camera,
- avidi gli
occhi, flosci i pendenti,
- mentre il
compagno di camera indugia
- gli occhi
stravolti su di te(1)
(oh!, il tuo corpo
- di
fanciulla pudica)...
- Né
mai discioglierò le belle
membra
- dagli
abiti che offendono, che celano,
- passa lo
sguardo come una carezza
- sulle tue
spalle nude, sopra i bei
- capelli
biondi, lisci su la nuca,
- e poi le
mani che sciolgono, svestono,
- emerge il
torso, docile, alla vista,
- fa ch'io
ti stringa le mammelle forte
- di bianco
efebo nordico, le natiche,
- le belle
natiche e folle di gioia,
- lussurïoso,
Tu fatto impudico
- di dolce,
o dolce Tu, dolce e sodale,
- oh!, ch'io
ti strappi di dosso gli abiti,
- Tu chino e
lento (cade la sera)
- ti sfili
piano i "blue-jeans", ti
mordo,
- mi ridi,
languida fanciulla e timida
- (ma questo
già lo sai, lo so, non
è
- comprendi,
sai, che illusione ancora),
- a volte
forse il pudore soltanto
- non ti si
veda, impietosa bisogna,
- mentre che
ti si lega il piede e il polso,
- misura
(precauzione) per la notte.
- E il
rossore che allora ti pervade
- le
bellissime guancie adamascate
- e tutto il
volto, o Tu che forse in volto
- (oh!, il
male, il male, il volto sfigurato) e
forse
- un poco ti
assomiglia in volto il biondo
- Napoleone
Francesco fanciullo
- Duca di
Reichstadt, nel dipinto del Lawrence.
1962
- (1) gli
occhi stravolti su di te...
- Il
compagno di camera che indugia gli occhi
stravolti etc. è persona di versa dal
Poeta: Del giovine R... il Poeta non è
stato mai compagno di camera. Alla scena il
Poeta ha avuto modo di assistere
-
-
ANGELO DELLA LUCE
- ...Forse
non ti vedrò mai più, ma
so
- che
resterai sempre con me indiviso
- come sei
stato già dal primo
istante
- che t'ho
veduto. Ecco, ho pensato allora,
- ma non
come l'Orfeo e l'Euridice
- di Jean
Anouilh, troppo tardi incontrati,
- di troppo
tardi usciti nella notte
- dalle
tenebre informi del Destino.
- Pensa io
22, Tu tredicenne,
- pensa io
24, Tu quindicenne, (2)
- le cinque,
le sei, già discende la
sera,
- noi due
soli e s'accedono in basso
- le prime
luci del neon, la scritta
- "MARTINI
& ROSSI" accesa alterna sui
- tetti
della Stazione e spenta, noi due soli, Tu
disteso
- nudo fra
le mie braccia, lente calano
- lacrime
come caldi rubini dalle tue ciglia, Baby.
1962
- (2)
Lapsus freudiano: In realtà
è stato il giovin R... a dire al
Poeta: "Pensa, se ci fossimo conosciuti
quando tu avevi 22 anni io ne avrei avuto
tredici, se ci fossimo conosciuti quanto tu
ne avevi 24 io ne avrei avuto quindici.
-
-
- APOCALITTICA (II,
43) (Il volto)
- Una sera,
poco prima la fine,
- quando i
cieli smarriti già saranno
- prossimi a
decadere, adolescenti
- bellissimi,
sparuti, accesi in volto,
- si diranno
Rafele (allora il volto
- già
solcato di rughe guarderai
- un istante
allo specchio, scosterai
- inorridito
il volto (lenta avvolge
- una rovina
sola uomini, cose),
- Rafele, ti
dirai, dirà il ricordo:
- "...me
célébrait, du temps
quej'étais beau!"(3)
- Se una
lacrima allora il bianco volto
- solcherà,
le tue mani se un tremito
leggiero
- sconvolgerà
bianchissime (si leva
- di fumo
(al fumo s'appanna Io specchio)
- amara una
boccata), allora in pianto
- si
disciolgano i cicli e Tu
sconfitto
- già
da la vita, dal male, Tu, io,
- noi, voi
tutti, si vedrà
nell'istante
- supremo
che il globo sul marasma liquido
- precipiti
al sole che s'oscura fulgido
- splendere
tra le rovine i fumi il Marc'Aurelio
d'oro(4).
-
1962
-
- (3)
"...me celebrali, du temps
quej'étais beau!".
- "Ronsard
me celebrali, di temps que jétais
belle!", Ronsard, II,
43,
- "Quand
vous serez bien vieille, au soir a la
chandelle", Sonnets pour
Hélène. Ma in luogo del
"fier dédain" (la "parfaite
amitié", la calda amicizia del
Poeta è qui corrisposta), sta la
presenza allucinante, ossessiva del male, il
"male-di-vivere" fatto malattia.
(4) ...il Marc'Aurelio
d'oro
- Secondo
l'antica profezia, quando (per agenti
atmosferici?) ricomparirà sulla statua
dell'imperatore in Campidoglio la doratura
che la rivestiva un tempo, allora la
"civetta" canterà, Roma cadrà
e, colla caduta di Roma, verrà la fine
del mondo.
La "civetta" è il ciuffo di bronzo che
spunta fra le orecchie del
cavallo.
-
-
-
- ELEGIA N° 14
"La luce"
- (o "DI
KOHOUTÉK")
- Urge la
morte immobile nel vespro,
- si
nasconde fra gli alberi, ti spia.
- Da le
forre deserte, fra gli sterpi
- arsi dal
gelo, i rami ischeletriti
- si
protendono al ciclo, bianchi e
nudi,
- su la
brina dei prati. Lentamente
- cade la
sera. I pali della luce
- si
profilano giganteschi e bruni
- lungo i
navigli, nella nebbia fitta,
- radi
splendono a tratti. Un'ombra
passa
- (muto
fantasma) al buio e s'allontana.
- Tu sei per
me la luce che mi guida.
- Stanotte
ti ho sognato. Stavi ritto
- a me
dinnanzi, il capo chino, gli
occhi
- puntati su
di me dal basso, il labbro
- dischiuso
appena a un timido sorriso.
- Nel sogno
m'hai rivolto la parola
- (mesto
l'indugio), m'hai guardato a
lungo,
- m'hai
sollevato colla fredda mano
- di su la
fronte e bei capelli d'oro.
- Poi nel
mio dormiveglia, colle luci
- prime
dell'alba (un'alba fredda e
grigia,
- pallida,
muta, livida, spettrale),
- piano ti
sei dissolto, nel mattino
- piano sei
dileguato. M'eri in sogno
- come quel
giorno che spiccasti al sole
- (calda
l'estate ricca e sonnolenta)
- fatidiche
le prime tue parole
- (monosillabi
appena), ma dicesti,
- meglio
lasciasti intendere, allungato
- il braccio
sulla ruvida spalliera,
- impercettibilmente
la vergogna
- tua di
fanciullo timido e infelice.
- Sono
"così", ma non me ne
vergogno.
- Tu te ne
vergognavi. Esperto all'arte
- nobile del
silenzio, non volevi,
- non
"potevi" accettarti. Tu mentivi
- te stesso
agli altri. Questo era il tuo
dramma.
- Ricordo il
giorno che gonfiando il petto,
- prima che
Tu ti aprissi, che ammettessi
- quello che
Tu credevi il tuo segreto
- (rifugio
certo al tuo riserbo altero
- - lo
sentivi ripetere dagli altri -),
- Pierino
quasi ridipinto a festa,
- dicesti
con orgoglio ridanciano:
- "lo non mi
sparo...", e quel che segue
taccio(5).
- E invece,
preda facile dei sensi
- (l'apporto
d'una pubertà tardiva),
- t'abbandonasti
lento, incominciasti
- piano, nel
sogno, a scendere la china,
- ti
logorasti (il grave assillo) a
lungo
- sempre
cedendo, sempre più
calando,
- cogliesti
il fiore, divorasti il
frutto(6),
- giungesti
in breve, rapido, alle soglie
- d'una
calzante e lucida follia.
- Non ti
fermasti. Proseguisti ancora
- caparbio,
attento, vigile, tenace,
- alla
ricerca solitària e cieca
- dell'attimo
infecondo, raccogliesti
- (vuota la
mente, prosciugato il corpo)
- le sparse
forze, sprigionasti al vento
- l'ultime
fiamme, l'ultime scintille,
- toccasti
il fondo, poi, placato i sensi,
- giacesti
vinto alfine. E fu la notte.
- Gn giorno,
presso la finestra aperta
- del
salottino, contro la specchiera
- dorata un
tempo, ridipinta a freddo,
- "pitturata"
in ismalto verdolino
- (già
t'eri confidato in parte,
già
- fuori,
in cortile, avevi udito attento
- di noi,
del gruppo (io, Maffei,
Gianfranco,
- il
Professore), il conversare dotto
- (Pasolini
poeta ("L'usignolo
- della
Chiesa Cattolica")(7),
e il candore,
- la
smaliziata grazia, la bellezza
- estrema
dei garzoni giovinetti
- (i ragazzi
di Càorle), dipinta
- in quei
suoi versi limpidi e perfetti),
- dopo che
t'ebbi posto la domanda
- bruciante
come su le carni il ferro,
- dicesti
amaramente, alzato il braccio
- verso di
me: "Io sono... beh!, io sono
- (mi davi
ancora, fra di noi, del "lei")
- praticamente
"Veneto"', e lasciasti
- cadere il
braccio, pigramente, in terra.
- Da quel
giorno accettasti il mio
discorso.
- Oscillavi,
indeciso, fra le opposte
- scuole in
diretta antitesi fra loro
- (inversione
congenita e acquisita,
- turbe
mentali e sviluppo tardivo,
- traumi
d'infanzia e complessi
irrisolti).
- Ora tiravi
in ballo, corrucciato,
- l'ereditarietà,
l'"atto" inconsulto
- ("Prima di
mettere al mondo dei figli
- dovrebbero...
(le conseguenze... il danno...
)"),
- ora
l'assenza d'un sia pur qualche
- forma
d'educazione sessuale ("Qui
- dovrebbero
passarci le p... (Puntini)
- (poi
dicesti "le donne", rosso in
volto),
- ogni
quindici giorni!"). Era la tua
- timidità
soltanto oppure tara,
- abbandono
dei sensi o mero istinto?
- Il dubbio
mi riguarda e m'accompagna.
- Gn giorno,
camminando su la ghiaia
- del
sentiero assolato, lungo l'alto
- muro
di cinta (m'ascoltavi attento,
- teso sino
allo spasimo), ti dissi:
- "Scusa, se
ci trovassimo sperduti
- entrambi
su di un'isola deserta,
- soli, in
questo preciso istante, senza
- traccie di
vita, proveresti ancora
- la
vergogna cocente che t'opprime?
- Secondo me
"ti accetteresti", fiero
- di te, di
quel che sei (la tua natura)".
- Alzasti il
capo: "Io... certo, con te
- ... Non mi
dispiace d'essere "così"!".
- "Dunque",
ripresi (e chiusi il mio discorso),
- "è
il timore soltanto della "gente"
- (quel che
ne pensa il filisteo borghese,
- quel che
ne pensa il filisteo codino
- (ma la
"gente", per gli altri, siamo noi,
- Tu, io,
Gianfranco, l'ingegnere,
Teddy)(8),
- che ti fa
maledire l'ora e il giorno
- e il mese
e l'anno che venisti al
mondo"(9).
- Chinasti
il capo in segno di consenso.
- Poi, quasi
come adultera sorpresa
- nel sonno
e trascinata al suo supplizio,
- venne la
confessione più bruciante.
- T'era
vergogna atroce, mi dicesti,
- il tuo
prepuzio intatto. Decidesti
- allora il
gesto insano, il gesto al fine
- solo in
parte condotto (una lametta
- da barba
usata indarno alla bisogna):
- "Mi sono
circonciso... (o l'ho tentato),
- per questo
m'hanno messo qui". Sostai,
- ti presi
il mento, ti guardai negli occhi,
- ti
carezzai la guancia. Dolcemente
- una
lacrima scese dal tuo ciglio,
- un raggio
apparve nelle tue pupille.
- Tu sei la
luce, ho detto, che mi guida.
- Quando,
nell'ore tristi della vita,
- come
taglienti cocci di bottiglia,
- lacrime
acute pungono ai miei occhi,
- quando una
mano pervicace e ignota
- m'afferra
per la gola e mi costringe
- a un
impietoso, rapido, singulto,
- quando, in
procinto di troncare alfine
- i giorni
miei, m'accingo a soppesare
- quel che
d'amaro mi serba il dimani
- e indugio,
differisco, azzardo, tento,
- esito,
aspetto, valuto, ritento),
- come un
faro puntato nella notte
- buia
m'appari e ne distogli in pianto.
- Deposto il
ferro allora od il tubetto
- letale del
sonnifero, ansimando
- volgo lo
sguardo alla finestra: in alto
- stagliata
in mezzo a un mare di fiammelle,
- caudata
come la cometa
Kohoùteck(10),
- non
già foriera di rovina e morte,
- lucente in
cielo splende la tua stella.
-
Dicembre
1973
- (5) "Io
non mi sparo...", e quel che segue
taccio.
La frase integrale, degna di Pierino,
suonava: "Io non mi sparo delle
seghe,
chiavo!".
- (6)
cogliesti il fiore, divorasti il
frutto
Leggi: il fiore della giovinezza e il
frutto del piacere.
- (7)
Pasolini poeta ("L'usignolo/della Chiesa
Cattolica")...
Il riferimento è alla lirica
"L'Italia", Capitolo I
- (8)
Teddy. Era il fratello minore del
Maestro Willy Ferrero.
- (9) che
ti fa maledire l'ora e il giorno/e il mese e
l'anno che venisti al mondo.
Cfr. Dante: "Bestiammavano
Iddio e i loro parenti/l'umana spezie, il
luogo, il tempo e il seme/di lor semenza e di
lor nascimenti". Inferno, Canto
III
- (10)
caudata come la cometa
Kohoùtek
- La
tradizione vuole che la comparsa in cielo di
una nuova cometa sia foriera sempre di
sventure e di lutti. Quella scoperta nel 1974
dall'astronomo Lùbos Kohouték
ci ha portato in regalo la crisi del petrolio
e l'austerity".
-
-
-
- Dal
Volume
-
- "Così"
- (Poesie
per Lelio)
ELEGIA N°
3 "FOR A DEAD POET"
- (In morte d'un
poeta)
"Morte,
commossa da si gran beltade,
..................lo levò da terra".
(Michelangelo, "In morte di Cecchino
Bràcci")
"E t'amo, t'amo, ed è continuo
schianto!...".
(Ungaretti, Giorno per giorno)
Lelio,
quest'anno il Settembre gentile
batte con foga insistente alle soglie
(dopo tanto rigore e tanta pioggia
il sole chiaro e tiepido risplende
vivo sull'orizzonte) e, mentre indulge
nell'afosa quiete del meriggio
ad un autunno languido e precoce
(è nell'aria serena e senza vento
l'eco d'una canzone trasognata),
il bel Fanciullo (11),
a lesti passi, vibra
le sue quadrella e, il sottobosco e il
prato
di bei còlchici lilla e il capo
ornati,
le nere chiome audacemente infiora.
Ma se sull'orizzonte la foschia
si delinea a un tratto (sale allora
l'eco d'un canto doloroso e grave,
rapide si ragunano le nubi e
funebre una caligine dall'alto
su gli uomini e su le cose incombe),
ora improvvisamente il cielo indulge
alle tenebre della diurna notte.
- ...Giancarlo, ho tanto freddo, ho freddo al
cuore! -
E la voce che sale su dal gorgo
del fiume immenso, dalle arcate oblique
dei ponti, quale vulture spaziando,
fende le fitte tenebre del giorno
e, quasi l'eco profonda della fine
che te e il tuo nome avvolge, aspra
diffonde
la sua cadenza vana e il tuo tormento.
Fiume che lento scorri(12)
e, mormorando,
vai delle nebbie siderali quasi
disamorando piano il tuo lamento,
fiume che lento scorri e, oblivïoso,
attingi in seno all'onda lutulenta
gli alti fastigi delle guglie
gotiche(13)
te dissacranti, nel tuo vasto seno,
è la sua voce disperata e affranta
che me chiama dal fondo e in seno
all'onda
sé, ne la tua caligine, confonde:
Lelio è laggiù, laggiù
morto per sempre
(già s'offusca la nebbia, già
nel buio
della notte imminente sta sospesa,
al lume del ricordo, ogni passione...).
Una riva del fiume, una spalletta
deserta, il parapetto e, forse, un ponte;
un tuffo, ed ecco l'onda avida inghiotte
te e il tuo bel corpo e, péso, lo
trascina
prima sul fondo ne la melma e poi
dal fondo limaccioso, rimestando
la fanghiglia del fiume lo scandaglio,
dopo sei giorni la corrente ostile,
placata la sua furia, lentamente
riporta a galla te, naufrago e vinto...
Ecco la chiusa; e qui dove la Stura
scarica l'acque dentro il Po
(14)
e i rifiuti
ammucchia coi detriti e col liquame,
lento t'arresti e la tua voce, Lelio
(voce sofferta, voce meditata),
ora giunge e si fa pietosa...
- È
l'alba
e,
quale Ofelia pallida, in un canto
del fiume, presso un languido boschetto
(un angolo remoto) affiori e l'onda
calma e dorata dall'insenatura
te guida lentamente e te distende
lungo la chiusa che nel fiume immette
e in seno all'Eridano, mormorando,
gli abiti sfatti, sfigurato il volto,
già putrefatto il corpo, te
abbandona...
Chino sull'onda, un salice piangente
sopra il tuo volto le sue chiome scioglie
e un ramo quasi immobile, nel rado
chiarore del mattino di settembre,
al fruscìo dell'onda sé
ondeggiando,
carezza il tuo bel volto... Attorno io
vedo,
ne la pietade avvolti che cancella
l'ombra dei vivi, attorno a te, i custodi
del fiume e, intenti, i vigili nell'atto
di trarre a riva te dall'infierire
della bocca vorace che gorgoglia
e col risucchio tenta sottrarre
alla pietà dei vivi ogni cadavere,
te e il tuo bel corpo sfatto... Oh!, la
bellezza
delle tue membra, il nero zingaresco
delle tue chiome brune, e affida all'onda
bionda del fiume, al collo tuo allentata,
una rossa collana e sui blue-jeans
corrosi e su gli anelli de le
chiome
un
solenne abbandono...
Ahimè!,
lo strazio
di
tua madre angosciata, ahimè!, il
tenace
dolore di tuo padre (né a lui vale
la negazione d'un destino infame),
ahimè!, il diniego pronto e la
difesa,
difesa ferma, coraggiosa e vana,
di tuo fratello, è voce grave e
antica,
è voce di compianto, voce forte
per la tua morte, di chi non s'arrende
all'evidenza d'una realtà crudele,
spietata, atroce: è voce che,
incalzando
(oh!, la tua triste fine) e trasalendo,
su la pianura avvolta da la nebbia
prima d'autunno (è il 13
settembre)
travalica e precipita e, scorrendo,
nell'aria sorda e tragica risuona...
E il mio dolore, da le antiche volte
dei ponti di Torino, la regale
città nemica a me e a te letale
(oh!, Roma bella, Roma e la sua favola,
e noi fra le sue mura esausti e paghi,
e l'amicizia nostra, e la calura
dell'estate romana, circonfusa
di calde fiamme e d'un bel sole d'oro),
il mio dolore, superando il pianto
e la rovina, eco si fa e lamento:
Roma ci chiama, e la sua voce amica,
colla alura e il suo bel sole d'oro,
sino a me giunge, sino a me trasvola
e, insidïando, offusca il mio
lamento...
Non ho veduto il tuo bel corpo sfatto
rigido nel torpore della morte,
già intaccato dal miasma che
corrode
le membra agli annegati e le avviluppa
d'un lento, inesorabile, abbandono,
non ho veduto te, cereo il volto,
sul tavolo di marmo, all'obitorio,
te non ho visto, bianco ne la morte,
contornato dai tuoi piangenti e in
lacrime,
non ho seguito il funebre corteo
che te ha condotto all'ultima dimora,
ho atteso, prima, che la mia presenza
non turbasse dei tuoi l'intimo affanno,
ho atteso che dei tuoi si fosse in parte
placata l'ansia, e il lutto, ed il
dolore,
e adesso vengo a te, a te mio Lelio
vengo, e tua tua madre in pianto e con mia
madre
porto, Lelio, l'ultimo saluto...
...Immaginavo
una tomba
sopra
la nuda terra, contornata
di lapidi e di croci, ove deporre
un fiore rosso rorido di pioggia
recente e intorno, vigili, i cipressi...
Ma vedo una cappella gentilizia
presso due file di cipressi neri
che proiettano la loro cupa ombra
sopra i suoi marmi e i suoi mosaici
orrendi...
Ci accostiamo in silenzio. Cigolando
si dischiude il cancello. Lo
varchiamo
tristi
e muti, accorati e collo sguardo
inteso al grigio loculo di marmo.
Batte il sole in un canto e, illuminando
il marmo, ingentilisce il tuo ritratto.
Accanto n'è mia madre e, guida a
entrambi,
tuo fratello... (Puntini)...
Sotto il freddo marmo
ansimi e gemi. E qui dove, insultando
a la pietà dei vivi, Tu riposi e,
incandescenti, stanno impresse l'orme
e il gesto di chi fu valido e fermo,
sotto la coltre di grezzo cemento
che te racchiude e il tuo corpo disfatto,
Tu, foscolianamente, controbatti
l'assillo che ti fu deroga al tempo.
Ho sostato un istante con mia madre,
mia madre ha mormorato una preghiera,
io e tuo fratello, con il capo basso,
le abbiamo fatto eco mormorando...
Ecco, hai fatto una scelta, la tua
scelta,
una scelta crudele, una scelta impietosa,
e adesso sei qui e, sotto il gelido
marmo,
accogli noi che sostiamo in silenzio
e dal ritratto muto ci guardi,
fanciullo triste che il dolore e il
pianto
e la sventura e il lutto e la vergogna
che s'abbattuta su di noi, se hanno
reso impotente e vano, non hanno into!
Ma non accetto la tua scelta. No,
figlio del mio dolore e della gioia,
figlio del mio tormento e dello spasimo
no, non sei morto, e Tu per me rimani
l'anima eletta che ho incontrato un
giorno,
vàgoli, e quale pallido fantasma,
lungo le rive (desolate rive)
d'un altro fiume, il fiume tenebroso
che da l'oblio e dismemora di
tutto(15),
ansimo e gemi. No, io non lascierò
questa valle di lacrime e di pianto,
no, non raggiungerò ne l'adre sedi
te che la morte impietosa ha affidato
alla pietà di me e dei tuoi.
Vivrò
per sciogliere il mio triste canto
all'aure,
per consegnarti ai posteri e alla fama,
e il mio amore per te e il sublime
affetto
nei secoli vivrà, vivrà
immortale.
Ma se il richiamo di tua madre in pianto,
di tuo fratello, di tuo padre e mio
sino a te giunga, attraverso alle nebbie
dell'aldilà che ti circonda,
Lelio,
abbi il saluto, abbi il compianto,
abbi il conforto dell'amico fedele,
di me, gentile Lelio, abbi l'addio!
Te ricordo fra i vivi, o dolce Lelio,
te, misero compiango e morto e vivo,
e il monumento di versi e di gloria
che a te ho innalzato e che vado
innalzando
te, morto, renderà vivo alla vita.
Ora che la vecchiaia s'avvicina
a lesti passi, e ne conosco il nome,
ora che, bieca e de la falce armata,
la Morte orrenda sghignazzando leva
col braccio in alto il bianco polverino,
irride, e addita pallida la soglia
onde non è più palpito di
vita,
ora che il soffio gelido d'autunno
contro di me s'abbatte a con un sibilo
repentino m'avvolge e mi desola
(il vento, il triste vento dell'autunno
che geme, e stride, e mugola, e dall'alto
le chiome sfatte e gli abiti m'investe),
lo sguardo abbasso, gli occhi al tuo
ritratto
volgo e, il pensiero a te fisso e la
mente,
io dico, colla mano a te accennando:
"Lelio, "vale", e ti sia lieve la
terra!".
-
- 23
Ottobre 1980
La presente elegia deve considerarsi
"abbandonata". Di essa riproduciamo qui la
prima stesura. Il (troppo grande) dolore ci
ha impedito di tornarci su e di condurla a
termine.
ELEGIA N° 8 (In morte del giovane Lelio)
detta de "LE QUATTRO STAGIONI"
- S'accendono
le luci ad una ad una
- alle
finestre grigie delle case,
- splende la
luna in cielo e i due cipressi
- marmorei,
nella sera che discende,
- svettano
l'alte cime. Non il trillo
- roco dei
grilli, non le luci accese
- e spente
delle lucciole tra l'erba,
- non il
tappeto della passiflora
- che
s'abbarbica lenta al mio verone;
- freddo il
rigore d'un atroce inverno
- ne ha
fatto un tralcio secco e
inanimato.
- Ma, dopo
un freddo inverno, la calura
- d'una
torrida estate ci divora.
- È
l'anno e il mese che tua madre è
morta.
- E un'onda
di romantico abbandono
- è
subentrata in te al dolore e al
pianto!
- Oltre i
cipressi di color d'argento
- staglia
l'acacia in fiore le sue piume
- rosa, qual
grembo di fanciullo in fiore,
- e il suo
profumo (giugno intorno splende)
- si
diffonde nell'aria, sconfinando
- su le
"Aucuba japonica", sui rami
- grigi del
rosmarino e della ruta,
- su la
salvia odorosa e sopra il verde
- lussureggiante
del banano in fiore.
- L'albero
dell'acacia oscilla al vento
- tenue del
meriggio e par che dica
- alle
montagne e ai colli e ai prati e al
sole
- che il
Tutto e il Nulla sono vani, che
- l'Arte
soltanto (e il Bello e il Vero) è
grande!
- Campi di
rosolacci e fiordiligi
- fuggivano
ondeggiando lungo il treno
- ed io, dal
finestrino riguardando
- gli alberi
e i colli e i prati e la
campagna,
- a te
correvo, a te, Lelio, e a mia
madre
- e il mio
pensiero, oppresso dal ricordo,
- mi
riportava alla breve stagione
- della tua
giovinezza e del mio amore.
- Sono
salito sino al Campidoglio
- privo del
Marc'Aurelio(16),
sotto un sole
- che
fondeva l'asfalto e lo bruciava,
- sono
salito lungo la Via Sacra
- in cima al
colle sacro ai vincitori
- per poter
rivedere sotto il sole
- di Roma,
nella pace vespertina,
- te
vittorioso, ignudo e ritto al
vento,
- fisso
immobile al centro de la piazza,
- simile ad
un iddio che sfolgorasse
- di luce
nell'arsura soffocante
- e luminosa
del meriggio primo!
- O Roma, o
Roma bella, o Roma cara,
- Roma che
ho amato ed amo alla follia,
- Roma che
fuggo ormai, dacché il
destino,
- dacché
la morte, la tua morte, Lelio,
- ne ha
fatto il cimitero desolato
- delle
speranze mie e del nostro
affetto!
- Ricordo,
ne la pace del meriggio,
- nell'arsura
terribile d'agosto,
- te
abbandonato sopra le coperte
- fra le mie
braccia, mentre fuori il sole
- spaccava i
marmi e i tetti de le case,
- e il fuoco
ardente de la tua lussuria
- ci
trasportava entrambi e ci
perdeva!
- A volte,
nel silenzio del meriggio,
- quando il
sonno m'assale e riposando
- vado nella
frescura del giardino,
- il capo
abbandonato ai fiori e all'erbe,
- allungo il
braccio e colla mano destra
- tento il
mio fianco, per sentire se al
tocco
- de le mie
dita Tu mi sei vicino,
- se il tuo
bel corpo a me daccanto sia.
- Ahimè,
ritraggo il braccio e il vuoto e il
gelo
- contro la
mano rattrappita sento!
- Era
l'estate piena, la seconda
- volta che
fummo a Roma, e Tu, splendente
- come un
iddio romano, Gitonello
- torbido,
lungo i viali ed i sentieri
- di Villa
d'Este, il bel torace ignudo,
- avanzavi
tra le rovine e i cippi,
- tra gli
zampilli e le fontane in fiore,
- pago che
il tuo bel corpo risplendesse
- per un
istante, in una foto, al sole.
- Fanciulli
seminudi, bianchi e biondi(17),
- correvano
pei viali, improvvisando
- giochi
infantili, e mandavano grida,
- grida
gioiose e acerbe, che ondeggiando
- lungo il
selciato de l'antica Villa,
- risplendevano
al sole del meriggio,
- come messe
che ondeggia a mezzo il giugno.
- Sono
passati gli anni (un lustro
ormai)
- inesorabilmente
e passeranno
- altri anni
ancora, invecchierò,
cadente,
- canuto e
stanco, passerò
trascinando
- la mia
carcassa usata al sole e al
gelo(18),
- e al mio
passaggio, con sommessa voce,
- il
passante dirà: ecco, il
cantore
- di Lelio
è quegli, del fanciullo
amato,
- di Lelio
che l'improvvida sventura
- ha
trascinato, con sottil perfidia,
- e l'acque
e all'onda sterile del Po.
- Ma se la
sorte è stata a te nemica,
- nemica e
messaggera della morte,
- hai vinto
(avresti oggi quasi trentanni,
- trent'anni
dico, e penso lo sfacelo,
- penso
l'insulto osceno al tuo bel
volto!),
- hai vinto
in corsa l'orrida vecchiezza,
- la
decadenza dell'età. Un dio
- Tu eri, un
dio Tu sei, Tu sei la luce,
- hai le
fattezze, l'andatura e il volto
- sereno ed
immortale dell'Amore.
- Ma abbaia
un cane all'improvviso (è
Diana?),
- abbaia a
me vicino e mi riporta
- il suo
latrato lacerante (sogno
- o sono
desto?), all'ora meridiana,
- alla
realtà crudele del
presente.
- Mi
ridesto, riprendo conoscenza,
- apro gli
occhi socchiusi, il mio torpore
- gradatamente
si dilegua (ed ecco
- riapparire
il mondo a me dintorno,
- mentre la
luce altera del tramonto
- fa
capolino tra le fronde immote.
- Vedo ai
miei piedi steso al suolo il
cane.
- E qui,
dove la zia e la nonna e il nonno
- piantavano
insalata e pomodori
- e fragole
(i legumi produttivi
- deridevano
il busso de le aiole(19):
- volavano
le pieridi nel sole
- e le
cetonie e i bombi fuggitivi...),
- fra "Le
Quattro Stagioni"(20)
abbandonato
- m'indoro
della luce del tramonto
- viva, mi
cuocio e m'arrostisco il petto,
- poi,
dondolando il piede, lentamente
- reprimo
uno sbadiglio, mi sollevo,
- stiro le
membra come un gatto al sole
- e come un
porcospino del Montale,
- m'abbevero
ad un filo di pietà.
-
3
Giugno-19 Agosto 1985
-
-
Lelio aveva
ambizioni letterarie e coltivava la poesia.
Fu questo che, assieme alla sua
"diversità", lo portò a
stringere il suo sodalizio col
Poeta.
(11) il bel
Fanciullo. È il Settembre, qui
dannunzianamente personificato nelle vesti di
un dio giovinetto.
(12) Fiume che lento scorri...
È il Po. In latino
Eridanus.
(13) gli
alti fastigi delle guglie
gotiche.
- Sono le
guglie delle cupole della Mole Antonelliana e
della Cappella della Sindone, le quali si
specchiano, metaforicamente soltanto, nelle
acque del Po.
(14) ...e qui dove la Stura /scarica
l'acque dentro il Po...
Il giovane Lelio si è buttato, per
l'esattezza, non nel Po (come hanno scritto i
giornali), ma nella Stura. Il cadavere fu
ritrovato nel Po, all'altezza della diga di
sbarramento, alla confluenza dei due
fiumi.
(15) ...il fiume tenebroso / che da
l'oblio e dismemora di tutto
È il Lete, il fiume che scorre
negli inferi e da sollievo alle sofferenze
della vita.
(16) ... (il) Campidoglio / privo del
Marc'Aurelio...
La statua equestre dell'imperatore
è stata rimossa, per restauri, dalla
piazza del Campidoglio, l'8 Gennaio 1981 e, a
tutt'oggi, non è stata ancora rimessa.
Il 19 Aprile 1997 è stata sostituita
con una copia.
(17) Fanciulli seminudi bianchi e
biondi
- Erano
degli svedesini in costume da bagno.
(18) ...passerò trascinando / la
mia carcassa usata al sole e al
gelo
- Cfr. "lo
strascicato / la mia carcassa / usata dal
fango", Ungaretti,
- Pellegrinaggio.
(19) ...i legumi produttivi / deridevano
il busso de le aiole Id.,
- Gozzano,
La Signorina Felicita.
(20) "Le Quattro Stagioni"
- Le statue
de "Le Quattro Stagioni" sorgono nel giardino
del Poeta e sono la copia di un originale
neoclassico che si trova in una Villa Veneta
del Settecento.
ELEGIA N° 13
(In morte del giovane Lelio)
detta "LE BIANCHE STATUE"
-
"...le
bianche antiche statue acefale o camuse... "
(Gozzano,
Il viale delle statue)
- Stanno le
statue sotto la pioggia
- il capo
verso la mia casa volto,
- tendono il
braccia contro il fianco e
reggono,
- le quattro
belle dame veneziane(21)
- i
prosperosi frutti della terra.
- Amo la
pioggia d'agosto che cade
- sopra il
giardino e il verde delle aiuole,
- crepita
sopra i fiori delle
"Hosta",
- irrora le
begonie, batte lenta
- contro le
spocchie(22)
delle ortensie, gronda
- lungo le
foglie del banano in fiore.
- Lampeggia
in alto brevemente. Il cielo
- è
grigio di perla. Dal mio studio
lente
- battono
l'ore, gravi, inesorabili.
- Fuma la
terra. In fondo, in mezzo agli
alberi,
- vedo una
luce che illumina l'ombra.
- Ecco,
Lelio m'è innanzi e mi
sorride,
- sorride e
piange. Com'è dolce amore
- quando
spira la brezza, e in su la sera
- il torpore
del giorno lentamente
- si va
spengendo e rapida nel cielo
- sorge la
luna. Tra le fresche frasche
- Venere
brilla, il mio cuore tripudia
- ed
un'ombra fugace come il vento
- accarezza
le cose. Sui rosai
- sfioriscono
le rose, le farfalle
- notturne
fanno a gara mille voli,
- mentre
coll'ali tese il pipistrello
- guizza nel
buio e rapido scompare.
- Ma adesso
è il giorno, adesso la caligine
- vespertina
sopra le cose incombe.
- Ecco,
già Lelio è mio. Non più
una larva,
- non
più un fantasma io vedo a me dinnanzi,
- ma lui
vivo tra i vivi, quasi Amore
- pietoso,
che con me fu avaro sempre
- di gioie e
parco, da sé tralignando,
- abbia
voluto, in cambio d'un finale
- tragico,
darmi, concessione estrema,
- almeno una
certezza e una speranza.
- E a poco a
poco affiora in me il ricordo.
- Per me "il
ricordo" (il mio più bel
ricordo!),
- quel che
serbo di lui e in me racchiudo,
- è
lui che sosta, Antinoo giovinetto,
- fra le
colonne di Villa Adriana,
- ritto
presso il Canòpo ed il
Pecìle(23),
- simile ad
un iddio che in seno all'onda
- specchiandosi,
con repentina mossa,
- s'aderga e
verso l'alto spicchi il volo,
- mentre
adagiata fra le sue rovine
- Roma,
nell'afa del meriggio estivo,
- in fondo
al piano pigramente dorme.
- E il dio
Marte, il dio Marte gli è
daccanto!
-
"Blumine"
- Ma
sfiorisce l'"imago" e sulla traccia
- del mio
ricordo e del piacere folle
- che
n'ho provato (come Faust, io voglio
- dire
all'"istante": "Fermati, sei bello!"),
- tento
afferrare invano con il palmo
- della mano
la splendida visione,
- quasi il
rimpianto e l'eco gemebonda
- del
crepuscolo languido che accieca
- folgorato
m'avesse, quasi il tripudio,
- ch'era il
tripudio di quei verdi pini,
- fosse
stato per me, Divin Fanciullo,
- aria,
respiro e anelito di vita!
- Ma
è vano il sogno. In me s'è
spenta ormai
- ogni
lusinga, ogni turbamento,
- ogni
travaglio misero de' sensi,
- Dio solo
bramo, e la memoria rende
- sterile e
vana l'ansia del presente.
- Eppure
punge ancora quella cieca
- rabbia
selvaggia che un "seminarista
- infame"
(ottuso, stolido o mendace'?)
- t'ha
suscitato in petto a suo
ludibrio,
- mia
dannazione sola e mio
tormento!
- Lelio, Tu
mi dirai che t'ho mentito!
- Non t'ho
mentito, no! Anche se il vento
- d'una
passione senile e tenace
- m'ha
trascinato (la stagione ultima
- e radiosa
de' sensi) a te disporre
- placido a
la mia voglia e al mio desio.
- Non t'ho
mentito! Sai la mia miseria
- ch'era la
tua miseria, il turbamento
- ch'era il
tuo turbamento, la passione
- ch'era la
tua passione. E sai la carne!
- Ma l'Arte
è bella, il Bello e il Vero è
grande,
- alto
è il Sapere, altissima la
Gloria,
- sublime il
Canto (e il Verso, il Verso è
tutto!)(24),
- nobili
cose, imperiture cose,
- ma
sdegnate, neglette ed incomprese
- da quel
troppo avveduto, stolto e sciocco
- "seminarista":
l'utile e il concreto,
- il denaro
e il successo nella vita,
- la
"chitarra" e Cielle, questo ti
proponeva
- quale
ideale e quale finalità
- ultimi per
gli studi e pel futuro!
- Così
Tu sei caduto e la tua vita
- (giovane
vita) hai affidato intrepido
- all'onda
del fiume. Ma l'Iddio che solo
- legge nel
cuore agli uomini e pietoso
- indulge
alle miserie e ai nostri affanni,
- avrà
avuto pietà (spero ed
imploro!)
- dell'abbandono,
della debolezza,
- dell'impotenza,
dello scoramento,
- della
follia, della pavidità.
- E spero
avrà pietà di me che
solo
- vivo del
tuo ricordo e del rimpianto!
- Ora la
pioggia intorno s'è
dissolta,
- ora
s'è alzato il vento, ora la
terra
- tripudia
nel tramonto luminoso,
- fulgido e
ineguagliabile d'agosto,
- ora dai
campi nell'azzurro sale
- l'eco d'un
canto grandioso e solenne!
- Ridono
adesso sopra i basamenti
- bianchi,
le bianche statue nel vespro,
- ride
l'Estate, ride già
l'Autunno,
- l'Autunno
ride altareggendo e piena
- la
cornucopia, ridono nel sole
- del
tramonto che scende l'altre
divinità.
- Il cielo
è terso e l'aria è dolce. In
alto
- è
salita la luna. Tutta la terra
pare
- argilla
offerta all'opera d'amore,
- un
nunzio il grido, e il vespero che
muore
- un'alba
certa (25).
-
21
Agosto 1986
-
(21) le quattro belle dame
veneziane
- Si veda la
nota apposta alla Elegia N° 8 "Le
Quattro Stagioni".
(22) le spocchie. Sono le "boccie"
delle ortensie.
(23) ritto presso il Canòpo ed il
Pecìle
- Canòpo
era la nota città egizia, di
fondazione greca, situata nei pressi del Nilo
e soggiorno degli elegantoni di Alessandria.
L'imperatore Adriano diede il nome di
Canòpo ad una parte della sua Villa
presso Tivoli, formata da una vasca
rettangolare (lunga 135 m. e larga 75) con i
lati minori ricurvi e ornata di alte colonne
inframmezzate di statue, fra le quali domina
ancora, superstite, quella del dio Marte. Il
Pecìle era uno dei portici
dell'Agorà di Atene, famoso per la sua
bellezza. Anche di esso l'imperatore Adriano
fece eseguire la riproduzione per la sua
Villa di Tivoli. Era lungo 232 m., largo 97,
con i lati minori ricurvi, e nel mezzo c'era
una peschiera della stessa forma del
recinto.
(24) ...e il Verso, il Verso è
tutto! D'Annunzio, Il
piacere.
(25) ... Tutta la terra pare / argilla
offerta all'opera d'amore, / un nunzio il
grido, e il vespero che muore / un'alba
certa. D'Annunzio, Lungo
l'Affrico.
ELEGIA N° 16
(In morte del giovane Lelio)
detta
"DELL'ALLORO"
E' caduta la neve sulla neve
- (triste
l'inverno) e intorno la campagna,
- oltre le
case, all'infinito è
bianca.
- Alberi,
prati, il monte, il piano, il
colle,
- gemono
come anime perdute
- sotto il
bianco tepore della neve.
- E nel
tepore bianco della neve
- che a
tratti ancora scende, abbandonato
- all'ebrezza
virile dei ricordi
- (i bei
ricordi!), te rimembro, o Lelio,
- te che non
hai veduto la mia nuova
- casa, nata
e fiorita a nuova vita,
- te che mi
fosti ospite gradito,
- te che
m'appari in sonno e disdegnando
- vai della
morte l'impietosa fine.
- Sento un
lamento. E la tua voce in pianto
- me chiama,
Lelio, dalle oscure porte
- dell'aldilà,
dai portici profondi
- dell'atra
notte, e aiuto, aiuto chiede,
- aiuto e
una preghiera. Un volo di colombi
- s'alza dai
tetti illividiti e punta
- col
battito dell'ali oltre la
chiostra
- dei monti
e il cielo. Penso che sei morto,
- e non so
darmi pace. Ma perché,
- perché
hai tentato, Lelio, dolce Lelio,
- perché
hai tentato il passo lamentoso
- e il
Tartaro profondo? Una figura
- affusolata
e avvolta nel suo peplo,
- ritta
presso la fossa e la tua tomba,
- abbandonato
il braccio sulla lapide
- nuda
discioglie le sue chiome in
pianto,
- mentre il
volo pietoso dei colombi
- che
volteggiano intorno, lentamente
- si posa,
piano, sopra la tua tomba.
- Piangi,
piangi presso il mio Lelio,
Angelo
- tu della
morte, e veglia su di lui,
- veglia che
il canto stridulo dei gufi
- e delle
strigi alterno non contamini
- il volo
dei colombi, veglia ancora,
- veglia su
la sua tomba. Senti? La pendola
- scocca in
salotto e nel mio studio l'ore.
- Batte
secca la pendola i minuti,
- batte coi
quarti le mezz'ore e l'ore,
- scandisce
inesorabile i secondi
- - ecco, un
minuto, un altro, un altro ancora
-,
- sale la
luna in cielo (26)
(la rovina
- è
prossima e ci coglie della morte,
- l'atroce
morte, il sospetto tremendo),
- scoccano
l'ore e, al tocco del metallo,
- nel
silenzio della mia casa vibra,
- tìntina
sotto il vetro e con fragore
- immenso
inesorabilmente suona!
- Dentro una
stampa, rossa di sanguigna, (27)
- e
incorniciata in nero, alla
parete,
- danza "la
Morte" orribilmente e ride,
- ride coi
denti, la mano impietosa
- del
polverino e della falce armata,
- ride
beffarda (la clessidra anch'essa
- scandisce
il tempo), e il tempo passa e
l'ora
- e il
giorno della morte s'avvicina!
- Si
stagliano nel buio del meriggio
- tentacolare,
presso la campagna,
- gli alberi
e i rami. L'aria in alto è
grigia
- e gravida
di pioggia. Ecco, domani
- la pioggia
annaffierà le strade e i
tetti,
- i campi
allagherà, spazzerà il
colle,
- lasciando
su la via fangosa un manto
- di
poltiglia giallastra che le ruote
- delle
macchine in corsa schizzeranno
- contro i
radi passanti. È notte fonda.
- E nella
notte fonda del meriggio
- che
avvolge tetra gli uomini e le
cose,
- io voglio
riandare col ricordo
- a te,
poeta imberbe giovinetto,
- ritto
nell'ombra della quieta stanza,
- e a quelle
che con me chiamasti un giorno:
- "le
foto che tu mi hai scattato a
Roma".
- "Le foto
che tu mi hai scattato a Roma"
- erano
ventiquattro splendidi nudi
- che ti
mostravano in tutta la tua
- bellezza
di giovane e magnifico efebo.
- Una, in
particolare, col giubbotto
- in cuoio
nero aperto sul torace
- e i
pollici infilati nei taschini,
- i capelli
sugli occhi e su la fronte,
- ti
mostrava qual'eri, nel pieno
fulgore
- dei tuoi
diciott'anni, i bei pendenti
ignudi,
- colla
pelurie e il sesso voglioso,
- le dure e
sode natiche riflesse
- dentro
allo specchio contro cui posavi.
- Il
riflesso del "flash" dentro allo
specchio
- determinava
sopra il tuo bel ventre,
- teso e
lucente, una chiazza di sole,
- e intorno,
sopra e lungo la pelurie
- tutto uno
scintillio di perline di luce.
- Solo il
serto radioso della gloria
- mancava
attorno alle tue chiome brune.
- E del
serto radioso della gloria
- che Tu non
hai conseguito e raggiunto
- (oh!,
troppo presto hai gettato la
spugna!),
- io voglio
incoronare te Poeta,
- te cui ha
attinto, come per Rafele un
giorno,
- la Musa
mia nostalgica e dolente,
- mesta,
accorata, oblivïosa e
triste.
- Tu, lieto
e felice a me daccanto,
- su l'alte
cime del Parnaso assise,
- fermo,
sicuro, intemerato, ardito,
- assieme ai
"grandi ispiratori",
- cinto di
verde alloro stai, fatto
immortale!
-
-
(26) sale la luna in
cielo...
- La pendola
del Poeta segna i quarti d'ora, le mezz'ore,
le ore e il succedersi delle fasi
lunari.
(27) Dentro una stampa, rossa di
sanguigna.
- La stampa
colla "Morte che ride" si trova nello studio
del Poeta.
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