Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconto di 
Gloria Bossi Maggiolo
LA DONNA DAL COLLO LUNGO
 
C'era una volta una donna dal collo molto lungo.
Ogni mattina si alzava, si guardava allo specchio del bagno e muoveva delicatamente la testa di qua e di là. Era una forma di saluto, pensava. I sottili fasci muscolari a destra e sinistra si mettevano in evidenza, la solita ghiandola leggermente ingrossata sporgeva un po', due piccoli nei da un lato apparivano e scomparivano.
Elisa sorrideva. Non avrebbe dovuto ma le veniva da sorridere. La scienza non aveva spiegazione, sui libri non era riportata questa patologia, non era possibile che esistesse. Eppure era così. Impercettibilmente, giorno e mese e anno dopo anno il collo cresceva.
Era stata una bimba normale, poi una ragazza con un collo che ne slanciava la figura, poi una donna col collo particolarmente lungo e ora si avviava a diventare una donna di mezza età con un evidente problema.
Per ora le sciarpe e i foulards e i maglioni tamponavano la situazione, ma presto non sarebbe più stato così.
Gli esami e i controlli si intensificavano, più per il senso di ribellione e curiosità dei medici di fronte a un evento inclassificabile che non per un suo disagio.
Elisa non aveva dolori. Quando questi si erano fatti sentire intorno ai 30 anni di età e ai 20 centimetri di lunghezza, aveva imparato a occuparsi di più e meglio di lui.
Ferma a un semaforo, seduta in poltrona a casa di amici, al cinema durante l'intervallo, appena sveglia e appena coricata. Girava piano il capo verso destra e verso sinistra, poi in avanti ad aprire bene le vertebre cervicali una per una, e indietro a chiuderle, poi di fianco verso una spalla e di nuovo verso l'altra.
Elisa amava questo tempo perché era un tempo buono calmo denso e silenzioso, talvolta appena soffuso di sofferenza. Un tempo in cui stare dentro. Percorrere quei centimetri di pelle tendini muscoli ossa e non voler essere altro che lì. In quella domanda senza risposta, in quel perché sempre più inutile.
Le sembrava di percepire un'aspirazione in tutto ciò, ma anche un distacco e una pena per quella lontananza che si accentuava con il resto del corpo.
Il dove e il come.
C'era e dov'era il limite?
C'era e com'era il modo?
 
Quando i capelli sulla sommità del capo sfiorarono nell'immagine riflessa il limite superiore dello specchio del bagno e lei era come sempre a piedi nudi e non era pensabile che qualcuno lo avesse abbassato a sua insaputa, decise di chiedere un altro, l'ennesimo, consulto.
Voleva raggiungere l'ospedale a piedi perché era una bella giornata e forse al ritorno non lo sarebbe più stata. Forse non l'avrebbero lasciata tornare.
Aveva la solita domanda da porsi, passo dopo passo. Dove si era rotto l'equilibrio?
Dove si era smarrito il destino naturale delle sue cellule?
C'è un'età per dividersi e crescere e un'età per rafforzarsi e dare un servizio. La crescita si deve arrestare nel servizio e il servizio nella preparazione alla morte o nella morte stessa.
Il sovvertimento delle regole ha in sé evidente pericolo, una promessa di probabili dolori.
Soprattutto se non era la parte razionale a decidere.
Aveva sempre avuto l'intelligenza, il coraggio e i soldi per fare scelte diverse, al di là della consuetudine e del vantaggio. Ma amava e ricercava l'armonia, la grazia dell'accordo, il sorriso della comunione serena. Legata da quell'amore a una vita banalmente felice, si trovava ora a fare i conti con questa lunga presenza.
Periscopio sempre alzato alla ricerca della terra, il suo collo sembrava il vessillo di un'altra patria, il testimonio scomodo e imbarazzante di un'aspirazione diversa e mai del tutto spenta.
Nel suo crescere, forse più accelerato dal momento in cui gli era stata riconosciuta questa capacità, andava mutando impercettibilmente ma costantemente il rapporto coi suoi stessi piedi e col terreno sotto di loro.
Essi erano là, un po' lontani, così come era qui l'aria che lo colpiva e accarezzava e faceva tremare. E il terreno sotto di essi era spesso portatore di trabocchetti ed imprevisti.
Così Elisa stava scalza appena poteva. Allargava bene e con piacere le dita sulla superficie sottostante e anche un po' le gambe, affinché la base su cui questa sua fragile terminazione poteva contare fosse più solida e stabile.
Ma la distanza aumentava, il controllo diminuiva e i destini sembravano dividersi. Un silenzioso accordo continuava a legare le due parti. Dalle spalle in giù tutto doveva sorreggere e servire ciò che stava più in alto. La concentrazione dei sensi nella testa avrebbe fatto sì che essa continuasse ad usarli anche a favore dell'altra parte. Ma come Elisa avrebbe concepito di fare un lavoro: bene e il più velocemente possibile.
Il resto del tempo, al di fuori di ogni doverosa attività, c'era l'estasi, l'arrendersi attonita e commossa a quest'altra presenza in lei. Espansione indipendente e incontenibile e indefinibile.
Se la natura avesse concepito i due in posizioni invertite, sotto la testa e sopra il collo, probabilmente quest'ultimo sarebbe stato ora infinitamente più lungo. E forse si sarebbe ramificato in ogni direzione, e magari avrebbe finito per staccarsi e lasciarsi portare via dal primo vento un po' deciso.
Ma non era così. La testa era lì, come un tappo sopra una bottiglia, e non poteva lasciarsi andare, non poteva smettere di dirigere e valutare e preoccuparsi e anche un po' ridere.
In fondo in quella ricerca dell'armonia c'era sempre stato l'obbiettivo dell'unità.
Mangiava e beveva con piacere, curiosità e moderazione. Curava il colore dei suoi vestiti e le sue stesse forme con rigore, perseveranza e allegria. Dedicava agli altri tutto il tempo necessario perché essi fossero a loro agio, piacevolmente avvolti nel suo calore. Amava con impegno e fantasia, gli uomini come i figli e le amiche e i genitori.
Ora il collo sembrava aver bucato questa bolla circolare di perfezione.
Conosceva l'approccio dei medici: contenere la diagnosi e l'allarme nella normalità riconosciuta, tamponare il danno e l'eventuale dolore, cercare il consenso alla sperimentazione.
Oggi non si sentiva disponibile a niente di tutto ciò. Voleva il diritto di essere anormale, voleva che questa sua perenne crescita venisse accettata e catalogata come una delle possibilità di espressione dell'esistenza. E voleva anche che niente potesse minimamente alterare la straordinaria possibilità di percezione che il collo le dava.
Forse voleva troppo.
D'altronde la rinuncia razionale a tali cose era questa sì motivo di sofferenza.
Lei cercava l'accettazione. Si consumava nel tentativo di mettere in piedi una costruzione mentale rigorosa che le permettesse di salvare il variegato equilibrio del suo ideale di armonia, ma qualcosa sembrava sempre sfuggire.
A volte era evidente: poteva essere il rifiuto degli altri, l'imbarazzo palpabile quando entrava in un ristorante, la curiosità morbosa, i commenti e le risatine ironiche. O anche l'impossibilità frustrante di guidare un'automobile, o la ricerca estenuante del farmaco nuovo, della terapia alternativa, dell'intervento chirurgico risolutivo.
Ma altre volte era qualcosa di più sottile e sfumato. Un dolore pacato chiuso giù in fondo, come un bussare incessante, una richiesta di riconoscimento fatta con una voce che era poco più di un sussurro, ma che non smetteva mai. Non c'era riposo, non c'era possibilità di oblio. Elisa avrebbe voluto arrendersi ma non ne conosceva il modo. Forse questo sentimento guidava più di ogni altra cosa i suoi passi. Doveva capire, voleva la possibilità di capire.
 
La visita in ospedale fu insolitamente veloce, come se il medico volesse solo constatare una situazione che già conosceva per passare poi alla fase successiva.
Attese a lungo poi fuori dell'ambulatorio finché un'infermiera la pregò di seguirla.
Per ascensori e corridoi e sotterranei giunsero in un'ala dell'ospedale che non conosceva, fino ad oltrepassare con una tessera magnetica una porta con un grande cartello di divieto di accesso.
Elisa fu lasciata in una piccola sala d'aspetto. Altre persone si trovavano lì.
Riconobbe con piacere un uomo che aveva una mano enorme, la sinistra, e che altre volte aveva diviso con lei quelle attese. Teneva come sempre la mano appoggiata in grembo, parzialmente coperta dall'altra, e aveva quell'atteggiamento un po' ripiegato su di sé che lei gli ricordava.
Una donna parlava piano con un bambino che aveva due grandi padiglioni auricolari.
Non enormi, ma dotati dell'incredibile capacità di muoversi in ogni direzione. Elisa li guardava affascinata dirigersi verso ogni fonte di rumore, indipendenti l'uno dall'altro, il destro comunque sempre sostanzialmente volto verso la madre che gli parlava da quel lato e il sinistro in frenetica agitazione.
Un giovane uomo sedeva senza che le gambe toccassero terra. La parte superiore del corpo appariva assolutamente normale, ma sotto ai calzoni si intuiva una muscolatura possente e sproporzionata. Elisa sorrise al pensiero di vederlo in costume da bagno o correre dietro a qualcuno.
Anche il fatto di essere in mezzo a persone manifestamente diverse la faceva sorridere. Un filo comune li legava e lei amava i legami.
Quando fu il suo turno la proposta del medico fu semplice.
Da una seconda porta posta alle spalle si accedeva a una piccola piscina. Elisa poté guardala da una vetrata. Probabilmente le piastrelle del fondo erano blu perché l'acqua aveva un colore incredibilmente intenso. La superficie era quasi immobile ma verso l'estremità più lontana dei getti laterali colorati la increspavano fino a farla ribollire. Non capiva se l'effetto fosse dovuto a un gioco di luci o se si trattasse realmente di liquidi colorati. Un verde smeraldo si mischiava al rosa fucsia, al giallo oro, all'argento più intenso e una nuvola di bollicine colorate rimaneva sospesa a mezz'aria, fissa e palpitante, sempre uguale, sempre diverse le piccole sfere .
Una scaletta permetteva di accedere all'acqua da questo lato, un'altra di uscirne dal lato opposto. Cosa ci fosse oltre era celato allo sguardo da tutto quel vapore luminoso e variopinto. Non poteva ancora vederlo, non finché non avesse accettato la proposta, ma poteva sapere.
 
Al di là si apriva la città dei diversi.
Ricavato nel cuore stesso dell'ospedale, ben occultato da un insieme sapiente di muri e siepi, era stato ricavato un ampio spazio dove tutti loro erano invitati a vivere. Organizzato come una comunità totalmente autonoma, ma che poteva e doveva contare in ogni momento sul supporto medico che la circondava, la piccola città si era data ritmi e regole propri, molto vicini a quelli di ogni altra città.
La gente lavorava e si incontrava, faceva politica e a volte si sposava, usciva e rientrava, mangiava e dormiva. Solo i figli non erano permessi: per fare quelli diventava obbligatorio rientrare nel mondo normale.
La permanenza lì era vincolata alle visite mediche giornaliere e in generale alla collaborazione con i ricercatori sullo studio delle varie anomalie, ma poteva essere interrotta in qualsiasi momento e anche ripresa successivamente.
Elisa guardava l'acqua e ascoltava la voce del medico.
Non essere più diversa perché in mezzo a diversi.
Lesse velocemente il foglio che le veniva mostrato e su cui erano riportate tutte le informazioni che le erano appena state dette. Il dottore aveva una voce calda, appena venata da una sfumatura di eccitazione. Probabilmente non era così frequente che le persone vi aderissero. C'era quel primo atto di fiducioso abbandono da compiere che forse solo anni di disperazione potevano rendere possibile. Ma ancora mentre risuonavano le ultime avvertenze Elisa aveva già aperto la porta. Lui sottolineava e specificava e chiariva e lei toglieva gli indumenti. Li piegò con cura e appoggiò sulla lunga panca bianca che si trovava subito oltre la soglia.
Senza fermarsi si avvicinò alla scaletta e cominciò a scendere, un gradino dopo l'altro.
 

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Ins. 19-02-2004