Racconti di 
Silvia Zanetto
Gli occhi di Lisa


Sono scuri gli occhi di Lisa.
Piccoli, se non li sottolinea con un po' di trucco, nascosti a volte da una frangia diritta e impertinente, ma rischiarati da una luce di scanzonata incoscienza.
 
Non ci pensava, Lisa, quel giorno.
Non pensava alle lacrime, alle bugie, ai sotterfugi. Non pensava a niente.
Soltanto c'era il sole, era una giornata di fine ottobre, luminosa e tiepida. Il blu brillante del cielo e il giallo delle foglie che iniziavano a cadere invitavano a star fuori.
Facevano un fruscio allegro, le foglie, sotto le scarpe di Lisa e della sua amica; il ritmo dei passi era una musica, e le giostre erano lì vicino: bastava allungare un po' la strada. Ogni mattina c'erano tanti ragazzi che lo facevano, lo zaino in spalla e la paghetta della settimana in tasca.
Era una giornata troppo bella per chiudersi in un'aula grigia dove le luci erano perennemente accese, e i prof erano così noiosi, sempre a brontolare, e quel giorno c'era anche la verifica di francese!
 
Sono scuri, gli occhi di Lisa.
Nei suoi occhi scuri l'ultima luce dell'autunno aveva brillato spavalda, quando i ragazzi si erano avvicinati. Le solite battute, i soliti approcci.
Avevano qualche anno e qualche euro in tasca più di loro. E anche qualcos'altro.
La prima a provare era stata la sua amica. L'aveva capito subito che non era una semplice sigaretta, quella. Le aveva provate, qualche volta, e non facevano quell'effetto.
Lisa si era sentita un po' stordita, aveva una gran voglia di ridere. No, non era la solita sigaretta.
Lisa non aveva chiuso i suoi occhi scuri, quando il ragazzo più alto l'aveva baciata. La testa le girava un po' e non era poi così piacevole. Il suo alito aveva un aroma strano e lei non aveva nessuna voglia di baciarlo.
"E dai, non fare la paolotta!" le aveva gridato la sua amica, abbracciata all'altro.
Era stato allora che la prof di inglese, che entrava alla terza ora, le aveva viste.
 
 
Sono scuri, gli occhi di Lisa.
Sono lucidi, ora, le ciglia sbattono sempre più in fretta. E' indispettita, perché le viene da piangere e non vorrebbe.
Si è truccata di nascosto, stamattina, nel bagno della scuola, perché la mamma non vuole. Ma ho gli occhi piccoli, mamma lasciameli truccare almeno un po'.
Non sa che cosa dire, stretta tra quelle due. La prof che le fa la predica sembra recitare a memoria una vecchia parte, forse non pensa nemmeno a quello che dice, saranno vent'anni che ripete sempre le stesse cose a ragazzi sempre diversi. La mamma invece continua a recriminare, e piange naturalmente. Forse per commuovere la prof, forse perché sa che facendo così riesce a far sentire Lisa uno schifo. Piantala di piangere mamma, ti odio quando fai così!
Ma la mamma non la smette: "Ma cos'è che ti manca, che cosa vuoi dimostrarci? Non siamo una bella famiglia? Non andiamo d'accordo? Ma perché, PERCHE' l'hai fatto?"
"Perché, Lisa, perché?" continua a menarla anche la prof.
Vogliono farla sentire come se avesse commesso chissà quale delitto… In due, che cosa ci vuole a far sentire in colpa una ragazzina di tredici anni confusa come lei? Ma gli adulti vogliono sempre mettere le cose in chiaro, incasellarle nei loro schemi, sapere in quale cassetto trovare le risposte che cercano. Se lei potesse dar loro una spiegazione, una qualsiasi, quelle due si metterebbero tranquille, con la coscienza a posto, sicure di trovare una soluzione.
 
Gli occhi scuri di Lisa, ora, guardano le scarpe.
Ha una stringa slacciata. Le piacerebbe abbassarsi, con la scusa di allacciarla e scivolare via come un gatto, lasciando lì le due donne a guardarsi in faccia, sbigottite con tutti i loro perché…
Non lo so io, che cosa voglio, perché l'ho fatto, e che cosa volevo dimostrare… Non volevo dimostrare niente. C'era il sole, c'erano le giostre, e la scuola è così noiosa…

Silvia, Novembre 2006



UNA STORIA RELATIVAMENTE OPACA
 
I consigli di classe si erano protratti fino a tardi: mi sentivo la testa vuota e le energie ridotte al minimo. Fortunatamente, non avevo nessun programma per la serata, né fidanzata né amici, e pregustavo la tranquillità del mio salotto, magari a guardarmi un film in santa pace, con il cane accovacciato ai miei piedi.
Parcheggiai sotto casa e alzai lo sguardo verso le mie finestre: la luce era accesa. Me ne stupii, ma non più di tanto. Era ancora buio quando ero uscito di casa, quella mattina, e probabilmente nella fretta avevo dimenticato di spegnere.
Feci per infilare la chiave nella toppa del cancelletto esterno.
Non entrava.
Riprovai, ancora niente da fare.
Fortunatamente, vidi il mio dirimpettaio che stava uscendo a portare la spazzatura.
"Buonasera, signor Ermanno! Hanno cambiato per caso la serratura?"
Mi guardò sorpreso e non rispose.
Salii le scale, diretto al mio appartamento. Ma, avvicinandomi alla porta, udii delle voci. Mi sentii per un attimo la testa girare, controllai se non avessi per caso sbagliato piano. Ma la targhetta sulla porta confermava: "Alberto Bersani".
Per quanto ne sapevo, nessuno era in possesso delle mie chiavi se non mio padre e Gloria, la mia ragazza, ma quelle voci non erano né di mio padre né di Gloria.
Provai l'impulso di scappare, poi sentii montare in me una furia irrefrenabile: chiunque fosse, che ci faceva in casa mia?
Decisi di entrare, pronto ad affrontare la situazione, qualunque fosse.
Di nuovo, la chiave non entrava.
La paura mi bloccò, il tremito alle mani mi impediva i movimenti, ma al tempo stesso l'istinto atavico del possesso mi teneva inchiodato a quella porta a difendere ciò che era mio.
Sentii l'ascensore salire e fermarsi al mio piano. Ne discese il signor Ermanno, che mi guardò ancor più esterrefatto.
Mi sentii un idiota. Provavo il bisogno di spiegare al mio vicino che cosa ci facessi lì, impalato, in mezzo al pianerottolo.
"Ho... perso le chiavi..." balbettai.
Le avevo in mano.
Mi sbirciò in tralice, mentre apriva la porta di casa sua, esitò un attimo, poi entrò.
Fu allora che mi decisi a suonare.
 
La donna che mi aprì con un sorriso meravigliato pareva uscita dalla pubblicità del Glenn Grant o dei Mon Cheri: alta, fasciata in un abito di seta rossa, capelli raccolti e trucco perfetto. Senza nulla togliere a Gloria, un genere che non avrei mai nemmeno osato sognare in casa mia.
"Desidera?" chiese la signora, senza smettere di sorridere.
Allora, che cosa desideravo?
La mia casa, il mio divano e il mio cane, desideravo.
E Birillo era lì, proprio dietro di lei, il mio cocker spaniel con gli occhi dolci come un budino e le orecchie spenzolanti come un Mocio Vileda. Ma quando mi vide, iniziò a ringhiarmi contro e ad abbaiare come credevo non fosse più in grado di fare da almeno dieci anni.
"Buono, Flunch, vediamo che cosa vuole il signore..." disse dolcemente spazientita la signora in rosso.
"Qualche problema, Deborah?" domandò una voce dal soggiorno.
Una voce familiare, troppo. Poi vidi stagliarsi nel vano della porta una figura maschile, anch'essa troppo familiare. Sentii le gambe cedere, la vista annebbiarsi.
Quell'uomo ero io.
Credo a quel punto di avere perso i sensi. Fatto sta che mi ritrovai sul divano, nel salotto di casa mia, con il cane accovacciato ai miei piedi. Ma seduto davanti a me c'ero io, o meglio c'era quel mio alter ego che mi trattava con fredda cortesia.
"Le dico che questa è casa mia, che questo è il mio cane Birillo!"
"E magari quella di là è sua moglie, vero?"
"No, la signora non la conosco, ma io sono Alberto Bersani e questa è casa mia."
"Abbia pazienza, Alberto Bersani sono io, dottor Alberto Bersani se non le dispiace"
"Dottore?"
"Cardiologo, per la precisione. La signora è mia moglie Deborah e il cane si chiama Flunch. Ora, se vuole avere la cortesia di lasciarci in pace... non vorrà costringermi a chiamare la polizia".
Dottor Alberto Bersani? Cardiologo?
Anch'io ero dottore, certo: ero laureato, ma facendo il professore alle scuole medie, non ricevevo spesso questo appellativo.
"Alberto, il signore non si sente bene..." intervenne dalla cucina la signora in rosso.
"Me ne vado" balbettai. "Solo... scusate... posso usare il bagno?"
Era vitale per me, in quel momento, potermi specchiare.
Eccomi là, nel bagno di casa mia, il solito specchio, il solito Alberto, solo più pallido e scarmigliato... ma come poteva quello là non accorgersi che avevamo la stessa faccia? E Birillo, perché mi ringhiava contro?
Me ne andai, solo come un cane, anzi senza cane, raccogliendo distrattamente dal tavolino quel mazzo di chiavi inservibili, inutile retaggio di quel che rimaneva della mia vita.
La macchina, fortunatamente, c'era ancora, le chiavi funzionavano.
Rimasi lì a lungo, incapace di decidere il da farsi.
Certo, mi si poteva definire una persona relativamente opaca, uno qualsiasi insomma. Relativamente opaca era soprattutto la mia professione, in rapporto alle brillanti carriere e i brillanti stipendi dei miei amici, giovani laureati alla scalata del successo. Ma... scomparire completamente, diventare niente e nessuno, questo poi!
Fossi andato alla polizia, mi avrebbero preso per pazzo. Da mio padre, da Gloria, avevo il terrore che non mi riconoscessero. Al solito bar, dagli amici... ma lo sguardo diffidente del signor Ermanno mi si imponeva alla mente come un monito.
Alla fine decisi e mi avviai.
Suonai il campanello risoluto, con ostentata disinvoltura.
Mi venne ad aprire un vecchio in pigiama.
"Sì?"
"Mi scusi, cercavo il signor Bersani. Amedeo Bersani. E' mio padre".
"Amedeo Bersani sono io" mi rispose lo sconosciuto. "Ma lei chi è? Io non la conosco" concluse, sbattendomi la porta in faccia.
Con uno sforzo di volontà suonai nuovamente.
"Non sa che ore sono?" rispose la voce dall'interno. "Vada a casa sua a dormire, invece di fare scherzi idioti alla gente per bene alle dieci di sera!"
Risalii in macchina.
Controllai nuovamente il mio volto nello specchietto retrovisore: ma sì, ero io, quella era la mia solita, insignificante, brutta faccia, relativamente opaca anche quella! Ma... Che diavolo stava succedendo a tutto e a tutti? E che fine aveva fatto mio padre?
Con un vuoto stretto intorno al cuore, mi rimisi per strada.
Parcheggiai al solito posto. La luce nella sua stanza era accesa. Il nome sul campanello era il suo: Gloria Morelli.
Due squilli ravvicinati, il nostro segnale. Mentre si accendeva la luce dell'anticamera, le gambe paralizzate dall'angoscia mi impedirono di fuggire.
"Amore!" gridò lei illuminandosi e gettandomi le braccia al collo.
Inebriato nel profumo dei suoi capelli, stringevo con voluttà la sua vita sottile: il suo amore mi restituiva alla mia vita, finalmente, alla mia identità, ero ancora io, Alberto...
"Marco, amore mio" mormorava Gloria tra un bacio e l'altro. "Sei stato un pazzo a venire a casa mia, pensa se Alberto decide di farmi un'improvvisata... Vieni, dài, entra in casa!"
"Marco? MARCO?!?!?" urlai, strappandomela di dosso. "Ma sei scema? Mi fai le corna? E Marco chi, quell'idiota del tuo collega?"
"Ma sei impazzito?" balbettava lei tra le lacrime. "Marco, che cosa dici?"
"MA IO SONO ALBERTO!" urlai come un pescivendolo ubriaco. "ALBERTO!"
La gettai a terra con uno spintone e me ne andai.
Meglio tornare dalla signora in rosso, quella dei Mon Cheri.
"Mi faccia entrare, la prego. Sono disperato" le dissi con una tale angoscia nella voce che non poté dirmi di no. Anche suo marito, quello con la mia faccia, pareva meno ostile e più preoccupato. Birillo -Flunch si mise a mugolare, sdraiato sul tappeto.
Raccontai la mia storia. Si rivelarono due ascoltatori discreti e intelligenti. Certamente pensavano che fossi pazzo, ma non me lo diedero a vedere.
"E se questa non è più casa mia, non so proprio dove andare!" conclusi.
La signora in rosso alzò uno sguardo implorante verso il cardiologo, come un bambino che ha trovato un cane e chiede alla mamma il permesso di tenerlo.
"Che dici, Alberto? Potrebbe rimanere qui... per stanotte"
Lui sospirò, scuotendo la testa. Conoscevo bene quel gesto, stava per dire di sì.
"Credo che dovrebbe vederlo uno psichiatra. Chiamo il dottor Lazzati. Lei intanto" continuò, rivolto a me "si stenda un po' sul divano. Deborah le preparerà una tisana".
Ce l'avevo fatta, alla fine, a riavere il mio divano, e anche il cane non mi guardava più con occhi tanto ostili. Non si può dire nemmeno che mi mancasse il film, solo che anziché guardarlo, ci stavo dentro.
Accovacciato in quell'oasi di tranquillità, cominciai a considerare tutta quella situazione con occhi diversi. In fondo, che cosa era mai accaduto finora nella mia vita, di particolare? Niente, le solite cose che capitano a tutti. Chi ero io? Che cosa avevo fatto di notevole, degno di essere ricordato? Per la prima volta mi capitava qualcosa di veramente interessante, per la prima volta non avevo idea di quel che sarebbe accaduto tra qualche minuto, domani e tra un anno.
Mi sentii quasi soddisfatto, sentivo di là rumore di stoviglie e tra un istante una donna affascinante mi avrebbe portato una camomilla...
"Alberto, ma che fai, dormi? Così stravolto solo per i consigli di classe?"
Balzai sul divano.
"Gloria! Che... che ci fai qui? Come sei entrata?"
"Ho suonato ma non rispondevi, allora sono entrata con le chiavi...Ma cos'è quella faccia, stai male?"
"E... mi hai chiamato Alberto?"
"Ma tu sei proprio matto! Come avrei dovuto chiamarti, scusa?"
"Siamo soli? Non c'è nessun altro?"
"C'è Birillo. Nessun altro, no. Ma da quanto tempo stai dormendo? Non hai neanche mangiato..."
Allora... era tutto un sogno. La mia avventura incredibile, la storia che avrei potuto raccontare lasciando a bocca aperta il mio uditorio, altro non era che un banalissimo sogno.
Una storia qualsiasi, di quelle che possono capitare persino ai tipi qualsiasi come me.
Una storia... relativamente opaca.

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Agg. 05-04-2008